PREMESSA
Il testo è frutto della trascrizione, rivista dall’autore, degli incontri tenutisi nei primi mesi del 1990, a cura della Croce pisana di Alleanza Cattolica e del Centro Cattolico di documentazione di Marina di Pisa. Gli incontri furono tenuti nella sala parrocchiale della Chiesa di Santa Maria del Carmine in Corso Italia, Pisa (g.c.). Nella trascrizione si è mantenuto lo stile colloquiale. In appendice la trascrizione della conferenza del 29-11-1992 tenutasi in occasione del 5° centenario della scoperta dell’America.
INDICE
Considerazioni introduttive
La crisi del Medioevo e la Riforma Protestante
La Rivoluzione Francese
APPENDICE
1492 – 1992 : bilancio di un centenario
Lo studio della Rivoluzione Francese ha un valore esemplare; essa costituisce, infatti, uno di quei periodi in cui la storia conosce una improvvisa accelerazione, una sorta di concentrazione. Tra il 1789 e il 1795 si succedono con straordinaria rapidità tutte le fasi della Rivoluzione, da quelle più moderate a quelle estreme cui seguono forme di indietreggiamento e stabilizzazione: la cosiddetta “reazione termidoriana” e il periodo napoleonico, il quale, però, rappresentò anche la fase di espansione in Europa di alcuni principi fondamentali della Rivoluzione.
Dunque, una svolta epocale, come con straordinaria acutezza capì immediatamente Edmund Burke. Le sue Riflessioni sulla Rivoluzione Francese furono pubblicate nell’ottobre 1790 e immediatamente dopo tradotte in francese.
La cronologia, come sempre nella storia, è molto importante. In questo caso essa parla contro i tentativi di distinguere e magari contrapporre più rivoluzioni francesi, alcune buone ed altre cattive, le quali ultime non rappresenterebbero affatto lo sviluppo logico dei principi dell’ottantanove. Era dunque possibile, sia pure ad un osservatore particolarmente acuto, cogliere già questo carattere epocale.
Scrive Burke che si è chiusa l’età della cavalleria e si è aperta l’età dei sofisti e dei contabili. Naturalmente un tema così vasto non può essere trattato adeguatamente in un solo incontro. Sarà bene dunque soffermarsi su alcuni punti di particolare rilievo per i nostri interessi. L’importanza della Rivoluzione Francese è anche nel suo porsi come mito, non dopo, ma già durante il suo svolgimento. Il mito dunque è connaturato alla sua essenza. Il primo mito che essa fabbrica è quello del “14 luglio”, la presa della Bastiglia.
In realtà oggi tutti gli storici sanno benissimo, perché la documentazione è chiarissima, che nella Bastiglia, difesa da pochi e vecchi soldati, non c’erano prigionieri politici e che essa fu conquistata da un piccolo gruppo di sbandati, disertori dell’esercito, avventurieri, in gran parte stranieri. Eppure il mito secondo il quale quel giorno “il popolo abbatté la fortezza simbolo della monarchia assoluta” viene continuamente riproposto, tant’è che proprio questa data è stata scelta per l’avvio dei festeggiamenti del bicentenario.
Queste celebrazioni si sono appena concluse ed è possibile tracciare un primo provvisorio bilancio. Si può dire che la storiografia filo-rivoluzionaria ha avuto ben poco da dire come è stato possibile verificare anche soltanto con una rapida visita alle librerie francesi.
Di poco interesse era la ripresa delle vecchie polemiche (affidata per lo più a ristampe) tra dantonisti e robespierristi. Si è avuto, invece, un profondo ripensamento in senso critico della Rivoluzione anche da parte di storici illustri di provenienza culturale, per cosi dire, insospettabile. In particolare segnalo il Dizionario critico della Rivoluzione Francese curato da Mona Ozouf e François Furet.
Il Furet, un ex comunista che si considera ancora uomo di sinistra, già alcuni anni orsono pubblicò un importante libro, Critica della Rivoluzione Francese, col quale sulla base di Toqueville e di uno studioso dichiaratamente reazionario come il Cochin già aveva avviato una profonda revisione del tema. Interessante in particolare la ripresa di Cochin volutamente trascurato dalla cultura ufficiale.
