Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan
Newsletter n.480 del 26 febbraio 2014
Ferdinando Leotta
La giusta imposta, secondo l’insegnamento sociale della Chiesa, deve possedere i seguenti requisiti:
– la proporzionalità e l’equità: il carico fiscale dev’essere distribuito secondo le reali possibilità dei contribuenti, trattando in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni differenti;
– la non eccessività della pretesa: non si deve imporre una pressione fiscale dannosa per le iniziative private o che stimoli l’evasione fiscale;
– il rispetto del principio di sussidiarietà: la gestione della cosa pubblica non deve moltiplicare l’apparato burocratico né convertire lo Stato in Stato assistenziale;
– la contestabilità della pretesa impositiva: devono essere garantiti, sul fronte delle entrate, il diritto al contradditorio e la tutela giurisdizionale e, sul fronte della spesa, una trasparente amministrazione del denaro pubblico.
Una volta individuati in astratto i requisiti della giusta imposizione, occorrerà verificarne il concreto rispetto nella legislazione vigente nei vari ordinamenti.
Il principio di proporzionalità è stato recepito, ad esempio, nell’art. 53, 1° comma della Costituzione della Repubblica Italiana, secondo cui «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Tuttavia, come gli studiosi della materia sanno bene, il 1° comma dell’art. 53 è di chiarezza solo apparente.
Negli ultimi decenni è stato infatti diversamente letto e applicato, al punto da figurare talvolta svuotato di un preciso contenuto, a causa di una interpretazione che ha assorbito il principio della capacità contributiva nel principio di eguaglianza, partendo dal presupposto che i tributi hanno come prima finalità la ridistribuzione della ricchezza, più nobile rispetto alla funzione meramente corrispettiva [1].
Corollario di questa impostazione è l’inevitabile affievolimento della proprietà che, ricorda anche la Dottrina sociale, è un diritto preistituzionale tipico della persona. Le conseguenze della interpretazione progressiva della capacità contributiva, unita al principio positivistico che il legislatore fiscale sarebbe libero di ripartire i carichi pubblici scegliendo i presupposti di imposizione secondo le sue autonome valutazioni di rilevanza sociale e di virtualità economica, si riflettono sulla pressione fiscale, che non di rado supera il 50% del reddito effettivo [2], contraddicendo anche il secondo requisito della giusta imposta: la non eccessività della pretesa impositiva.
Simili livelli di prelievo, oltre a porre seri interrogativi sulla moralità dell’imposizione, legittimano l’interrogativo: «Esiste un limite, costituzionalmente presidiato, varcato il quale un’imposta diventa illegittima perché eccessiva, espropriativa, ecc. ecc.?» [3].
Non si tratta purtroppo di un interrogativo meramente teorico, ma assolutamente concreto se solo si pone attenzione all’incidenza dell’IRAP sui bilanci delle imprese o ai meccanismi della fiscalità immobiliare, che prevede la tassazione di un reddito virtuale di immobili sfitti, la indeducibilità dal reddito fondiario dei costi di manutenzione e di risanamento degli immobili ad uso diverso da quello abitativo, nonché la notissima gravosa imposta patrimoniale chiamata IMU.
In molti di questi casi siamo di fronte ad una vera e propria fiscalità confiscatoria, poiché il tasso impositivo globale è talmente elevato da costringere il contribuente, non bastando il suo reddito disponibile, a mutilare il proprio patrimonio per soddisfare l’obbligazione tributaria [4].
Simili modelli fiscali non possono essere considerati moralmente vincolanti neppure invocando le esigenze di contenimento del deficit pubblico, perché, secondo la Dottrina sociale cattolica, l’«imposta non può mai essere trasformata da parte dei pubblici poteri in un comodo strumento per estinguere il disavanzo causato da un’amministrazione imprudente» [5].
La giustizia fiscale, come si è detto, esige anche il rispetto del principio di sussidiarietà, cioè la gestione della cosa pubblica senza moltiplicare l’apparato burocratico e senza convertire lo Stato in Stato assistenziale [6]. Nella Centesimus annus, definita la Magna Charta della dottrina sociale [7], si considera ampiamente il ruolo dello Stato nel settore dell’economia.
Certamente l’economia di mercato non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Il principale compito dello Stato – infatti – è quello di garantire la sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà.
Di conseguenza viene il compito di sorveglianza e di guida nell’esercizio dei diritti nel settore economico; tuttavia la prima responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società.
