«Ci siamo limitati in questa analisi ai decenni della crisi delle scienze e quindi a quei fatti che hanno caratterizzato il clima dell’inizio del novecento. Poiché da lì comincia il grande declino che oggi,nel terzo millennio, appare in tutta la sua drammaticità, fino a fare del presente un tempo dominato dalla stupidità, da un’involuzione che sembra apocalittica non tanto per ordine di un dio stanco, ma di un uomo che si è perso, senza riferimenti e senza più princìpi.
Vittorino Andreoli
2 Il mistero non è più un primitivismo che aspetta di essere superato dalla civiltà della ragione, come sognava Vico.
3 Freud fa una operazione elegantemente disperata, quella di dare un senso all’ignoto e di razionalizzare l’empirico.
4 Si staglia un pericolo mortale non solo per il singolo, ma per una intera società e forse per un’intera civiltà.
SCIENZA E TECNOLOGIA. Non è facile dar compiutezza a un viaggio nella scienza, anche se limitato allo scenario in auge tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento: una fase in cui nel giro di pochi anni cambia il clima, e una scienza definita fino a quel momento “classica”, nel senso di un sapere elevato su basi indiscutibili e sicure, ritenute quindi perenni, si sovverte ed entra in crisi.
È importante rilevare questo aspetto, perché la scienza molto difficilmente la si coglie nell’insieme. Abitualmente ci si sofferma sul particolare risultato colto da una disciplina, e su questo ci si ferma, considerando il resto come pura elucubrazione che non interessa gli scienziati. Una meta-scienza, che si gioca in un àmbito non lontano dalla filosofia e che dagli scienziati viene percepita come una congettura, mero gioco di parole in un percorso della mente, mentre l’àmbito proprio della scienza è il particolare.
Uno degli esempi più significativi di tale discrepanza, la diversa sensazione cioè tra l’analisi di un dato e l’insieme dei dati scientifici, lo si trova indubbiamente nella figura quasi eroica dello scienziato Albert Einstein e nella sua scoperta per eccellenza, la relatività. Indubbiamente il risultato da lui raggiunto è straordinario, poiché scopre una visione che nel campo della fisica scombina, e in parte sostituisce, la precedente, ma che in sé appartiene a quelle scoperte che sanno di crisi, crisi dei princìpi in generale: come se ci si venisse a trovare in un mondo diverso, e alle precedenti certezze dovesse subentrare solo una sorta di relativismo aperto.
Sono affascinato dall’èra di Einstein, che considero uno dei più grandi fisici della storia. Questi ha contribuito a mutare non solo il campo degli studi cui si era applicato, ma la stessa percezione del mondo e dell’uomo nel mondo, e ad abbattere certezze che almeno da tre secoli – dai tempi di Newton – apparivano consolidate. La scienza non è più un forziere di certezze e verità, che anzi, proprio a partire dalla crisi scoppiata a cavallo tra Ottocento e Novecento, appaiono termini superficiali, da abbandonare.
Si può legittimamente affermare che l’azione condotta in quei decenni a riguardo della scienza classica è più “destruens” che non caratterizzata da una fase costruttiva nuova, seppur non vi sia dubbio che per ricostruire bisogna prima demolire. Ma se la distruzione si è snodata nell’arco di qualche decennio, è comprensibile che una nuova visione del mondo non ci sia ancora, e quindi che un secolo non sia stato ancora sufficiente per ricostruirla.
Guardando alla storia si ha l’impressione che esistano climi culturali tra loro in successione: a quelli di grande costruzione ne subentrano altri di incertezza e di scompaginamento.
Nel Rinascimento tutto era come fiorito, e infatti si assisté a una grande innovazione nelle arti e nelle lettere, mentre la scienza – quella di Bacone e Galilei –, non ancora nata, era forse in preparazione.
Poi ci sono fasi che sembrano di distruzione, e persino di vuoto, in cui è difficile reperire qualche cosa, qualche dimensione degna almeno di essere ricordata. Il che vale puntualmente per il periodo storico al quale ci stiamo dedicando, all’insegna di una distruttività che impressiona e che vediamo specchiarsi persino nella pittura, in particolare nell’espressionismo tedesco, come nel senso di precarietà e di minaccia che aveva il volto della guerra. Si aggiunga la situazione di crisi che colpisce anche l’economia degli Stati Uniti nel 1929; come dire, pure il versante della sicurezza materiale e dello sviluppo vede la recessione, con la gente che muore letteralmente di fame e l’alcolismo che si fa endemico.