Questi tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 aveva lucidamente analizzato la “meccanica della Rivoluzione” e il funzionamento delle “società di pensiero”. Egli ha messo in luce il progressivo lavoro di “orientamento” dell’opinione pubblica da parte dei clubs, soprattutto da parte del Club dei Giacobini.
Il passaggio da una fase all’altra della Rivoluzione è accompagnato da un progressivo “lavoro” di selezione con l’emarginazione degli elementi che di volta in volta non sono all’altezza della fase successiva. La critica alla Rivoluzione è andata oltre la contrapposizione di piccole manifestazioni folcloristiche locali ai grandi fuochi d’artificio voluti da Mitterand.
Un giovane e accademicamente perseguitato storico francese, Secher, ha studiato il genocidio vandeano sulla base di una documentazione non soltanto ricca ma anche inattaccabile: le relazioni dei commissari rivoluzionari in Vandea e i dibattiti della Convenzione. Il suo lavoro conferma la tesi generale di Dumont sul carattere anzitutto anticristiano della Rivoluzione Francese.
In Autunno del Medioevo Huizinga ha scritto: “l’illusione stessa nella quale hanno vissuto i contemporanei ha il valore di una verità”. Perciò è interessante vedere non solo come andarono i fatti, ma anche come immediatamente questi vennero organizzati in maniera mitologica.
In un film, Danton, finanziato ma poi criticato dal governo francese, un regista polacco, Waida, ci presenta una scena assai significativa a questo proposito. Robespierre va dal pittore David mentre sta dipingendo un enorme quadro sul giuramento della Pallacorda. Robespierre gli dice: “Guarda che questo e quest’altro non c’erano! “.
David risponde: “Ma no, mi ricordo benissimo che c’erano”. Repica gelido Robespierre: “Non c’erano”. Un meccanismo da “ministero della verità”, poi applicato anche dalla rivoluzione sovietica che del resto si rifaceva esplicitamente al momento giacobino della Rivoluzione Francese. Per esempio, ad ogni riedizione della grande Enciclopedia Sovietica veniva riscritta la storia del partito comunista facendo scomparire o ricomparire personaggi come Trotzky e venivano alterate le fotografie eliminando i personaggi perdenti. “Non c’erano”.
Naturalmente la reazione della cultura dominante è stata violenta. In un numero speciale della rivista Storia e dossier, distribuito in anteprima al festival dell’Unità di Bologna, uno storico celebre, Jacques Le Goff, ha dimostrato di aver perso completamente la testa.
“La Rivoluzione Francese – scrive- non è per me un mito, però lo storico ha bisogno di stimoli autentici, e la storia, in generale, non offre molto ad ogni nazione… La Rivoluzione Francese tanto più mi appare come un simbolo autentico quanto più da nazionale ha voluto essere europea, anzi universale. E’ ancora la nostra speranza al giorno d’oggi. (…) Queste aggressioni contro la Rivoluzione Francese fanno parte per me del piccolo numero di aggressioni contro le quali io mi mobilito per un moto immediato del cuore come della ragione. Non tanto la Rivoluzione Francese che difendo quanto i valori che essa ha proclamato anche se non li ha ben rispettati. (…) Ho voglia di gridare: non toccate la mia Rivoluzione.”
Sulla base di queste motivazioni, che per altro riconoscono la caduta di quasi tutti i miti progressisti e la non difendibilità sul piano dei fatti, Le Goff getta il discredito, non con argomentazioni ma con insulti, su quanti intendono occuparsi del tema in maniera non conformistica ma fedele ai documenti come dovrebbe fare ogni storico. Così ad esempio Secher è colpito dall’accusa di voler difendere occultamente il nazismo impiegando per la Vandea il termine genocidio.
E’ invece valida l’osservazione di Le Goff circa la non rappresentatività della storiografia francese del presidente del comitato scientifico per il bicentenario, il comunista Michel Vovelle. Infatti pochissimi ormai accolgono l’interpretazione marxista ed economicistica della Rivoluzione. Come ha dimostrato, tra gli altri, Pierre Chaunu, grande storico protestante francese, alla vigilia della Rivoluzione la Francia era quasi pari all’Inghilterra nello sviluppo economico ed industriale, mentre era soggetta ad un’imposizione fiscale di poco più della metà. Ebbe soltanto un difficile momento congiunturale tra il 1787 e il 1789.
