«La collera tra fratelli è feroce e diabolica»
di Gianni Livi
Yasmine (il gelsomino) è il termine in voga tra i giovani arabi per indicare la rivolta, la «primavera araba». «The scent of jasmine spreads» («il profumo del gelsomino si diffonde»), ha scritto poeticamente l’Economist di Londra il 20 gennaio 2011, avvertendo che «dopo l’esplosione della protesta in Egitto, i leader arabi debbono tutti stare attenti».
Non prevede combattimenti a terra ma solo le misure per una «no fly zone» (zona nella quale gli aerei libici se si alzeranno in volo potranno essere abbattuti) e non cita né la deposizione della «Guida Suprema» Gheddafi, né la sua eliminazione fisica. Il testo si presta a molte incertezze. Più chiara la dichiarazione del presidente americano Obama: «Gheddafi deve andarsene».
Le incognite di ogni conflitto
Un vecchio proverbio dice: «La guerra si sa quando inizia, ma non si sa come e quando finirà». Ogni guerra «moderna» comporta distruzioni di armamenti, di aerei, devastazione di abitazioni, morti civili e militari. Alla fine si accumulano i resti dei carri armati e dei cannoni (per fonderli o per fabbricare altre armi) e si prepara un ossario per i corpi dei caduti, almeno per i resti di quelli che è stato possibile raccogliere.
L’Agenzia Sir, della Conferenza episcopale italiana, ha tentato una sintesi del «caso Libia»: «Occorre essere chiari: la guerra, qualunque essa sia, non è mai una soluzione positiva in sé, poiché apporta morti, sofferenze e distruzioni, e non può essere considerata come una soluzione definitiva ed efficace.
Dopo i bombardamenti, si deve ricostruire, sia materialmente sia politicamente e moralmente. Tanto prima si calmeranno i venti di guerra, meglio sarà. Ma l’impegno della Comunità internazionale, da Tripoli a Bengasi, va nel senso di una “ingerenza umanitaria” per soccorrere un popolo martirizzato e oppresso dal suo leader, che aprirà nuove strade verso la democrazia e la ricostruzione».
Bouazizi come Jan Palach
La primavera araba è iniziata in Tunisia in pieno inverno, il 17 dicembre, nella cittadina di Sidi Bouzid nel Sud. La polizia sequestrò un banchetto di frutta e verdura con il quale il giovane Mohamed Bouazizi, laureato ma senza lavoro da alcuni anni, cercava di sbarcare il lunario. Il giovane reagì all’atto della polizia, che gli aveva tolto il mezzo di sopravvivenza, dandosi fuoco. Il che non è usuale nei Paesi arabi.
L’agonia in ospedale del giovane durò 14 giorni e alla fine il presidente Ben Ali, sempre vestito di nero e rigido come un ombrello, visitò il giovane in fin di vita. Gesto ormai inutile. Le fiamme che divorarono il giovane Mohamed Bouazizi avevano lasciato le scintille per accendere una rivolta in tutto il Paese (6 milioni di abitanti).
Il nome del giovane Bouazizi passerà probabilmente alla storia, come quello di Jan Palach, il giovane ceco che si diede fuoco nella piazza San Venceslao a Praga, per protestare contro l’invasione sovietica del 1968, ordinata da Mosca per reprimere il «socialismo dal volto umano» che si era manifestato con la «primavera di Praga». Come nella piazza greca, l‘agorà, luogo di colloqui, di scambi di opinioni, di negoziati, le piazze arabe sono state il cenacolo degli incontri, delle manifestazioni, delle proteste di uomini e donne, velate e non, contro il potere tirannico.
Nella piazza della Libertà a Tunisi, nella piazza Tahir al Cairo, nella piazza della Perla a Manama (capitale del Bahrein), nella piazza dell’Università nello Yemen, nella piazza Verde a Tripoli e in altre piazze arabe si sono mosse le folle per reclamare più potere d’acquisto di fronte al rincaro dei prodotti alimentari, più diritti, più giustizia.
Anche in Marocco, nonostante le recentissime «aperture alla società civile» del Re, vi sono state riunioni di protesta, come in Algeria, ove le sommosse degli studenti sono state «calmate» dalla polizia. Sorpresa per le manifestazioni in Siria, nella cittadina del sud Darà, e anche in Iran.
Nello Yemen il popolo chiede da tempo con manifestazioni quotidiane, nella piazza vicino all’università, le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, da 32 anni al potere, che continua a sognare, poco realisticamente: «II popolo è con me» e propone di andarsene nel 2012.