È la scienza che genera una tecnologia straordinaria sì, ma anche apportatrice di morte. Durante il primo conflitto mondiale si avverte l’orrore dei caccia bombardieri, e le micidiali armi per la distruzione del nemico singolo e di massa. I treni diventano mezzi di collegamento che facilitano lo spostamento degli eserciti d’occupazione.
Per chi volesse vedere poi nel secondo conflitto mondiale la prosecuzione del primo, ecco che il dramma della scienza applicata alla guerra diventa ancor più tragico, poiché dalla fisica delle particelle si arriva alla bomba atomica, strumento che solo a Hiroshima e Nagasaki annienta due intere città, lasciando ai sopravvissuti i codici di morte addosso, per passarli alle generazione successive a causa delle mutazioni genetiche subìte.
Un dramma, questo, in cui si collocano – a segno di un malessere diffuso – le storie emblematiche di due fisici – Ettore Majorana e Robert J. Oppenheimer – che di fronte alla bomba atomica entrano in crisi. Majorana scompare, forse in un monastero, o forse suicida nelle acque del Mediterraneo, mentre Oppenheimer (responsabile delle ricerche a Los Alamos) è processato con l’accusa di avere trasmesso informazioni sulla “bomba” all’Unione Sovietica di Stalin, e finirà per pentirsi dei sui stessi studi.
Si giunge all’inquinamento atmosferico, passando per i danni prodotti dalla ricerca, di cui la talidomide è un esempio lampante nel campo della medicina e della farmacologica. Assieme a molte vittorie scientifiche nei singoli settori e a indubitabili vantaggi in vari campi, è difficile non aver presenti anche i disastri. Si fa pressante ed endemica la paura per il rischio del nucleare. Basterebbe citare Cernobyl, ma anche la diossina della nostra Seveso, e poi guardare alle tante guerre “minori”, a cominciare dal Vietnam, e alla tecnologia nucleare che si è sviluppata all’ombra dello scudo spaziale.
A partire da quel primo decennio del Novecento, insomma, si può individuare una serie continua di catastrofi e procedere a un elenco senza fine dei rischi di morte legati alla scienza, rischi che insidiano il singolo ma anche le masse. Con la tecnologia infatti, la scienza passa dal bacino ristretto degli scienziati a quello assai più ampio delle popolazioni, che magari non percepiscono la profondità e la specializzazione delle singole ricerche, ma ne avvertono il senso generale e il pericolo per la loro vita.
E qui non si possono non ricordare i problemi legati non solo alla biologia ma anche alla tecnologia sugli embrioni, e quindi agli strumenti per impedire che si origini la vita oppure per interromperla mentre si sviluppa. Comunque la si consideri, si tratta di una dimensione che crea angoscia, e suscita gli interrogativi più radicali.
Non si può più dire insomma che la scienza trovi riparo nel segreto dei laboratori, anche perché, diventando essa molto costosa, ha bisogno di grandi supporti e diventa materiale di promozione da parte di chi amministra la società, da coloro cioè che devono rendere conto ai cittadini di come il denaro pubblico viene speso. Così, da disciplina che produce certezze, la scienza diventa una via per conoscere i dubbi, fino alla teorizzazione che essa non può produrre altro che dubbi. Ogni risultato infatti è parziale e in più falsificabile, cioè contiene almeno un’aporìa che necessita di correzione. Ciascun dato perciò non può che essere transitorio e parziale.
In altre parole, la scienza appare come una modalità faticosa per ricercare la verità, senza incontrarla poi mai, anzi sbagliando per il solo pensiero di riuscire a scoprirla. La scienza apporta, semmai, correzioni a errori, mentre però ne veicola altri: “verità” storiche transeunti.
Se si osserva bene quanto è avvenuto nella fisica di Werner Heisenberg, di Paul Dirac e di Albert Einstein, non si può certo negare che essa abbia compiuto grandi progressi, ma semplicemente perché aveva tanto da distruggere. Uno scenario che dal Seicento in poi si era solo allargato, al pari di una delle nostre metropoli in espansione continua, come ad esempio Tokyo che ha raggiunto i 26 milioni di abitanti.
Quando ci si chiede perché la ricerca sia oggi così poco sostenuta non si tiene mai conto che è diminuita fortemente la fiducia in essa, che non ha più fascino, essendo anzi percepita come un affare pericoloso e foriero di disgrazie. A questo riguardo, basta considerare l’atteggiamento generalmente adottato nei confronti degli organismi geneticamente modificati, a partire dalle culture agricole.
