Testo riveduto e con una prima annotazione dell’intervento al convegno Contro l’Ottantanove. Miti, interpretazioni e prospettive, organizzato da Alleanza Cattolica e da Cristianità, Roma, 26-26 febbraio 1989. La materia dei primi sette paragrafi, senza note e in una redazione più sintetica, è comparsa in lingua spagnola con il titolo La Revolución Francesa en el proceso revolucionario, in Aportes. Revista de Historia Contemporánea, anno V, n. 12, Saragozza novembre 1989-febbraio 1990, pp. 44-47, numero monografico su La Revolución Francesa, curato da Miguel Ayuso Torres].
di Giovanni Cantoni
Da un decennio a questa parte – cioè a far data dal discorso di apertura della III Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-Americano, tenuto da Papa Giovanni Paolo II a Puebla de Los Angeles, in Messico, nel 1979 (1) – è in corso, nel mondo cattolico, una certa “rivalutazione” della dottrina sociale della Chiesa (2), solo da pochi – purtroppo – mai dimenticata anche nei quasi vent’anni che partono dal 1961, anno di pubblicazione dell’enciclica Mater et magistra, di Papa Giovanni XXIII (3).
Evidentemente questa rivalutazione comporta uno studio preventivo di tale dottrina nonché adeguati tentativi di definirne la natura, il metodo e l’oggetto. E, in proposito, è di straordinaria importanza quanto il regnante Pontefice afferma nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, del 1987, nella quale esclude categoricamente che la dottrina sociale della Chiesa sia un’ideologia e la dichiara appartenere piuttosto al campo della teologia, in specie della teologia morale (4).
Quindi, se la dottrina sociale è teologia, se ne può parlare come di teologia sociale ed esplicitarla come una delle possibili “teologie del genitivo”, cioè come “teologia della società”. Poiché, poi, la teologia è conoscenza soprannaturale di Dio, dell’uomo e delle cose nella loro relazione con Dio, oggetto della teologia della società è la società stessa nei suoi rapporti con Dio. Poiché, ancora, la società è la proiezione nella storia della naturale socialità dell’uomo, ecco che oggetto della teologia della società si rivela l’uomo in quanto essere sociale nella sua relazione con Dio.
2. Dalla “teologia della società” alla “teologia della storia”
Su questa base si fonda la massima consapevolezza dell’esame sub specie aeternitatis delle strutture della società, dal matrimonio alla famiglia, dalla corporazione allo Stato. Ma, accanto agli elementi strutturali – in qualche modo sempre presenti – se ne evidenziano anche altri, che non dicono relazione soltanto con le articolazioni funzionali della vita della società umana, dell’uomo vivente in società, ma anche con la vita della società quasi ad extra, cioè con la vita storica dell’umanità, sia considerata nel suo insieme, sia in quelle sue espressioni parziali che sono le nazioni, comunità di destino degli uomini viventi in società.
Così, la teologia della società si rivela comprendere, almeno nella prospettiva che ho evocato, non solo la teologia della società in sé considerata, cioè nelle sue strutture funzionali e nella sua vita ad intra, ma anche la teologia della società nella sua vita ad extra, cioè nella sua proiezione nel tempo storico: quindi, la teologia della società ingloba anche la “teologia della storia”, in quanto, appunto, la storia è “storia di qualcosa”, “[…] soprattutto dell’uomo collettivo, della società umana” (5), cioè storia dell’umanità e delle sue articolazioni di destino, le nazioni, e di necessità, gli Stati (6).
3. Magistero sociale e “teologia della storia”
Se le cose stanno nei termini in cui le ho enunciate, dallo stesso Magistero sociale della Chiesa è possibile e lecito ricavare elementi di una teologia della storia, e questi elementi – anche quando si trovano in documenti non classificabili o semplicemente non classificati come “sociali” in senso proprio e stretto – sono integrabili nel corpus costituito dalla dottrina sociale della Chiesa, a illuminare con la luce della “grande dinamica” storica la “piccola dinamica” delle istituzioni, delle strutture e dei costumi. Quindi, si impone una rilettura del Magistero in tutte le sue espressioni per verificare quanto di esso sia stato eventualmente trascurato o abbandonato, quasi fosse una clausola stilistica o, comunque, un corpo estraneo rispetto all’insegnamento sociale stricto sensu considerato.