«No!» hanno risposto i manifestanti ai quali si sono aggiunti alti gradi dell’esercito e della diplomazia cha hanno rassegnato le dimissioni a Sana’a e nei loro posti all’estero, all’Orni e altrove. La repressione della polizia è stata violenta provocando quasi cento morti nei primi giorni, con i carri amati schierati nella capitale pronti ad aprire di nuovo il fuoco. Invano il Segretario generale dell’Orni, Ban Ki-Moon, si è recato a Sana’a per cercare di «avviare il dialogo» tra presidenza e manifestanti.
I compromessi delle democrazie
In generale le democrazie trovano accomodamenti con i dittatori, finché sono al potere, e arrivano a compromessi scioccanti, come hanno mostrato i recenti viaggi del colonnello Gheddafi a Parigi e a Roma (giugno 2009). Alloggio nella sua tenda beduina (climatizzata), protezione assicurata da giovani amazzoni in tuta mimetica, armate di fucile mitragliatore, orari «flessibili» per gli appuntamenti con personalità politiche, distribuzione di copie del Corano, accompagnate da una somma di danaro, come «indennità di partecipazione», in una riunione con circa 200 giovani ragazze, di preferenza di aspetto gradevole.
Come capo dell’Unione africana, Gheddafi accolse a Sirte (la sua città) i leader africani, arabi e i 27 Capi di Stato o di governo dell’Unione europea per il terzo summit Africa-Europa. Le belle e volenterose dichiarazioni per lo sviluppo, la pace, la cooperazione tra i due continenti, vergate nel comunicato finale, sono state consegnate alla storia.
Quanti decenni fa? Era solo il 30 novembre del 2010, poche settimane prima dell’inizio della rivolta araba in Tunisia.
Dal «Yes, we can» alla «No fly zone»
Le parole del Presidente degli Stati Uniti, nel suo discorso al Cairo, il 4 giugno 2009, sono forse rimaste impresse nelle menti dei giovani arabi. «Yes we can», possiamo collaborare; «rispettiamo l’islàm e lo giudichiamo atto al mondo moderno». Il suo appello all’intesa e alla collaborazione tra gli euro-americani e i musulmani ha fatto strada nelle coscienze degli arabo-musulmani.
In effetti, nota Béchir Ben Yahmed, fondatore del settimanale Jeune Afrique, l’effetto Obama si ritrova, in filigrana, nelle parole d’ordine dei giovani che si sono sollevati contro le dittature arabe. Obama stesso, ricordandosi che è un premio Nobel per la pace, si è impegnato – molto prima degli altri dirigenti delle grandi democrazie europee -per battersi in favore della democrazia nei Paesi arabi.
Il 18 marzo 2011, dopo lunghe esitazioni, il Consiglio dell’Ue ha deciso, faticosamente, di dare un seguito concreto alla Risoluzione n. 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che autorizza la realizzazione, sopra la Libia, di una «No fly zone». Alla coalizione, guidata da Usa, Francia e Gran Bretagna, e comprendente Italia, Canada, Danimarca, Finlandia, Lituania, Polonia, Spagna, si sono aggiunte la Norvegia, l’Australia e, a sorpresa, anche il Qatar e gli Emirati arabi, pronti a inviare qualche velivolo.
Il resto è storia di questi giorni che i media riferiscono di ora in ora. Ci sembra opportuno rilevare: non è del tutto vero che tutte le forze armate libiche combattano contro i loro fratelli libici. A parte le tensioni tra le varie tribù, la Guardia ristretta del Colonnello è composta di uomini a lui fedeli, provenienti dalla sua stessa tribù, che non ama molto le altre.
Gli aerei da caccia sono in gran parte guidati da piloti provetti, ingaggiati a caro prezzo, nei Paesi dell’Europa orientale. L’esercito libico è stato «rafforzato» da oltre un migliaio di «mercenari africani», provenienti da vari Paesi del Sahel, che non hanno nessuno scrupolo a uccidere i civili.
Scontro di civiltà?
«L’aggressione dei “Crociati”» è una delle dichiarazioni del Colonnello Gheddafi contro gli europei (com’è noto, gli americani odierni non esistevano al tempo delle Crociate) rilanciando, forse senza saperlo, «lo scontro di civiltà» caro all’americano Samuel Huntington.
«Si tratta semplicemente di una crociata colonialista che rischia di scatenare una guerra di crociate ancora più ampia», ha aggiunto Gheddafi, «che ha minacciato di affogare tutti i Paesi del Mediterraneo in un bagno di sangue». In effetti l’esercito libico, ben equipaggiato con carri armati moderni, con aerei (Mig russi e Miragè francesi) e con una flotta non trascurabile, che comprende anche le tre vedette italiane cedute al Colonnello per impedire l’arrivo dei profughi a Lampedusa (sic), ha una potenza di fuoco e un’organizzazione contro la quale i «ribelli» non potevano resistere.