Ebbene, si tratta di scoperte che la gente non accetta, anche quando gli scienziati si fanno garanti della sicurezza alimentare, e anche in presenza di un’indubbia convenienza a livello di prezzo. Ormai c’è paura per ogni innovazione. E trovo che sia difficile convincere il mondo a sostenere una ricerca che fa paura: alcuni eventi drammatici sono ancora assai vivi nella memoria, e per molte famiglie o nazioni ne perdura la realtà.
Se si pensa al concetto di natura contrapposta a tecnologia e ai sistemi che chiamiamo biologici, si può senz’altro intravedere questa paura, in parte almeno inconsapevole. La natura non è infatti un “hortus conclausus“, come a suo tempo pensava anche Aristotele, ma un mondo che si è fortemente modificato: non solo rispetto all’antico ma anche in confronto a pochi secoli fa.
Un mondo modificato anche da una tecnologia capace di interventi acuti, ben diversi da quelli di cui sono capaci anche scoiattoli e uccelli, animali capaci di apprendere operazioni nuove rispetto al passato. Domina questo scenario un preciso ideale di natura, insieme all’idea che la ricerca e la tecnologia non debbano intaccare la natura medesima, quasi fosse una statua, qualcosa che l’uomo deve rispettare e trattenersi dal rovinare.
È di certo possibile far danni, ma non è lecito inventare una natura che non esiste e porre in relazione con essa l’uomo come se fosse un soggetto estraneo, che la rovina sadicamente, alla stregua di un démone. Una simile mentalità frena la ricerca e si esprime in un atteggiamento anti-scientifico, magari sostenuto da chi al tempo stesso chiede di sovvenzionare la ricerca. La scienza che doveva soppiantare la filosofia si fa dunque debole, esile, persino malata.
FILOSOFIA. A questo proposito però non si può certo dire che la debolezza della scienza abbia incrementato il potere della filosofia. Se ci soffermiamo infatti sugli anni della crisi, a cavallo tra Otto e Novecento, possiamo renderci conto che in realtà anche la filosofia si è indebolita, sino a diventare filosofia della crisi. Basterebbe citare la fenomenologia, corrente che si forma attorno a Edmund Husserl proprio a partire dai primi anni del Novecento, ma che si allarga a Karl Jaspers e a Ludwig Binswanger. Una visione che si lega all’esperienza, all’essere qui e ora, e quindi alla vita. A conferma di ciò basterebbe citare il titolo quanto mai espressivo di un’opera fondamentale di Husserl, «La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale».
Da questa corrente filosofica promana un fascino capace persino di sedurre. Non può tuttavia sfuggire il senso di crisi che essa trasmette poiché rinvia ogni fondamento all’esperienza vissuta, e quindi alla relazione che proprio perché singolare è irripetibile. Così però viene a mancare di ogni sostegno obbiettivo, almeno nel senso che questo termine aveva nella filosofia di Kant, e che arrivava a includere l’universale.
Giunti a questo punto non c’è dubbio alcuno che il cammino sin qui percorso per la scienza potrebbe essere ripetuto per la filosofia. La crisi del kantismo infatti è il segnale che anche l’ultima fortezza si incrina, se non crolla addirittura. Viene meno una costruzione del pensiero, una conoscenza del mondo che dava certezza ed esibiva persino verità, al punto che molti avevano pensato che non si potesse andare oltre Kant, quasi che le sue opere costituissero le colonne d’Ercole del sapere umano. A questo panorama bisogna naturalmente aggiungere le filosofie esistenzialistiche e quelle che si sono radicate nell’empirismo più estremo.
SACRO. È inevitabile che la debolezza della scienza e della filosofia induca ad avvicinarsi al sacro e alle religioni, che sembrano fornire una risposta immediata e totale, sen za dubbi e senza parzialità: è la risposta della fede, un «credo quia absurdum», un percorso breve tra il bisogno e la sua risposta. Del resto, perché contrapporre fede e scienza quando è fede anche l’accettazione di assiomi, di postulati, di ipotesi di ricerca che nulla hanno a che vedere con il metodo rigido e razionale, e tanto meno con la sperimentazione?
La fede in un Dio si aggancia all’autonomia e concretezza di ciascuno e propone quei comportamenti che, al di là del significato specifico che ogni religione vi attribuisce, servono ad allontanare la paura, a controllare l’angoscia del vivere che si accentua poiché la vita si lega a una specie di filo di ragno che sembra sempre sul punto di rompersi.
