L’Italia settimanale 2 febbraio 1994
Giuseppe Sermonti
La scienza produce conoscenze e strumenti, ma poi sta all’uomo (ai politici, ai militari, agli industriali) farne buono o cattivo uso. Questa è la tesi della neutralità della scienza. Mettiamo: la scienza scopre i batteri, sta poi all’uomo utilizzarli per farne vaccini o armi batteriologiche. Ancora: la scienza sviluppa l’ingegneria genetica e sarà poi l’uomo a scegliere se curare tare ereditarie o costruire Frankenstein.
La tesi della neutralità della scienza, che fu in auge dopo l’ultima guerra – quando la scienza ci diede missili e pennicillina, bombe atomiche e energia nucleare, aggressivi chimici e Ddt – è stata oggi quasi del tutto abbandonata, salvo da qualche bambinone sulla cattedra.
In primo luogo, perché è risultato evidente che gli scienziati non si limitano ad accendere la lampadina dell’idea, ma partecipano ai progetti fino in fondo. I fisici di Los Alamos non si limitarono a bombardare atomi, ma condussero il “progetto Manhattan” fino negli ultimi dettagli, fino nella scelta di un paio di città giustamente grandi e popolose da sterminare: Hiroshima e Nagasaki.
In secondo luogo perché la scienza, come sostenne Ivan IIlìc, tende ad avocare a sé la competenza su tutto il conoscere e l’operare umano. Essa si è posta come unico criterio di verità e con la biomedicina ha assunto la gestione della concezione, della nascita, della riproduzione, della morte e dei morti.
La critica più radicale alla neutralità della scienza è venuta da un filosofo, Emanuele Severino, che ne ha discusso su II Corriere della Sera. Si può considerare la scienza un docile strumento, per il bene e per il male – egli ragiona – «solo se la moderna tecnica scientifica non possiede una propria morale, che con la sua esistenza potrebbe trovarsi in contrasto con la morale delle forze che intendono servirsi di essa».
Ma la scienza prende posizione rispetto alla morale. Lo scrisse chiaramente Monod: «La scienza attenta ai valori… Essa distrugge tutte le ontogenie mitiche o filosofiche su cui la tradizione animistica ha fondato i valori, la morale, i doveri, i diritti». Severino non rimane nel vago parlando di scienza: egli ne identifica il vero cuore nel metodo sperimentale.
L’ identificazione è pertinente, particolarmente in riferimento alla scienza moderna. Ciò che risulta meno convincente è l’identificazione della scienza con la realizzazione di scopi pratici, che è piuttosto il fine della tecnologia. C’è una vasta area della scienza sperimentale che non persegue scopi. Essa si pone come fine la conoscenza, una conoscenza di tipo operativo, d’accordo, ma non finalizzata. Per la verità, di regola, questa non conduce a nessun risultato concreto, seppur si faccia pagare per quello.
Più che realizzare risultati, la scienza sperimentale si adopra ad interferire con il normale svolgimento della natura. Essa recide nervi per scoprirne il percorso, tiene le piante al buio per dimostrare la funzione del sole, esclude il rapporto tra i sessi per scoprire la riproduzione, accieca, avvelena, soffoca, spegne. Individua poi come causa del fenomeno ciò che, sottratto, ne impedisce il compimento.
Diceva Galilei: «Causa è quella che posta segue l’effetto e levata manca l’effetto». L’esperimento consiste soprattutto nel levare ciò che già c’è, laddove il porlo daccapo è piuttosto il “controllo”. Quello che dico vale soprattutto per la biologia, in cui si parte da composizioni già date, da complessità da risolvere. Se dove il virus non c’è, od è eliminato, manca la malattia, anche se la produzione artificiale della malattia nell’uomo non è mai realizzabile e nell’animale non è mai significativa.
Precisato questo punto di dissenso, torno a concordare perfettamente con Severino sull’affermazione che la moderna tecnica scientifica possiede una propria morale. Il suo metodo è quello di violare la natura, per costringerla a confessare i suoi segreti, è quello di scomporla, di disanimarla, di dissolverla, per estrarre gli elementi componenti. Per ottenere la conoscenza la scienza deve dunque realizzare ciò che per la morale corrente è un “male”.
«Come mai si potrebbe costringere la natura a rivelare i propri segreti, – scrive Nietzsche – se non combattendola vittoriosamente, e cioè con mezzi innaturali? Io vedo appunto impressa questa teoria nell’atroce triplicità del destino d’Edipo: Io stesso uomo che scioglie l’enigma della natura, vale a dire della sfinge biforme, deve anche infrangere le più sacre leggi naturali come uccisore del padre e marito della madre».
La razionalità scientifico-tecnologica non è dunque neutrale rispetto alla morale. Essa, per concludere con Severino, «non è amorale: è immorale. E la morale non è neutrale rispetto a questa razionalità: è irrazionale».