Alleanza cattolica15 Aprile 2024
Riflessioni a margine della Dichiarazione Dignitas infinita
di Marco Invernizzi
Oggi vorrei parlare della Chiesa e lo faccio partendo dal Simbolo degli Apostoli, la professione della fede più antica, risalente al II secolo e perciò detta degli Apostoli, che recitiamo la domenica in ogni chiesa dove viene celebrata una Messa, più spesso nella formula di san Paolo VI, sostanzialmente identica.
Lo faccio dopo una riflessione nata leggendo il documento del Dicastero della fede Dignitas infinita pubblicato nei giorni scorsi. Di questo documento avremo modo di parlare a lungo, data la sua importanza. Esso ribadisce quanto la Chiesa ha sempre insegnato sui temi etici oggi più controversi, quelli che il “mondo” che rifiuta Cristo non tollera e non vuole riconoscere come fondamentali per il bene di una comunità: la sacralità della vita certamente, ma anche la sua dignità da cui nasce il rifiuto dell’ideologia gender che nega la differenza provvidenziale del maschio e della femmina, Il rifiuto della maternità surrogata perché contraria alla dignità della madre e del bambino concepito.
Opportunamente, il documento unisce ai valori ricordati anche quelli cosiddetti “sociali” che riguardano la dignità dell’uomo in ogni circostanza, quando è alla fine della vita come quando è in carcere o è un emigrante. Il punto è importante perché aiuta a superare ogni possibile divisione ricordando come la dottrina sociale della Chiesa non si possa prendere a la carte, ma soltanto tutta insieme, come si evince per esempio dalla lettura del Compendio per la dottrina sociale della Chiesa, dove famiglia e vita, diritto e ambiente, educazione, sussidiarietà e solidarietà non vengono isolati e contrapposti, ma appunto tenuti insieme. Il che non toglie che a seconda delle situazioni temporali e del valore dei principi fondamentali non possano essere individuate delle gerarchie e delle priorità storiche.
Ma la riflessione che volevo proporvi oggi riguarda il titolo del post, cioè la Chiesa, il sensus ecclesiae, la sua natura, la sua importanza e provvidenzialità.
Troppo spesso noi trattiamo la Chiesa con categorie improprie quando non radicalmente sbagliate. In questo siamo certamente influenzati dai media, dal loro disperato bisogno di vendere un prodotto, per cui tutto deve essere ridotto al sensazionale, anche a prezzo della verità. Ma la Chiesa non può essere sacrificata per compiacere la nostra ignoranza delle categorie che la riguardano o per vendere qualche copia di più in edicola, tanto meno per aumentare il numero dei like.
La Chiesa è santa, e non è un modo di dire. Essa è veramente il corpo del Signore non nelle parole soltanto che pronunciamo professando il Credo, ma attraverso la sua azione salvifica nelle persone e nella storia. Lo è perché trasmette la Grazia di Cristo, quell’amicizia con il figlio di Dio che riceviamo nei Sacramenti, attraverso il ripetersi miracoloso del sacrificio della Croce.
Essa è santa nonostante i nostri peccati. Ogni volta che ci dimentichiamo e la trattiamo come una società soltanto umana, come se fosse soltanto una ong o un partito politico, la feriamo profondamente.
E la Chiesa è santa anche a dispetto delle omissioni e delle debolezze dei suoi pastori o della nostra paura di testimoniarla e difenderla con coraggio e fedeltà.
Ma se la Chiesa è santa non si può trattare il suo Magistero come se fosse l’insegnamento di un qualsiasi organismo umano, non si può sottoporre ogni suo documento a un esame critico come se ciascuno di noi avesse ricevuto il munus di vagliare, giudicare, criticare e rifiutare ciò che la Chiesa trasmette.
Tutto questo mi viene in mente ogni volta che leggo con quanta arroganza, supponenza e superficialità viene analizzato un testo del Magistero, non soltanto dai media che cercano sempre il titolo sensazionale ma anche da chi si professa cattolico. Questo è accaduto anche con Dignitas infinita.
Se vogliamo costruire o ricostruire un rapporto corretto dentro la Chiesa, nel rispetto del principio gerarchico su cui si fonda, principio messo in discussione soprattutto a partire dalla contestazione degli Anni Sessanta e mai veramente recuperato nei rapporti ecclesiali, leggiamo e facciamo nostro quanto è scritto nella Lumen gentium: «questo assenso religioso della volontà e della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero autentico del romano Pontefice, anche quando non parla “ex cathedra”.
Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall’insistenza nel proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi» (n. 25).
La stessa Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II ci ricorda come le difficoltà nella Chiesa provengano sia dal suo interno sia dall’esterno «le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori» (n. 8) e sarebbe sbagliato negare quanto spesso sia difficile obbedire, accettare, rinunciare alle proprie opinioni. Ma soltanto così, assumendo il valore proprio dell’obbedienza, la virtù più contestata nel tempo successivo al 1968, sarà possibile servire la santa Chiesa di Dio, l’unica che ci dona la Salvezza eterna.
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