Il problema si allontana sempre più dalla scienza “pura” e si lega ai miti, alla magia e persino alla metamorfosi, tanto che si scoprono sostanze che sembrano produrla rapidamente. Si ritorna al misticismo delle droghe, che hanno avuto una lunga storia presso i popoli primitivi e che adesso entrano nelle società avanzate colte dalla paura. Ai princìpi della logica scientifica e alle categorie della filosofia si sostituiscono gli empirismi pratici, la visione di mondi senza un futuro che nessuno garantisce e che si fa misterioso. Il mistero però non è più un primitivismo che aspetta di essere superato dalla civiltà della ragione, come sognava Giambattista Vico, ma una dimensione sopravvissuta alla scienza, che nel frattempo è morta.
INCONSCIO E PSICOLOGIE. Dilaga l’inconscio, e questo sembra persino un paradosso se solo pensiamo al nome con cui s’impone questa dimensione nascosta in ciascuno ma capace di guidare lungo percorsi comportamentali che non hanno scelta e non si attivano sulla base di una logica razionale. Per secoli sul comportamento dell’uomo avevano dominato il capire e il volere, nella convinzione che con la ragione si potesse discernere il bene e separarlo dal male, e che poi con la volontà si riuscisse a scegliere il primo e rinunciare al secondo.
Su questi parametri si dipingeva l’uomo libero, in grado di capire il mondo che la scienza svelava sempre più nei suoi veri connotati come premessa per intessere una vita più opportuna e giusta. Su questi stessi parametri si fondava la pedagogia: sviluppando la ragione e poi rinforzando la volontà l’uomo poteva assurgere alla sua dignità e servire la verità.
Nella seconda metà dell’Ottocento si comincia a parlare di inconscio, ancor prima della sua proposta organica da parte di Sigmund Freud. L’intento è di sostenere che il comportamento non sia riducibile al capire e al volere poiché nell’uomo agiscono forze oscure collocate oltre la coscienza, delle quali pertanto non c’è consapevolezza. Se così è, significa che si tratta di forze non comprensibili – almeno razionalmente – e non dominabili con la volontà, poiché sfuggono persino alla loro identificazione (e senza identificazione non si può esercitare alcuna scelta).
Ciò che di oscuro si agita dentro l’uomo veniva già anticipato dalle correnti romantiche: ma si trattava di ombre che si coglievano in qualche figura, ad esempio in tutti i grandi personaggi dell’arte usciti da uno “Sturm und Drang”, da una sorta di tempesta emotiva. Un simile aspetto s’imponeva con realizzazioni che, per quanto estranee al senso dettato dalla ragione, si proponevano come prodotti dell’uomo, sue creature. Ora invece l’inconscio s’intravede in tutti gli uomini come qualcosa di strutturale.
C’è come la certezza d’un incerto, la presenza di uno sconosciuto che può giungere persino a dominare, un demone che può possedere l’uomo senza che egli possa fare nulla. Si mettono in gioco, così, la libertà e la responsabilità. È di questo periodo la dichiarazione che l’uomo può compiere gesti senza la capacità di capire e di volere ciò che fa. In queste condizioni egli non può essere ritenuto responsabile dell’azione e del danno che consegue a quel comportamento.
Ma se l’inconscio – e dunque quell’ombra di cui si diceva poc’anzi – è presente in tutti, e se addirittura esiste un inconscio non solo individuale ma collettivo, come sostiene Carl Gustav Jung, allora non è forse l’intera specie a trasformarsi in un’entità governata non da ragione e da volontà ma dall’inconscio collettivo che vuole qualcosa che la coscienza ignora? E se lo ignora, come dominarlo? E come educare al controllo di ciò che è sconosciuto?
Freud tenterà di dare un volto comprensibile a questo mostro sconosciuto che ci possiede, e lo farà proprio per non entrare nel dominio della religione rimanendo invece nell’àmbito della medicina e persino della scienza, poiché questa era la sua provenienza. Ma questo mostro rimane sempre nelle vesti di un limite, di qualcosa che sfugge, anche se lo psicoanalista lo può rincorrere con la sua tecnica. Freud compie un’operazione elegantemente disperata: dare un senso all’ignoto, tentare di razionalizzare l’empirico e il misterioso.
D’altra parte, ci si potrebbe chiedere: che senso ha avuto – e ancora ha – domandare uno statuto scientifico alla psicoanalisi, se la scienza nelle forme più pure della matematica e della fisica possiede un’aporìa che non la libera dall’irrazionale e non le permette di giungere a conclusioni di verità e di certezza? Non vogliamo entrare in questo tema specifico ma limitarci alla scoperta di una dimensione dell’uomo che mette in crisi la concezione classica di un’entità che di misterioso non dovrebbe aver nulla.