4. La “Civitas hominum” fra “Civitas Dei” e “Civitas diaboli”
Benché la dottrina sociale sia contemporanea di tutta la storia umana post peccatum – anche se con diverse modalità di espressione e con diversi gradi di consapevolezza quanto alla sua recezione -, il Magistero ritiene di dover attribuire particolare rilievo alla sua esposizione organica a partire soprattutto dal pontificato – e dal corrispondente insegnamento – di Papa Leone XIII, con specifico riferimento all’enciclica sulla condizione degli operai Rerum novarum, pubblicata nel 1891, quindi al suo intervento in campo socioeconomico (7).
Nella prospettiva che ho brevemente illustrato s’impone però attenzione anche all’enciclica Tametsi futura prospicientibus, dedicata sempre da Papa Leone XIII, nel 1900, a Gesù Cristo redentore del genere umano (8), nonché all’enciclica Humanum genus, sulla massoneria, pubblicata dallo stesso Pontefice nel 1884 (9).
Infatti, in tali documenti il Magistero evidenzia rispettivamente gli effetti di civiltà della Redenzione operata dal Signore Gesù, quindi fa propria, applicandola, la teologia della storia elaborata e illustrata da sant’Agostino soprattutto, anche se non esclusivamente, nel De Civitate Dei (10), “filosofia della storia” che Papa Leone XIII aveva già indossata nel breve sugli studi storici Saepenumero considerantes, del 1883 (11), e che è presente, per esempio, nell’enciclica Divini Redemptoris, sul comunismo ateo, pubblicata da Papa Pio XI nel 1937 (12), nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, approvata dal Concilio Ecumenico Vaticano II e promulgata da Papa Paolo VI nel 1965 (13), e finalmente, soprattutto, nell’esortazione apostolica circa i compiti della famiglia cristiana nel mondo di oggi Familiaris consortio, del 1981, di Papa Giovanni Paolo II (14), e, dello stesso Pontefice, nell’esortazione apostolica post-sinodale circa la riconciliazione e la penitenza nella missione della Chiesa oggi Reconciliatio et paenitentia, del 1984 (15), e nell’enciclica Dominum et vivificantem, del 1986, dedicata allo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo (16).
Questa dottrina descrive – e interpreta – la storia dell’umanità, cioè degli uomini variamente organizzati, come pellegrinaggio della Civitas hominum nel tempo, dalla Genesi all’Apocalisse, perennemente attratta dalla Civitas Dei e contemporaneamente tentata dalla Civitas diaboli, che della storia umana vengono a costituire categorie fondamentali (17).
E questa drammatica alternativa storica – presente in filigrana nella Scienza nuova di Giambattista Vico (18) e che trova espressione culturale rilevante anche in Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo, di Juan Donoso Cortés (19), in Storia dell’Amore e in Storia dell’empietà, di Antonio Rosmini Serbati (20), nonché in Filosofia e antifilosofia, di Michele Federico Sciacca (21) – si radica nel cuore dell’uomo, di ogni uomo che viene in questo mondo, chiamato da sant’Ignazio di Loyola a meditare “di due bandiere” (22) oppure, da san Luigi Maria Grignion di Montfort, a nascere spiritualmente nella stirpe della Vergine o in quella del serpente (23).