E neppure si può sostenere che la Rivoluzione sia stata fatta da una borghesia priva di un potere politico pari a quello economico. Furet è un agnostico, Chaunu un calvinista. Spiace vedere come ambienti cattolici siano stati molto esitanti ad esprimere dei giudizi quando addirittura non si siano posti in contrasto con i fatti.
La conferenza dei vescovi francesi dopo un ozioso appello a lasciar perdere ogni risentimento, ha di fatto manipolato lo stesso pensiero di Giovanni Paolo II e in particolare un suo discorso in occasione del primo viaggio in Francia. Essi citano questo passo: “Cosa non hanno fatto i figli e le figlie della vostra nazione per la conoscenza dell’uomo, per esprimere l’uomo per mezzo della formulazione dei suoi diritti inalienabili.
Si sa il posto che le idee di libertà, uguaglianza e di fraternità hanno nella vostra cultura e nella vostra storia. Al fondo ci sono idee cristiane; dico in piena coscienza che coloro che hanno formulato casi per primi questi ideali non si riferivano all’alleanza dell’uomo con la Saggezza Eterna, ma tuttavia volevano agire per l’uomo”. Fine della citazione del papa fatta dai vescovi francesi.
E se veramente il discorso del papa si fosse arrestato qui sarebbe stato difficile sfuggire all’impressione di una sorta di benedizione, di imprimatur totale, se non sulle azioni perlomeno sulle intenzioni dei rivoluzionari francesi.
In realtà, il discorso del papa prosegue in maniera ben diversa: “Per noi l’interiore alleanza con la Sapienza sta alla base di ogni cultura e dell ‘autentico progresso dell ‘uomo. Nello stesso tempo si può dire che il potere dell’ uomo sull’ altro uomo diventa sempre più pesante; abbandonando l’alleanza con la Sapienza Eterna egli sa sempre meno governare se stesso, e non sa più governare gli altri. Come è diventato pressante il problema dei diritti fondamentali dell’uomo. Quale voce minacciosa rivelano il totalitarismo e l’imperialismo nei quali l’uomo cessa di essere soggetto, cioè cessa di contare come uomo. Egli conta soltanto come una unità e come oggetto. Esiste solo un problema, quello della fedeltà all’alleanza con la Sapienza Eterna che è fonte di una vera cultura, cioè della crescita dell’uomo, e quello della fedeltà alle promesse del nostro battesimo, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. [corsivi redazionali]
Come si vede questo discorso, riportato nel contesto globale, ha un significato ben diverso da quello che, inevitabilmente, assume riportando solo la parte citata nella dichiarazione dei vescovi francesi. Si può capire allora che questo mito della Rivoluzione Francese, dalla storia cosi lunga, è un mito che ormai si è radicato anche in una parte del mondo cattolico.
Non si tratta più della canonizzazione avvenuta in campo ‘laicista’ (tanto che alla Sorbona esiste da più di un secolo una cattedra di “Storia della rivoluzione francese”) ma di una tardiva e passiva accettazione da parte di settori della cultura cattolica o sedicente tale. Tardiva perché sta avvenendo proprio quando – ed è un’altra evidenza del bicentenario- l’imbarazzo si diffonde anche tra quanti dovrebbero esserne gli eredi naturali.
Lo stesso segretario del partito comunista, Occhetto, ha rinunciato al collegamento con la “rivoluzione del 1792” e con il giacobinismo, per rivendicare la sola eredità della “rivoluzione dell’89”. Altri, poi, cercando di salvare l’Illuminismo e considerando indifendibile, e pertanto ingombrante, la Rivoluzione Francese, si sono spinti oltre nelle abiure.
Così, ad esempio, il sociologo Alberoni (un notissimo fiutatore del vento della moda) ha scritto, sulla prima pagina del Corriere della Sera, che non bisogna festeggiare la Rivoluzione Francese, un mostruoso errore non riconosciuto, che ha alimentato un pensiero politico nefasto, cui si debbono gli errori della rivoluzione sovietica e quelli di Khomeini (!!).
“Con la loro rivoluzione i francesi hanno dato un ben cattivo insegnamento a tutta l’umanità”. Per poi concludere con un invito a tornare ai maestri illuministi, Montesquieu, Locke, Kant e Beccaria.
