Richiesta di democrazia e pluralismo, rifiuto dell’uomo forte, disponibilità verso l’Occidente: un’analisi della protesta che sta interessando il Nord Africa, ma anche tutto il Medio Oriente
di Olivier Roy
Da quando è Scoppiata la rivolta in Medio Oriente, i giovani che hanno lanciato il movimento di protesta sono stati raggiunti da un crescente numero di dimostranti. Ciò spinge a chiedersi: dove finirà la rivolta? Quali saranno le sue conseguenze geo-strategiche?
Sarebbe un atto di presunzione pretendere di avere risposte esatte in questo momento (18 marzo 2011), mentre proprio in Libia è scattato un intervento militare; ma non potremo fare a meno di andare in profondità circa tali questioni.
Se in alcune regioni la rivolta porta da un estremo all’altro (Gheddafi le soffocherà nel sangue oppure scomparirà dalla scena), in altre si assiste a un esercizio di limitazione del danno, nel quale il regime da l’impressione di voler cambiare mentre tenta di mantenere il cambiamento al minimo. E se, per ora, le potenze occidentali stanno guardando con favore al processo di democratizzazione, nondimeno sono ossessionate dal bisogno di mantenere la stabilità, vale a dire lo status quo strategico: una pace fredda tra Israele e il mondo arabo, e il tentativo di costruire un fronte unitario per isolare l’Iran. In un certo numero di società arabe i conservatori di tutti i partiti si stanno pure allarmando della piega che probabilmente prenderà il movimento democratico e stanno cercando un compromesso.
Un conflitto generazionale passa attraverso l’opposizione alle varie autocrazie. Questo è particolarmente chiaro nel caso dei Fratelli Musulmani in Egitto. La vecchia generazione che controlla l’apparato del partito è ancora sottomessa al culto del leader carismatico. È conservatrice da un punto di vista sociale e teme che possano diffondersi disordini. Sebbene accetti il pluralismo politico, la sua cultura non è democratica e diffida dalla libertà di espressione e di parola.
Un partito tradizionalista come quello dei Fratelli Musulmani potrebbe forse diventare alleato di un esercito alla ricerca di interlocutori che condividano il desiderio per l’ordine e il rifiuto dei nuovi movimenti sociali? Nella regione, in assenza di elementi provenienti dal movimento stesso, coloro che stanno gestendo la transizione provengono dalle fila del vecchio regime. Non hanno accolto la cultura politica dei dimostranti. Rimangono chiusi in una mentalità autoritaria, reclamando un ritorno alla normalità.
Non capiscono che indire le elezioni e annunciare una manciata di riforme non è sufficiente perché la gente non scenda più in strada. Sempre più la disoccupazione e la sottoccupazione tra i giovani stanno guidando le proteste che mirano a una fine del monopolio dell’economia da parte di un’elite. In tutte le regioni coinvolte, a eccezione della Tunisia, l’esercito è parte di quella élite.
È chiaro che, nella maggior parte dei casi, l’opposizione “vecchio stile” sarà tentata di cercare un accordo con le élite le quali, per il momento, stanno promettendo di ristabilire un governo che di certo si mostrerà più aperto, ma non per questo smetterà d’essere autoritario. La divisione critica in questo frangente è più generazionale che ideologica. Una nuova generazione di Fratelli Musulmani, già nota nella sfera pubblica e in internet, sta assoggettando i princìpi della Fratellanza alla prova della democrazia e della libertà di espressione.
Questa nuova generazione si è unita ai manifestanti in piazza Tahrir al Cairo contro il parere della leadership. Lo stesso è accaduto alla giovane generazione dei copti cristiani, che non vogliono più essere rappresentati dal loro patriarca Shenouda III.
Il problema sta nel fatto che i gruppi al potere, come anche una parte dell’abituale opposizione, non hanno capito quali caratteristiche abbia il nuovo movimento di protesta. Che è non violento, parla in nome della democrazia e del pluralismo e non utilizza l’ideologia per mascherare le divisioni sociali, bensì accetta tutte le fasce della società tranne la famiglia reggente, disarma i vecchi strumenti di repressione caratterizzati da una miscela di violenza e corruzione.