Fermo restando che lo Stato può intervenire qualora situazioni particolari di monopolio creino ostacoli allo sviluppo, nel documento si sottolinea che allo stesso competono vere e proprie funzioni di supplenza in situazioni eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese, troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro compito.
Simili interventi di supplenza, giustificati da urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente l’ambito dell’intervento statale in modo pregiudizievole per la libertà sia economica che civile.
La propensione all’ampliamento della sfera d’influenza dello Stato, che si pone alle origini del cosiddetto Stato del benessere, non sempre si è rivelata opportuna e rispettosa dei singoli e delle comunità, né adeguatamente efficiente.
La Dottrina sociale della Chiesa ribadisce, pertanto, l’importanza del principio di sussidiarietà, secondo cui una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune. «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» [8].
Molti anni prima, nel 1948, Pio XII, ricevendo in udienza i partecipanti al Congresso dell’International Fiscal Association, aveva già rilevato che l’aumento dei bisogni finanziari delle nazioni non risiedeva solo nelle tensioni interne ed internazionali ma anche e, per certi aspetti, soprattutto, nella crescita incontrollata delle funzioni statali «dettata troppo spesso da ideologie false o malsane» [9], totalmente distanti dal servizio del bene della comunità. Il Pontefice indicava, già allora, nella mancanza di principi fondamentali chiari, semplici e solidi, la causa della caduta della scienza e della politica delle finanze al piano di una tecnica e di una manipolazione puramente formali.
Anche nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, nei paragrafi dedicati alla revisione delle politiche di assistenza e di solidarietà sociale, si richiama il principio di sussidiarietà e si suggerisce l’attivazione di sistemi previdenziali integrati dalla partecipazione dei privati [10].
L’ultimo requisito della giusta imposizione riguarda la trasparenza amministrativa e il diritto di contestare le tasse ingiuste. Con l’espressione diritto di contestare le tasse ingiuste s’intende il diritto dei contribuenti alla difesa giurisdizionale e amministrativa rispetto alla pretesa impositiva, nonché la libertà di pensiero nell’esternare le ragioni culturali e politiche del proprio dissenso verso una determinata imposizione tributaria.
Sul fronte delle entrate la trasparenza esige la semplicità nella normazione, la conoscenza dei criteri selettivi di controllo, l’adeguata motivazione dei provvedimenti, il rispetto del contraddittorio e dell’onere della prova, l’uso corretto delle presunzioni. La trasparenza della fiscalità interessa anche le decisioni di spesa, per garantire che, in virtù di un’oculata amministrazione, si evitino sperperi dannosi e si persegua il bene comune.
La trasparenza, come facilmente si comprende, è aspetto strettamente connesso alla moralità dell’imposizione.
[1] Gianni Marongiu, La crisi del principio di capacità contributiva nella giurisprudenza della Corte costituzionale dell’ultimo decennio, in Diritto e Pratica Tributaria, parte I Cedam, Padova 1999, pp.1757-1775.
[2] Franco Gallo, op. cit., p.17, ma anche Riccardo Roggeri, Il total tax rate è arrivato al 68,6%, Italia Oggi 21 gennaio 2012
[3] Gianni Marongiu, art. cit., p.1773.
[4] Paul-Marie Gaudemet, Les Protections constitutionnelles et légales contre les impositions confiscatoires, in Revue internationale de droit comparé, anno 42, n. 2, Parigi, aprile-giugno 1990, pp.805-813 (p. 808).
[5] Pio XII, Discorso al X Congresso dell’Associazione Fiscale Internazionale, indetto a Roma dal 1° al 5 ottobre 1956, del 2 ottobre 1956, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XVIII,pp. 505-510 (pp. 508-509).
[6] Francesco Gentile, Ordinamento giuridico tra virtualità e realtà, Cedam, Padova 2001, pp. 67-119.
[7] Giampaolo Crepaldi e Stefano Fontana, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa. Uno studio sul Magistero, Cantagalli, Siena 2006, p. 53.
[8] Giovanni Paolo II, Enciclica «Centesimus annus» nel centesimo anniversario della «Rerum Novarum», 1° maggio 1991, n. 48
[9] Pio XII, Ai Congressisti dell’Istituto Internazionale di Finanze Pubbliche, 2 ottobre 1948, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. X, 237-241 (p. 240).
[10] Caritas in veritate, n. 60<