5. Dinamiche e realizzazioni storiche
Ma, se la Civitas Dei e la Civitas diaboli sono categorie della vita dell’umanità post peccatum, la Civitas hominum ha una dinamica specifica nei rapporti con ciascuna di esse, e queste diverse dinamiche vanno a costituire quelle che Papa Giovanni Paolo II – nella ricordata esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia – indica rispettivamente come “legge dell’ascesa” e “legge della discesa“, cioè le modalità dei processi di accostamento e di allontanamento della stessa Civitas hominum rispetto alla Civitas Dei e alla Civitas diaboli; cioè, ancora, dei processi di conversio di volta in volta ad Deum o ad creaturam, se non direttamente ad diabolum, e, simmetricamente, di aversio a Deo, a creatura e a diabolo (24).
Queste dinamiche hanno loro realizzazioni storiche, loro “incarnazioni” epocali, cioè relative a diverse epoche storiche. E anche a proposito di queste realizzazioni epocali il Magistero della Chiesa si esprime, per esempio descrivendo come tempo di conversione esemplare – benché, evidentemente, di una esemplarità relativa e non esclusiva – la Civitas hominum romano-germanica realizzata in Occidente nel cosiddetto Medioevo (25), cioè la Cristianità, dalla cui crisi si è venuto svolgendo un processo di aversio a Deo, di allontanamento da Dio e dalla sua Chiesa, che il Magistero stesso periodizza secondo una triplice scansione, presente nella lettera apostolica Pervenuti all’anno vigesimoquinto, pubblicata nel 1902 – quasi testamento – da Papa Leone XIII (26), quindi ultimamente reiterata nell’Istruzione su libertà cristiana e liberazione “Libertatis conscientia”, nella quale – nel 1986 e con l’approvazione del Santo Padre Giovanni Paolo II – la Congregazione per la Dottrina della Fede descrive il “moderno processo di liberazione” da Dio, che “fin dall’alba dei tempi moderni”, nel Rinascimento, nella Riforma protestante e nella Rivoluzione francese, ha assunto “[…] forme aberranti e [che] giungono ad opporsi alla visione cristiana dell’uomo e del suo destino” (27), e lo denuncia come “contagiato da errori mortali circa la condizione dell’uomo e della sua libertà” (28), quindi connotato da una “mortale ambiguità” (29).
Ma la formulazione più efficace e certamente più sintetica di questo processo epocale e della sua scansione si trova in un discorso di Papa Pio XII che – rivolgendosi nel 1952 agli uomini d’Azione Cattolica – parla della promozione dell’empietà da parte di un “nemico”, che definisce nello stesso tempo “violento e subdolo” e che “[…] si trova dappertutto e in mezzo a tutti”, e ne illustra l’opera plurisecolare: “In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità; talvolta l’autorità senza la libertà. È un “nemico” divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio. Il “nemico” si è adoperato e si adopera perché Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell’amministrazione della giustizia, nell’attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra” (30).
6. La Rivoluzione nella Cristianità e il suo processo
Dunque, a partire dall’exemplum di conversio ad Deum, attraverso l’attenzione alla Chiesa da Lui positivamente istituita, rappresentato dalla Cristianità come si è realizzata nel Medioevo, si è venuto svolgendo un processo di sovvertimento di tale realizzazione, processo che nel linguaggio del pensiero cattolico contro-rivoluzionario dei secoli XIX e XX – linguaggio di cui mi servo tematicamente – viene indicato con il termine “Rivoluzione” (31). Questo processo attua nella nostra epoca una categoria che interessa tutta la storia degli uomini post peccatum e, attraverso l’espansione della civiltà europea in tutto il mondo, ne dà la massima espressione geografica e materiale (32).
Secondo la scansione categoriale di questo processo – che, alla luce della presentazione che ne offre il regnante Pontefice nella richiamata esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia è comunque una scansione storica, esemplata cioè con fatti accaduti in illo tempore – alla rottura con Dio da parte di Adamo e di Eva, che hanno ceduto alla tentazione del serpente, segue la rottura fra gli stessi Adamo ed Eva, poi fra Caino e Abele, quindi la costruzione della Torre di Babele: dalla rottura con Dio trae origine la rottura fra gli uomini e il profondo condizionamento del loro operare (33); a una fase socioreligiosa seguono una tappa sociopolitica, quindi una socioeconomica, e il “sistema” comprende momenti “culturali” di diverso spessore sociale, che precedono, accompagnano e seguono (34).