In termini analoghi, sulla rivista “Mondo Operaio”, organo culturale ufficiale del partito socialista, ha sostenuto che le basi di una futura sinistra unita oggi non possono essere ritrovate nel richiamo alla Rivoluzione Francese, e tanto meno in quella bolscevica, ma soltanto nell’illuminismo. Ma torniamo al punto, già accennato, del rapporto Chiesa Rivoluzione. Un rapporto che anche manuali di orientamento cattolico, come quello del De Rosa, tendono a presentare in questi termini: è vero che la Rivoluzione ha perseguitato la Chiesa, ma soltanto perché questa era legata all’aristocrazia e alla monarchia.
Si dice, anche, che la persecuzione avrebbe inteso colpire soltanto i segni esteriori e non l’essenza del Cristianesimo. Ma, a parte il fatto che anche i cosiddetti segni esteriori sono spesso parte integrante ed importante della religione cristiana, come considerare segni esteriori migliaia e migliaia di sacerdoti, di monaci, di suore, di semplici laici uccisi proprio in quanto ostinatamente cattolici? Ma è tutta questa interpretazione che non regge se verificata sul piano storico.
In realtà la Rivoluzione Francese non è stata antimonarchica se non in una fase molto avanzata del suo sviluppo. Ancora nel 1791 si era espulsi dal club dei Giacobini se ci si dichiarava repubblicani. Invece fin dal 1789 furono pubblicati a decine, a centinaia, libri, opuscoli, fogli contro la Chiesa, i qual i accettavano l’aristocrazia ed esaltavano il re. Fino al tentativo di fuga del re, fermato a Varennes (ottobre ’91) la Rivoluzione si dichiarava monarchica. E’ vero invece l’opposto di quanto comunemente si afferma.
Ad un certo momento il re venne attaccato e poi condannato perché non aveva voluto rinunciare alla difesa della Chiesa cattolica, sì che, possiamo dire, scelse di morire da re martire, invece di seguire l’esempio del duca d’Orleans, il quale, peraltro, non sopravviverà a lungo. Così, è infondata e indimostrabile l’affermazione che la Chiesa fu perseguitata in quanto solidale con l’aristocrazia contro una rivoluzione antiaristocratica.
In realtà la percentuale degli aristocratici rispetto al totale delle vittime della Rivoluzione Francese non risulta che di pochissimo superiore alla percentuale degli aristocratici rispetto all’intero popolo francese alla vigilia dell’89. Certo, la Rivoluzione, ad un certo momento, si disse antiaristocratica, ma essa adoperava il termine “aristocratico” genericamente, per bollare gli avversari politici. Se si presta, invece, attenzione alle date si vede bene che sin dagli inizi la Rivoluzione ebbe chiaramente un orientamento anticristiano; ben prima della condanna che il papa pronuncerà in un concistoro segreto.
Dapprima furono soppresse le decime dando, come ha dimostrato lo storico calvinista Chaunu, un colpo mortale al sistema sanitario ed educativo di tutta la Francia. Cosi, sostiene Chaunu, venne avviato l’impoverimento del paese, con un forte aggravio per le casse dello stato che era del tutto impreparato ad assumere direttamente questi compiti. Dopo pochi mesi venne sancito il divieto di prendere i voti; poi furono soppressi gli ordini religiosi, considerati meno controllabili del clero diocesano. Finalmente si arriva -giugno 1790 – alla “Costituzione civile del clero” e alla frattura tra preti che giurano e preti che non giurano.
E’ bene spiegare – poiché pochi libri lo fanno- che essa non mirava, secondo il mito laico, ad una separazione di Chiesa e Stato. In realtà essa cercava di imporre alla stessa chiesa francese un ordinamento democratico e rivoluzionario, trasformando i pastori in amministratori.
Insomma, non una resistenza della chiesa a vecchi privilegi propri e altrui come causa delle persecuzioni, ma tentativo di plasmarla a propria immagine e somiglianza. La Rivoluzione andrà anche oltre, perseguendo una terribile politica di decristianizzazione, di distruzione. Non è una questione di interpretazioni diverse: è una questione di date e di dati.