L’intervento degli aerei da caccia francesi, i famosi Rafale, che il leader libico aveva promesso di comprare nella sua visita a Parigi due anni fa senza un seguito commerciale, hanno distrutto i carri armati libici alle soglie di Bengasi, la seconda città della Libia, con oltre un milione di abitanti, il che ha evitato, come ha sottolineato, giustamente, il Ministro degli esteri francese Alain Juppé, il bagno di sangue promesso dal Gheddafi.
Uno sceicco molto seguito nel mondo arabo, che si esprime spesso sulla Tv al-Jazira, Youssef al-Qaradawi, ha accettato l’intervento internazionale in Libia: «L’islàm vuole che gli innocenti che Gheddafi dovrebbe proteggere siano uccisi?». La parola «crociata» non è stata pronunciata.
Questioni aperte
Gli interrogativi che l’operazione «Alba dell’Odissea» pone sono molti:
- II rispetto della Risoluzione 1973 può spingere qualcuno ad eliminare Gheddafi?
- II sostegno arabo alla coalizione sembra ambiguo e incerto. Il Segretario generale della lega araba, l’egiziano Arar Moussa, sin da ora in corsa per la presidenza dell’Egitto, lasciata libera da Mubarack, aveva promosso il sostegno alla coalizione, in armonia con il vento di libertà che soffia sulle popolazioni arabe. Poi ha fatto marcia indietro criticando gli attacchi aerei della coalizione.
- Chi comanda nella coalizione? Si ricorderà che la Francia, appoggiata dalla Gran Bretagna, aveva promosso, con successo, l’attività diplomatica che ha portato all’adozione della Risoluzione 1973. I due Paesi hanno assunto in maniera incontestabile la supremazia militare, aiutate dall’Italia. Gli americani non sono in favore di un loro «intervento politico», ma accettano di cooperare con interventi aerei (hanno già perduto un aereo da caccia, ma hanno recuperato i due piloti). La Casa Bianca non desidera essere coinvolta in un nuovo conflitto con il mondo arabo-musulmano. Devono già far fronte agli impegni militari in Iraq e in Afghanistan. Alla fine, la soluzione del comando affidato alla Nato – come ha suggerito il governo italiano – è stata accettata, con riserva, da Parigi.
- Anche nell’Ue la guerriglia dei clan? I 27 non hanno trovato un accordo sulle operazioni, anche se nella riunione dei Ministri degli affari esteri a Bruxelles del 21 marzo tutti sorridevano… per un accordo non raggiunto. La Germania, probabilmente per problemi di politica interna, non si è mostrata solidale con i «falchi» dell’Ue.
Del resto, il caso della Libia è complesso. Il Paese non ha la tradizione di uno Stato centrale, con istituzioni civili o religiose. La Libia, da sempre, è stata caratterizzata dal potere delle circa 140 tribù o cabile, spesso in lotta tra di loro. Dall’appartenenza all’impero ottomano, cui è seguita la colonizzazione italiana (1911), le tribù non hanno perso le loro caratteristiche: la solidarietà tra i membri e l’opposizione al governo centrale, salvo vantaggi specifici.
«Tribal war or a democratic conflictl» (Guerra tribale o conflitto democratico) si domanda il New York Times del 23 marzo 2001. Nella Cirenaica si oppongono a Gheddafi la tribù Zuwayya e le tribù minori Al Fath, Darnah, Aj-dabiya, Tubruk che non hanno sopportato la politica di Gheddafi che ha favorito in ogni modo la propria tribù, i Quadhadfa. Contrariamente alla ribellione dei giovani di Tunisi e del Cairo, che sono scesi in piazza per ottenere migliori condizioni di vita, più libertà, più assistenza sociale, le tribù si muovono solo per danaro e potere (non sono i soli esempi al mondo…).
L’appello del Papa, i consigli del Nunzio
Ricordiamo l’intervista del Nunzio apostolico a Tripoli, mons. Martinelli, che alla Radio Vaticana, il 21 marzo, ha ritenuto che tutti gli sforzi per una soluzione politica e umanitaria del conflitto tra libici non erano stati abbastanza forti a livello internazionale. Prudenza e circospezione: la Santa Sede osserva con attenzione l’evoluzione della guerra in Libia.
L’unica presa di posizione a ufficiale resta quella delle parole pronunziate da Benedetto XVI all’Angelus di domenica 20 marzo, un giorno dopo l’inizio degli attacchi aerei alla Libia. Il Papa ha rivolto un appello solenne «a tutti quelli che hanno delle responsabilità politiche e militari al fine che abbiano a cuore prima di tutto l’integrità e la sicurezza della popolazione e che garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari».
Il Papa si è dichiarato vicino ai libici, e «domanda a Dio che un orizzonte di pace e di concordia si alzi al più presto sulla Libia e su tutta l’Africa del Nord». Nessun accenno alle operazioni militari «di pace e di protezione delle popolazioni civili» lanciate il 18 marzo dalla coalizione.