Nella realizzazione storica epocale, all’eliminazione del sacerdozio ministeriale da parte del protestantesimo – certo non unica eresia, ma eresia che tocca non solo il kérygma, l'”annuncio”, ma la struttura della Chiesa così come l’ha voluta il Signore Gesù – segue il tentativo di rompere tutti i legami che uniscono l’uomo alle realtà sociopolitiche che lo circondano, traendo occasione – peraltro offerta da tutte indistintamente le realizzazioni umane, inevitabilmente semper reformandae – dalla loro imperfezione o dalla loro eventuale sclerosi.
Alla fase indicata da Papa Pio XII con la formula “Cristo sì, Chiesa no“, cioè alla fase immediatamente identificabile con il protestantesimo, segue quella definita con la formula “Dio sì, Cristo no”, cioè la fase deista, a proposito della quale il teologo protestante Emil Brunner osserva che “la mancanza di una patria religiosa – è spontaneo il rimando all’autoqualificazione nazionalsocialista Konfessionslos aber Gottgläubig, “senza confessione religiosa ma credente in Dio” (35) – strappa l’uomo alla struttura metafisica della sua esistenza: l’uomo cessa di essere radicato in un ordine eterno. Il dogma dell’uguaglianza di tutti strappa l’uomo alla sua struttura sociale, distrugge la struttura organica” (36).
a. Così, di fatto, come nel caso del protestantesimo l’uomo in quanto fedele viene abbandonato solo di fronte a Dio e al suo mistero – benché si tratti talora di un mistero “rivelato” -, senza adeguata mediazione, dal momento che è circondato da uguali, nel caso della Rivoluzione politica, detta francese dal paese in cui è esplosa, l’uomo in quanto cittadino viene abbandonato, apparentemente non più suddito, dal momento che non è più suddito confesso, all’inconfessata o inapprezzata sudditanza nei confronti della società e, soprattutto, della sua gestione statuale, comunque organizzata, mentre agli uguali che lo circondano non gli è concesso unirsi e ordinarsi, ma solo eventualmente sommarsi.
Alla separazione fra il potere politico e l’autorità ecclesiastica – forse, in precedenza, non sempre distinti in modo adeguato e sufficiente – segue un rapporto prima duramente conflittuale, quindi sostitutivo, nel senso che lo Stato si trasforma in Chiesa; all’eliminazione del potere, sulla società e nella società, nella sua espressione personale e nella sua versione apertamente gerarchica, succede un potere anonimo, da nulla limitato, né in alto né in basso, né da Dio né dagli uomini, se non – nel caso di questi ultimi – ordinariamente attraverso la derisoria manifestazione – di varia modalità e periodicità – della “volontà popolare”, manipolata in modo sempre più scientifico e tecnologicamente avanzato da opinion maker espressi e sostenuti da lobby ideologiche e/o economiche (37): insomma, il taglio “liberatore” delle mille arterie che univano l’uomo agli altri uomini in diversi e articolati rapporti, si rivela in ultima analisi come scarsamente liberatorio, in quanto tali rapporti rimangono come esigenze, come bisogni insoddisfatti, sì che – disattivati e quindi non più viventi – le istituzioni e i costumi si trasformano in catene di una libertà-beffa, un “re nudo” di cui è sconveniente – anzi, sostanzialmente vietato – denunciare la nudità, mentre esigenze e bisogni alimentano “nuove povertà” (38).
b. Se poi dalla libertà si passa all’uguaglianza, si deve notare che la libertà – quando è reale – la nega, non certo obbligatoriamente nella sua sostanza, ma nelle sue rilevanti espressioni accidentali: “[…] la libertà e l’uguaglianza sono irriducibili l’una all’altra. Perché l’uguaglianza è essenzialmente oppressiva della libertà, e la libertà si fonda sulla disuguaglianza. Infatti la libertà non è una parola astratta. Nasconde un insieme di libertà personali, professionali, politiche e sociali, tutte varie, diverse, disuguali, all’infinito” (39).