Ma, mi si potrebbe dire: “non erano forse liberté, fraternité, égalité le parole d’ordine fondamentali della Rivoluzione ?” E non sono queste parole proprie del Cristianesimo, come ha detto lo stesso Giovanni Paolo II? Occorre spingere l’analisi oltre il suono delle parole, ricordandoci, magari, della giusta osservazione di Chesterton che il mondo è pieno di idee cristiane impazzite.
L’uguaglianza cristiana è quella di coloro che, essendo tutti ugualmente figli di Dio, hanno la medesima dignità fondamentale che appartiene a tutte le persone. La Rivoluzione Francese vuole realizzare una uguaglianza coatta, facendo tabula rasa di tutte le differenze storiche ereditate dal passato e tutte le differenze naturali, ereditate o sviluppate da ciascun uomo.
Ora, come osservava già Chateaubriand, un contemporaneo, questa concezione dell’uguaglianza era fatalmente destinata ad entrare in conflitto con l’idea di libertà. E aggiungeva che tra essa e il dispotismo esistono dei legami segreti. L’Ancièn Regime conosceva più che la libertà le libertà; libertà degli ordini, dei comuni, delle università, delle corporazioni… Insomma di quelli che oggi chiameremmo i corpi intermedi.
Queste libertà erano ancorate alla complessità della società, mentre è stato giustamente osservato che la libertà proclamata dai rivoluzionari poteva dispiegarsi soltanto nelle più totali unità ed omogeneità. E’ immediato il richiamo a Rousseau e alla sua nozione di “volontà generale”. E se è certo che essa appare pienamente in evidenza nei giacobini, in Robespierre, nel Terrore, è già presente nei primi rivoluzionari dell’89.
Questa libertà, utopistica, per giustificare i propri inevitabili fallimenti, derivanti dall’urto non eludibile con la realtà, deve inventare dei nemici, deve attribuire i fallimenti ai complotti. Ecco, allora, il complotto degli aristocratici e quello degli emigrati, il complotto degli stranieri e quello della corte e quello della regina, il complotto dei dantonisti e quello dei girondini, quello degli hebertisti e quello degli uguali… Fino all’ultimo, l’unico riuscito e quasi l’unico concretamente esistito, quello del colpo di stato del brumaio che porta definitivamente al potere Napoleone Bonaparte.
Per Rousseau è la società che fa cattivi gli uomini, assolutamente buoni per natura. Per, Voltaire la responsabilità era della storia. In ogni caso i rivoluzionari penseranno concordemente che bi sogna rendere gli uomini buoni per mezzo della legislazione. Venne infatti emanata tutta una serie di leggi sui più svariati argomenti: una pervadente e onnicomprensiva pedagogia della vita quotidiana. Leggi sul modo di comportarsi in pubblico, sul modo di portare la coccarda tricolore, sulla foggia dell’abito, sul come si doveva dare del tu, su come si doveva annunciare pubblicamente che un’amicizia era finita…
Va notato che con la cosiddetta, e mal detta, reazione termidoriana, dopo la caduta di Robespierre, con l’abbandono se non della violenza almeno della sua legalizzazione ed istituzionalizzazione, questa pedagogia crebbe; si è constatato che è troppo presto perché gli uomini sappiano rendersi liberi da soli e che non è possibile obbligarli col solo terrore. Il principio della libertà, cosi inteso, si coniuga con quello dell’uguaglianza. Condorcet (obbligato poi, ‘alla Rommel’, al suicidio) ha scritto che “l’uguaglianza è lo scopo ultimo dell’arte sociale”.
Si noti: il fine ultimo della società non è più il bene comune, ma l’uguaglianza. Siamo dunque ben lontani dalla lotta contro i privilegi, contro situazioni storicamente cristallizzate e non più rispondenti alla realtà sociale. Di qui la necessità di distruggere tutti i ricordi del passato onde poter raggiungere l’uguaglianza totale. Ecco perché la vera data-simbolo della Rivoluzione (non fissabile, come si è detto, al 14 luglio) può forse essere individuata nella notte del 4 agosto 1789, allorché l’Assemblea Nazionale cercò di realizzare, per decreto, la cancellazione del passato.
Possono essere ricordate operazioni non cruente ma molto significative. Come la creazione di un nuovo calendario “rivoluzionario”, nel quale le settimane furono sostituite dalle decadi, i santi dalle piante, i mesi dalle operazioni agricole o dalle condizioni meteorologiche, l’era cristiana dall’era della Rivoluzione.