A essere rifiutata è una cultura politica che in Medio Oriente ha resistito negli ultimi 60 anni: l’apparente unità nei confronti di una causa specifica (gli arabi, l’islam o la Palestina) e di un leader (lo zaini), uno Stato fondato sui servizi segreti (il mukhabarat) e la denigrazione di tutti gli oppositori come traditori al soldo di potenze straniere (solitamente Stati Uniti o Israele).
Il movimento di protesta è sia democratico sia nazionalista, ed è probabile che migliori la posizione regionale e internazionale di quei territori in cui si diffonde, perché instaurerà governi con una legittimità maggiore e di conseguenza con maggiore libertà di manovra. Il rapido diffondersi del movimento in tutto il Medio Oriente apre un’ulteriore questione: in che misura il processo di democratizzazione (se alla fine avrà successo oppure no) cambierà la bilancia strategica del potere?
Ciò che sta succedendo nel Bahrain è indice significativo del possibile impatto geo-strategico. La separazione religiosa là dove una minoranza sunnita governa una maggioranza sciita fa riflettere sul fatto che una vittoria per la democrazia farà cadere il Bahrain nell’orbita dell’Iran, alterando considerevolmente l’equilibrio di potere nel Golfo, non da ultimo perché il Bahrain diventerebbe un faro per gli sciiti in Arabia Saudita.
Questa, almeno, è l’analisi preferita a Riad, che giustifica il continuo e inequivocabile sostegno saudita per la famiglia regnante del Bahrain. Tuttavia, l’opposizione del Bahrain (che, per una volta, è associata a un partito politico) non si presenta come un gruppo religioso, ma come movimento che richiama i cittadini di tutte le confessioni.
I suoi sostenitori sventolano la bandiera nazionale – quella della famiglia al-Khalifa -, non il vessillo sciita o i colori dell’Iran. Hanno poche connessioni con la teocrazia iraniana che ha posto agli arresti domiciliari uno dei loro leader, l’ayatollah Shirazi. E la scuola dominante del pensiero religioso nel Bahrain, l’akhbarismo, non è la stessa che predomina in Iran. In breve, l’opposizione del Bahrain, analogamente a quelle in Tunisia e in Egitto, ha assunto una sfumatura nazionale.
La monarchia del Bahrain è quindi a un punto di svolta: o continua a identificarsi con la Bani Utbah, minoranza tribale che conquistò il potere nel XVIII secolo, oppure accetta una concezione di cittadinanza più ampia in grado di attraversare il divario religioso, che è proprio ciò che i manifestanti hanno chiesto.
Nazionalizzare se stessa è ciò che la monarchia marocchina è riuscita a fare attraverso la sua lunga storia. In Marocco la nazione, per la maggior parte, si è identificata con la monarchia assicurando durante l’epoca ottomana di essere l’unico Stato arabo veramente indipendente e ha mantenuto la propria identità nazionale anche sotto il protettorato francese. Oggi il movimento di protesta del Marocco, contrariamente a quelli degli altri Stati nell’area, non sta tentando di minare il sistema in sé.
Si tratta di riforme più che di rivoluzione e di una graduale transizione verso una monarchia costituzionale. Precisato questo, resta il fatto che il vasto entourage del re Mohammed VI tema sviluppi che potrebbero rendere più trasparente il potere e privarlo dei privilegi di cui gode.
Nello Yemen il governo sta puntando sulle antiche divisioni tra i popoli tribali e gli abitanti delle città, e su coloro che separano le tribù del nord storicamente ostili all’elite urbana dai democratici. Sullo sfondo si trova il movimento secessionista del sud, che percepisce se stesso come il principale sconfitto del ricongiungimento. Il presidente Ali Abdullah Saleh avrà qualche difficoltà a mobilitare le tribù il cui intervento, se mai avverrà, sarà cruento. Anche in Libia l’opposizione deve scontrarsi con le alleanze tribali, nonostante sembri sufficientemente dinamica per superarle.