Infine, tale difficile rapporto può essere mantenuto in equilibrio, e in questo equilibrio conservato e ininterrottamente verificato e rinnovato, soltanto con la mediazione della fraternità: ma quale fraternità è possibile, quando è negata la paternità divina – di principio, perché “Dio non c’è”, oppure, di fatto, perché “Dio non c’entra”, perché è un – e, quindi, ogni suo riflesso terreno, da quello nel a quelli – nei quali l’analogia talora diminuisce – nel e nel ?
7. La Rivoluzione francese
Questa, in sintesi estrema, la Rivoluzione francese e la sua parte nel processo rivoluzionario: con essa – grazie all’abolizione delle vestigia del regime feudale e di quello corporativo – all’individualismo e all’ugualitarismo religiosi fanno seguito l’individualismo e l’ugualitarismo politici e l’individualismo economico, mentre, con la Rivoluzione sovietica, seguirà la stagione dell’ugualitarismo economico. Così François Furet sintetizza i decreti emanati dal 4 all’11 agosto 1789: “Essi distruggono da cima a fondo la società aristocratica e la sua struttura di dipendenze e di privilegi. Ad essa sostituiscono l’individuo moderno, autonomo, libero di fare tutto ciò che la legge non vieti. La tabula rasa realizzata a partire dal 4 agosto liquida tutti i poteri intermedi che possono esistere tra l’individuo e il corpo sociale nel suo insieme. L’opera sarà completata nel 1791 con l’approvazione della legge Le Chapelier, con la quale si proibivano le associazioni. Assai presto la rivoluzione ha manifestato un radicale individualismo” (40).
Sull’ordo rerum humanarum medioevale – già sottoposto a un processo di razionalizzazione centralizzatrice e sclerotizzante (41) – viene esercitata una potatura violenta, che dell’albero storico taglia non solo i rami secchi ma anche le radici, talora solo le radici, così producendo – in periferia, ma non soltanto in essa – una “società mafiosa”, cioè una società caratterizzata dalla conservazione forse involontaria di tutto il secondario e dalla distruzione, almeno quanto al progetto, di tutto l’essenziale.
Relativamente alle conseguenze in campo economico dell’abolizione del regime feudale, la “liberazione” della proprietà privata dall’“ipoteca sociale” (42) storica, che su di essa si era venuta costituendo organicamente, favorisce lo sviluppo di una mentalità secondo cui – come profeticamente dirà Papa Pio IX nel Sillabo, del 1864, alla proposizione LVIII – “ogni regola ed onestà dei costumi consiste nell’accumulare e nell’accrescere per qualsiasi maniera le ricchezze, e nel contentare la voluttà” (43), cioè prepara a tale istituto una condizione storica che possa, in un futuro non troppo lontano, sia emotivamente coprire la pretesa di un'”ipoteca sociale” gestita dallo Stato, sia sempre emotivamente legittimare il programma socialcomunista della sua abolizione.
Quanto alle corporazioni prerivoluzionarie, Luigi Dal Pane nota – con riferimento all’Italia, ma il giudizio è estensibile – che esse “[…] assolvono anche funzioni di difesa dei lavoratori, di previdenza sociale e di mutuo soccorso […]. Quando costituiscono le doti alle figlie dei matricolati, quando distribuiscono sussidi agli infermi e alle vedove, quando provvedono all’assistenza dei soci ammalati, quando assolvono doveri di pietà verso i moribondi ed i morti ed onorano Iddio, esercitano funzioni socialmente utili” (44).