Analogo senso ebbe la creazione dei dipartimenti, contraddistinti da semplici nomi geografici: ogni riferimento, anche nei nomi, alle regioni storiche doveva scomparire, insieme ad ogni prerogativa istituzionale o giuridica: non più Savoia o Delfinato, Bretagna o Provenza. Joseph de Maistre commentò che in quell’occasione “per la prima volta si sono visti uomini fare a pezzi la loro patria in maniera tanto barbara”.
Di notevole interesse anche la discussione parlamentare che precedette l’istituzione dei dipartimenti. Si voleva farli tutti uguali; ma c’era chi proponeva un criterio geometrico, di uguaglianza di superficie, e chi sosteneva un principio demografico, basato sull’uguaglianza di popolazione.
Infine, la fraternità. Partiamo da un’inattesa constatazione. Della parola non c’è traccia nei cahiers de doleances preparati alla vigilia della convocazione degli Stati Generali. Si cominciò a parlare di fraternité nelle feste rivoluzionarie, che progressivamente si sostituirono alle cerimonie religiose, e nel linguaggio dei club politici, nei quali ci si cominciò a salutare in nome della fratellanza.
Si, perché questa fraternità mostra molte assonanze con il linguaggio e la simbologia della massoneria; ed ha certamente un senso molto diverso dal significato cristiano della parola. Qui non unisce, ma divide: se un giorno, a disegno rivoluzionario attuato saremo tutti fratelli, per il momento il compito dei veri rivoluzionari è quello di smascherare i falsi fratelli. E’ una fraternità che esclude alcuni, ed anzi ne esclude sempre di più.
Ho fatto un riferimento alla massoneria che merita di essere, sia pur rapidamente, esplicitato. Talora il ruolo avuto dalla massoneria nella Rivoluzione Francese è stato esagerato, fino a farne l’autentico ed esclusivo protagonista. In realtà, la tesi del complotto non può spiegare tutto. Ma neppure può, l’importanza della massoneria, essere del tutto trascurata. Nell’ambito militare, ad esempio, le logge erano diffusissime e questo fatto è stato determinante nell’orientare (e il termine non è casuale) il comportamento dell’esercito di fronte alla Rivoluzione.
Per comprendere i fatti bisogna muoverci in questo modo. Invece nei manuali si trovano astrazioni mitiche: come quando si dice che è il popolo che ha fatto la Rivoluzione. Il popolo ha preso la Bastiglia, ha occupato le Tuileries, ha compiuto le stragi di settembre. E il popolo – si sa – anche quando eccede gode dell’impunità. Inoltre, parlando di popolo si fa pensare a moltitudini.
Invece, anche aggiungendo ai protagonisti attivi coloro che si erano impadroniti dei beni ecclesiastici ed erano quindi legati da interessi al successo della Rivoluzione, si può arrivare, secondo i calcoli di Chaunu, soltanto a 200.000 persone. Si pensi che la Francia aveva allora 17 milioni di abitanti.
Dunque la Rivoluzione Francese è stata fatta da un’esigua minoranza. D’altra parte, come il leninismo, il giacobinismo pretende di rappresentare il popolo e i suoi veri interessi. Pochissime persone – coloro che comandano in quel momento al Club dei Giacobini- pretendono di incarnare la volontà generale. Quanto ai diritti dell’uomo è importante domandarsi a chi la Rivoluzione li riconosce.
Essa li riconosce soltanto agli individui, presi isolatamente. Si procede, infatti, ad eliminare ogni legame associativo tra gli uomini. Sono abolite non soltanto le associazioni a carattere religioso, ma anche quelle professionali. Si può essere ormai soltanto dei citoyens, cioè dei cittadini di quell’unica astratta città che è la Nazione. Il passaggio al totalitarismo è ormai facile.
Il Potere, che ha eliminato ogni corpo intermedio tra l’individuo e lo stato, fa del popolo, in nome di cui parla, una massa indifferenziata e non protetta. Chi si oppone, ma anche chi non aderisce con entusiasmo, o anche chi semplicemente sbaglia leader, viene considerato un traditore e cessa di far parte del popolo. Quale tipo di costruzione politica ha inteso realizzare la Rivoluzione?