In Siria, dove i ricordi del massacro di Hama del 1982 dei membri dei Fratelli Musulmani sono ancora vivi, la minoranza alauita che detiene il potere si sente indubbiamente minacciata e, come Gheddafi, scatenerà la lotta. Nel frattempo, in Algeria l’ombra dei dieci anni di guerra civile sta evitando che monti la protesta. In quella regione il regime ha stabilito una nuova forma di auto-repressione tra la popolazione: non si conosce chi sta massacrando chi. Questo permette all’esercito di tenere il potere più o meno serenamente e con discrezione.
In definitiva, giocando sulle divisioni culturali, i regimi autoritari in Medio Oriente indeboliscono i loro stessi Stati, mentre le forze democratiche stanno spingendo quegli Stati verso una grande omogeneizzazione nazionale. Uno dei traguardi di quest’onda di democratizzazione potrebbe coincidere con un rafforzamento del nazionalismo, sebbene governato dalla realpolitik anziché da ideologie sopranazionali di qualunque sorta.
In effetti, qualsiasi sia la portata del suo successo, è improbabile che il movimento democratico crei nuove formazioni geo-strategiche (ad esempio uno scontro tra sciiti e sunniti). Al contrario, è probabile che condurrà a un rafforzamento dei nazionalismi sulla base di una gestione più soddisfacente delle divisioni sociali e religiose. Tuttavia, se sarà il nazionalismo a trionfare, si tratterà di un nazionalismo molto meno ideologico.
Questo scenario è probabile, anche se finora si è potuto solo osservare uno sviluppo inatteso nella diminuzione del ruolo svolto nella politica regionale da parte del conflitto israelo-palestinese. Allo stesso tempo, questo isolerà Israele, il quale perderà il suo status tanto declamato di unica democrazia in Medio Oriente.
È interessante notare quanto poco i nuovi movimenti si siano riferiti a Israele e alla Palestina, specialmente sapendo che la situazione è servita finora a vanificare l’evoluzione politica altrove a causa del modo in cui è stata manipolata non solo dai regimi, ma anche da una certa sinistra occidentale terzomondista, per la quale niente potrà cambiare in Medio Oriente finché la questione della Palestina non si sarà risolta. La cecità nei confronti delle società arabe non è stata l’unica prerogativa dei governi occidentali.
Se l’indifferenza dei manifestanti verso Israele e la Palestina ha l’effetto di emarginare il governo di Tel Aviv, essa produce conseguenze anche su Hezbollah in Libano. Per Hezbollah il movimento per la democrazia pone due tipologie di problemi: in primo luogo, minaccia di diminuire il proprio ruolo regionale per rinforzare la posizione degli Stati nazionali a scapito di ideologie pan-arabiste e pan-islamiste; in secondo luogo, il movimento alla base di quegli Stati sostituisce l’appartenenza religiosa con la nozione di cittadinanza.
Hezbollah, che coincide sia con un partito religioso sia con un movimento di avanguardia ideologica, perderà quindi alcune leadership morali che ha costruito in contrasto con i regimi costretti a negoziare in modo subdolo con Israele.
Rimane da analizzare come si comporteranno i nuovi regimi emergenti nei confronti di Israele. È probabile che essi mantengano una pace fredda, la quale tuttavia costringerà Israele ad affrontare le proprie contraddizioni e le potenze occidentali a prendersi carico delle loro responsabilità.
Un’altra vittima collaterale della democratizzazione sarà il fronte contro l’Iran, non tanto perché l’Iran diventerà popolare, quanto piuttosto perché i nuovi reggenti non ameranno le crociate all’estero e non avranno più bisogno di dimostrare le loro buone intenzioni a un Occidente che, dal canto suo, deve riconoscere la volontà del popolo.
(Traduzione di Laura Zanella e Lorenzo Fazzini)
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Oliver Roy è uno dei più noti islamologhi contemporanei. Direttore di ricerca all’Ecole des hautes études en sciences sociales (Ehess) e e all’lnstitut d’études politiques (lep) di Parigi, insegna all’Istituto universitario europeo di Firenze Tra i suoi libri ricordiamo Global muslims Le radici occidentali del nuovo Islam (2003),.L’impero assente.L’illusione americana e il dibattito strategico sul terrorismo (2004) e La santa ignoranza. Religioni senza cultura (2009)