8. Meditare per restaurare
Questi mi sembrano i termini di una possibile e indispensabile meditazione – nel bicentenario dell’infausto evento costituito dalla Rivoluzione francese – affinché alla rottura che rappresenta e incarna nella storia della civiltà cristiana e della nostra epoca, dal punto di vista specificamente sociopolitico, socioeconomico e generalmente culturale, si ponga autentico rimedio non con restaurazioni insoddisfacenti, in quanto – non di rado – puramente cosmetiche, ma con una riconciliazione radicale e globale, a partire da quella – fondamentale e fondante – con Dio, che si è rivelato nel Signore Gesù (45), e della quale la Vergine Santissima ha annunciato a Fatima la storica realizzazione (46).
Ma questi termini aprono una serie di considerazioni che, nell’ottica in cui mi situo, cioè nell’ottica della Contro-Rivoluzione cattolica, non possono essere né eluse, né dimenticate. Infatti, come insegna Plinio Corrêa de Oliveira, la Contro-Rivoluzione non è “una semplice nostalgia” (47), né “un movimento che vive fra le nuvole, che combatte fantasmi. Deve essere la Contro-Rivoluzione del secolo XX, diretta contro la Rivoluzione così come oggi in concreto esiste e, quindi, contro le passioni rivoluzionarie come oggi divampano, contro le idee rivoluzionarie come oggi sono formulate, contro gli ambienti rivoluzionari come oggi si presentano, contro l’arte e la cultura rivoluzionaria come oggi appaiono, contro le correnti e gli uomini che, a qualsiasi livello, sono attualmente i fautori più attivi della Rivoluzione. La Contro-Rivoluzione non è, dunque, una semplice retrospettiva dei danni causati dalla Rivoluzione nel passato, ma uno sforzo per sbarrarle la strada nel presente” (48).
Ergo, l’esame della Rivoluzione francese – così come di ogni altra fase del processo rivoluzionario – non deve avere come scopo principale quello di offrirne una retrospettiva, il cui interesse consiste eventualmente nell’udienza data alla parte perdente, ma quello di conoscere e di far conoscere la Rivoluzione in una sua tappa rilevante per quanto ha prodotto e per quanto è ancora vigente; quindi vuole costituire un’opera d’informazione – meglio, di contro-informazione – storica per spingere all’azione, non certo alla nostalgia, benché non si possa assolutamente contestare l’oggettiva legittimità anche di questo sentimento (49).
Ma ricordare la Vandea, fregiarsi del Sacro Cuore, decorare il proprio ambiente di lavoro o familiare con un poster che richiami chi contro la Rivoluzione francese ha lottato, dev’essere soprattutto – in auspicio, esclusivamente – segno di una volontà intelligente e determinata di combattere quanto di questa fase rivoluzionaria rimane e opera, e non è poco. Non dimenticare attivamente significa proporsi, fra l’altro, il superamento della situazione sociopolitica in cui viviamo, non paghi della pura identificazione delle cause che l’hanno originata.
9. Propositi contro-rivoluzionari
Il movente ultimo di ogni opera da cristiani, e quella politica non fa eccezione, è la gloria di Dio, la sua causa prossima l’amore agli uomini (50), la ricompensa sperata la salvezza eterna. Sulla strada del ritorno al Padre – il figlio prodigo è figura di ogni uomo (51) -, del reditus di tomistica memoria e dottrina (52), la Rivoluzione è un ostacolo; e gli aspetti politici della Rivoluzione costituiscono altrettanti condizionamenti negativi posti sul percorso dal demonio, dalla malizia e dalla debolezza degli uomini, di ieri e di oggi (53).
Rimuovere questi ostacoli significa favorire il reditus, il ritorno – nostro e del nostro prossimo – al Padre, così manifestando, attraverso l’amore al fratelli che vediamo, l’amore a Dio che non vediamo (54). Rimuovere questi ostacoli – insomma – significa fare la Contro-Rivoluzione. Rimuovere gli ostacoli di cui ha disseminato il cammino dei singoli e delle società la Rivoluzione francese vuol dire fare propria l’analisi proposta da Papa Pio XII quando parla di “un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio” e accogliere l’appello del regnante Pontefice quando, rivolgendosi all’umanità tutta, cristiani compresi, grida: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!
“Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo Lui lo sa!” (55).