Già Sieyès, ideologo della fase prima, quella del 1789, pur sostenendo il sistema rappresentativo, lo concepisce alla luce della volontà generale. La prima costituzione, coerentemente, esclude il mandato imperativo. Il deputato non rappresenta i suoi elettori, ma la Nazione, per dirla col linguaggio di allora, rappresenta la volontà generale. Così la Rivoluzione esclude da subito una politica di rappresentanza e di conciliazione di interessi per privilegiare la forma astratta dell’uguaglianza.
Ciò comportò, fin dall’inizio, una difficoltà anche teorica di legittimare il dissenso. Infatti, se lo scopo della politica è la identificazione della volontà generale il dissenso è inammissibile. La politica non è più una mediazione tra interessi diversi o opinioni differenti ma è un tentativo di identificare la volontà generale.
Insomma, la dottrina rivoluzionaria sembra autorizzare, se non provocare, la proscrizione delle minoranze, considerate come fazioni che si separano dalla volontà generale. Nell’epoca rivoluzionaria non si può essere neutrali, bisogna essere rivoluzionari convinti, solidali col gruppo che di volta in volta riesce ad emergere; in caso contrario si finisce sotto la ghigliottina che da questa morte moderna, tecnologica, egualitaria.
Studiando la Rivoluzione si rimane colpiti dalla mediocrità dei protagonisti. Robespierre era un avvocatuccio di provincia destinato ad una normale carriera ove la storia non gli avesse offerto una rara opportunità. Fin dal 1790 lo troviamo a fare la spola tra i giacobini e l’assemblea.
Lui non fa nulla, smaschera: il suo grande potere è quello di svelare o minacciare di svelare i numerosi complotti che insidiano la.volontà della nazione. Il Terrore è alimentato dalle denunce che Robespierre fa, ma è difficile dire quale sia la sua ideologia. Certo egli incarna bene l’arte dell’esercizio permanente e generale del sospetto.
Come la storia dell’URSS, quella della Rivoluzione Francese è piena di complotti sui quali di volta in volta vengono scaricati gli errori nati da azioni e teorie in se stesse destinate al fallimento in quanto non fondate su una concezione realistica dell’uomo. Qualche cifra. A Parigi, durante il Grande Terrore caddero 16500 teste; e non furono di più per difficoltà tecniche, perché, come si lamentavano i rivoluzionari, la ghigliottina era troppo lenta.
Quanto al genocidio vandeano è difficile accertare il numero delle vittime di massacri indiscriminati. I vuoti tra un censimento e l’altro hanno fatto calcolare da 200 a 300.000 morti. Secher ne ha comunque accertati 117.000. Ora, la Vandea aveva circa un milione di abitanti. Come non parlare di genocidio? Già Gracco Babeuf parlò allora di populicidio. E’ anche importante precisare, ancora una volta alla luce delle date, che quando il massacro generalizzato fu ordinato nel gennaio 1794 la guerra civile era terminata in quanto l’esercito vandeano si era arreso nel dicembre del 1793.
Secher ha pubblicato documenti provenienti dalla Convenzione, dal Comitato di salute pubblica o dai rappresentanti in missione: dunque, solo fonti rivoluzionarie. Si tratta di documenti orribili. Per esempio istruzioni su come uccidere in massa donne e bambini: poiché le pallottole costavano si ordinò di spaccare le teste a colpi di baionetta, e poiché le baionette si rompevano si ricorse agli annegamenti collettivi studiando battelli in grado di riemergere dopo un certo tempo.
Un documento contiene l’ordine dato a un chirurgo militare di scuoiare trentadue cadaveri e portare le pelli ad un conciatore per farne dei gambali.
Troviamo anche osservazioni come questa: “la pelle degli uomini è molto simile a quella dei camosci, quella delle donne è più morbida, ma se si sa lavorare si possono ottenere dei buoni risultati”. Perché quest’odio che si accanisce sugli uomini, sulle donne sui bambini, ma anche sulle cose come le teste delle statue dei re d’Israele della facciata di Notre Dame?
E’ una domanda che mette i brividi perché ci spinge al di là del piano puramente umano, evoca forze oscure e diaboliche, apre il grande mistero della presenza del demoniaco nella storia. Ma si tratta di una domanda che va al di là del lavoro dello storico in senso stretto: la risposta deve essere chiesta alla teologia della storia.