Perciò, si deve operare, fra l’altro, affinché:
a. alla radicale separazione fra Chiesa e Stato si sostituisca una collaborazione privilegiante, fatta salva la dottrina sulla libertà religiosa (56);
b. alla concezione della nazione come “assemblage des individus”, cioè come “messa insieme degli individui” – secondo la definizione di Emmanuel-Joseph Sieyès (57) – subentri quella che la coglie come un insieme gerarchico e storico di gruppi, naturalmente o volontariamente costituiti nel corso della storia;
c. contro la pretesa “[…] conseguenza naturale che il diritto a farsi rappresentare spetta ai cittadini non in forza delle qualità che li differenziano, ma in forza delle qualità che sono ad essi comuni” (58), pretesa enunciata dallo stesso leader rivoluzionario e che a suo dire determina la loro considerazione pressoché esclusivamente “in massa e dal punto di vista dell’interesse comune” (59), si riscopra che l’uomo non è solo uomo – già questo sarebbe molto, si potrebbe notare dopo la legalizzazione dell’aborto, meditando così sulle ulteriori tappe percorse dal processo rivoluzionario! – ma anche figlio o figlia, padre o madre, marito o moglie, lavoratore, padrone, soldato, fedele, e così via, rivalutando opportunamente e adeguatamente ogni qualificazione e ogni professionalità dal punto di vista politico, cioè riconoscendo i corpi intermedi, naturali e volontari, a partire dalla famiglia, e la loro rilevanza sociopolitica;
d. si corregga l’astratta rappresentanza per teste e il mandato rappresentativo ampio e indeterminato – fonte legalizzata di inganno elettorale – con una rinnovata attenzione al mandato corporativo e imperativo, a quel mandato imperativo che pare sopravvissuto soltanto nella sua forma partitica (60).
10. Fondamenti naturali e soprannaturali
Sull’Ottantanove, quello settecentesco, molto è stato detto quanto ai miti riportando le interpretazioni ai fatti (61); quanto all’Ottantanove novecentesco, vengo a conclusione premettendo che – al dire di Joseph de Maistre – “gli elementi di tutte le costituzioni sono gli uomini” (62).
Nel 1980, in occasione del suo primo pellegrinaggio apostolico in terra di Francia, Papa Giovanni Paolo II, nell’omelia della Messa celebrata a Le Bourget il 1° giugno, dice: “È nota la parte che l’idea di libertà, di uguaglianza e di fraternità ha nella vostra cultura, nella vostra storia. In ultima analisi, si tratta di idee cristiane. Affermo in piena coscienza che quanti hanno così formulato, per primi, questo ideale, non facevano riferimento all’alleanza dell’uomo con la saggezza eterna. Ma volevano agire per l’uomo” (63).
Consuetamente il richiamo dell’intervento pontificio si arresta a questo punto, lasciando credere a un giudizio sul trilemma rivoluzionario ambiguo, quando non divergente da quelli espressi in precendenza dal Magistero; ma il testo del regnante Pontefice non si ferma qui: infatti, il Santo Padre prosegue e, immediatamente di seguito, dichiara: “Per noi, l’interiore alleanza con la saggezza eterna sta alla base di ogni cultura e dell’autentico progresso dell’uomo“; quindi, poco più oltre, constata: “Nello stesso tempo si può dire che il potere dell’uomo sull’altro uomo diventa sempre più pesante. Abbandonando l’alleanza con la saggezza eterna, egli sa sempre meno governare sé stesso, non sa più governare gli altri. Com’è diventato pressante il problema dei diritti fondamentali dell’uomo! Che volto minaccioso rivelano il totalitarismo e l’imperialismo, nei quali l’uomo cessa di essere il soggetto, cioè cessa di contare come uomo. Egli conta soltanto come un’unità e un oggetto“; finalmente, quasi a conclusione, esclama: “Esiste solo un problema, quello della nostra fedeltà all’alleanza con la saggezza eterna, che è fonte di una vera cultura, cioè della crescita dell’uomo, e quello della fedeltà alle promesse del nostro battesimo nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo!” (64).
Dunque, la proclamazione dei “diritti dell’uomo” senza riferimento all’alleanza dell’uomo con la Saggezza Eterna, anzi, abbandonando tale alleanza, ha fatto sì che il problema dei diritti fondamentali dell’uomo stesso sia diventato sempre più pressante, dal momento che questo abbandono ha prodotto il totalitarismo e l’imperialismo. Perciò, tornando alla tesi di Joseph de Maistre, per lottare contro il totalitarismo e l’imperialismo servono uomini che non agiscano esclusivamente “per l’uomo”, dando così prova di quell’amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio, ma che operino sulla base dell’“interiore alleanza con la saggezza eterna”.
Mentre mi chiedo quanti, nella formulazione del discorso del regnante Pontefice, avranno colto una citazione indiretta di un maestro di vita spirituale che gli è particolarmente caro e che è in rapporto non con una Vandea retorica, ma con la Vandea essenziale, cioè un richiamo all’opera L’amour de la Sagesse éternelle, di san Luigi Maria Grignion di Montfort (65), credo di poter affermare che l’esito della proclamazione dei “diritti dell’uomo” senza attenzione – quando non in alternativa – ai “diritti di Dio” è nel testo indicato in modo inequivoco: la distruzione del “popolo” attraverso l’individualismo e l’ugualitarismo produce la “massa” (66), pronta per la manipolazione totalitaria, quella “grossa” socialcomunista e quella “sottile” tecnocratica (67), sicché quanto doveva essere il trionfo dell’uomo si rivela il trionfo dello Stato, nei confronti della cui versione totalitaria e imperialistica, cioè specificamente moderna, si impone la rivendicazione dei diritti dell’uomo, con interiore ed esteriore riferimento all’alleanza con la Saggezza Eterna.
“Soltanto a questa condizione – scrive Papa Pio XII a proposito della collettività nazionale – vi si vedranno prosperare i grandi princìpi di libertà, di uguaglianza e di fraternità, cui si vogliono richiamare le democrazie moderne, ma che, pena le peggiori contraffazioni, devono essere intese, è ovvio, come le intendono il diritto naturale, la legge evangelica e la tradizione cristiana, che ne sono nello stesso tempo – ed esse soltanto – gli ispiratori e gli interpreti autentici” (68).
Se poi, come scrive Plinio Corrêa de Oliveira parlando dell’epoca in cui si è svolta la crisi della civiltà cristiana medioevale e facendo eco a Frédéric Le Play (69), in tale tempo storico “[…] si andò estinguendo nei grandi e nei piccoli la fibra d’altri tempi per contenere il potere regale nei legittimi limiti vigenti al tempo di san Luigi di Francia e di san Ferdinando di Castiglia” (70), la formazione di uomini di una fibra tale da resistere, da combattere e da vincere il moderno Stato totalitario e imperialistico – di cui la Rivoluzione francese ha preparato la “materia prima” (71) e fatto qualche esperimento, e che non è né dittatura né monarchia assoluta (72), ma si caratterizza, secondo Emil Brunner, per il “[…] controllo totale su tutta la vita, interiore ed esterna, religiosa, culturale ed economica, di tutti i suoi cittadini” (73) – non è certo opera che l’uomo possa compiere da solo: la Vergine Santissima che, a Fatima – come ho già ricordato – ha promesso il superamento della condizione in cui l’umanità è storicamente caduta; Ella, che è Madre del Redentore ma anche Madre dei redenti, provveda a generarne e noi a renderci completamente disponibili a questa spirituale generazione.
_________________________
1) Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso di apertura dei lavori della III Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-Americano a Puebla de Los Ángeles (Messico), del 28-1-1979, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol 7, pp. 188-211, soprattutto III, 7, pp. 208-209; a commento, cfr. Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Il messaggio di Puebla, in Cristianità, anno VII, n. 50-51, Piacenza giugno-luglio 1979, pp. 6-11.