Uomo. L’uomo è un grande sconosciuto, un mistero, nonostante tanta ricerca e tanto “progresso”. Lo stesso criterio di progresso a un certo punto viene anzi posto in discussione. A metterlo in crisi – si dice – sono i calcoli sulla valutazione delle risorse alimentari ed energetiche del pianeta che non sarebbero in grado di soddisfare un numero giudicato già troppo alto di viventi. Il Club di Roma, coordinato da Aurelio Peccei, comincia a preconizzare la fine del pianeta per effetto di un consumo che lo devitalizzerebbe. Un’anali si che evidenzia soprattutto i limiti dello sviluppo (si vedano, oltre ai rapporti dell’istituzione, anche Aurelio Peccei, «Quale futuro?», Biblioteca dell’Est, Mondadori 1974, e «La qualità umana», Biblioteca dell’Est, Mondadori 1976).
Si aggiunge un’altra dimensione che sembra persino ridicola: l’uomo deve fare i conti con i rifiuti che egli stesso produce e che potrebbero seppellirlo. Un consumo che, così descritto, sa di idiozia, poiché non è segnale di benessere ma di una sorta di dipendenza che produce allo stesso tempo la morte del pianeta e dell’uomo. Ma l’uomo è anche spaventato: non crede più alla scienza, e di fronte a ogni suo risultato si domanda cosa veramente nasconda e se essa non sia invece uno strumento di potere, un’arma cioè che i potenti usano contro i poveri o i più deboli. Con il nazismo la tecnologia delle armi di distruzione mostra la crudeltà non solo dell’uomo ma di un’intera nazione: che è la più forte, e si mostra come la più crudele.
La scienza come terrore e paura finisce per trovarsi collocata nel cielo assieme agli dèi e alle potenze numinose da cui nascono le correnti apocalittiche.
Nella cruda descrizione fatta dal Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij – siamo nel 1880 – costui afferma che l’uomo ha bisogno di un pezzo di pane e di un padrone cui delegare la propria libertà e ubbidire. Questo romanzo è un richiamo straordinario al problema del male che ormai si fa dominante e non sembra risolvibile, almeno non dalla scienza. È un male che coesiste con l’uomo, come sua parte costitutiva, un male cui si lega un dolore ineliminabile e tremendo.
La scienza dunque non domina più lo scenario dell’uomo: lo affianca piena di dubbi, di limiti, di aporìe, senza più princìpi, o almeno senza quelli della certezza e della verità, sostituiti dai princìpi dell’impotenza e del relativismo che la detronizzano. È come se si fosse colto il limite intrinseco al procedere stesso della conoscenza, per cui si misura il mondo con la mente dell’uomo che è ignota, o almeno sfugge nella sua completezza e persino nella sua funzionalità. È come misurare una distanza senza conoscere l’unità di misura che la determina, quasi che il “metro” fosse un pressappoco, un’entità sconosciuta per misurare ciò che è indeterminato.
È il problema della mente dell’uomo, che si pone questioni e non sa darsi risposte se non vaghe e mai prive di un dubbio: un dubbio che sarà diverso da quello originario ma che si trascina solo cambiando maschera, non concedendo mai alcuna certezza. In taluni momenti l’uomo ha cercato di convincersi e di credere in sé, nelle proprie forze, in altri invece ha sentito forte il senso del limite. Nel primo caso si rifugiava nella certezza di trovare la verità, nel secondo camminava più lentamente sapendo che tanto la verità non avrebbe mai potuto trovarla.
La storia si è sviluppata tra questi due poli: una vera maniaco-depressione del genere umano in rapporto al significato del mondo e al senso stesso dell’uomo. Talvolta si è pensato di dimenticare la parola “verità”, scordando anche che nasceva dall’interno stesso dell’uomo e che quindi si trattava di una passione interiore che, se anche perde d’intensità, non può annullare la propria forza. La verità, dunque, vista come un bisogno.
C’è stato un tempo in cui si è avuta fede nella ragione, nel suo potere assoluto di discernere tra vero e falso, tra buono e cattivo. Una ragione destinata a sovrastare quel sentimento che è invece il marchio dell’individuo, della sua irripetibilità. La ragione vista come universale, fondamento oggettivo, assoluto. Poi si scopre che la ragione risente delle emozioni, e che persino nel cervello le strutture che regolano la ragione sono embricate con quelle dell’affettività, e che pertanto una separazione è solo utopica.
Si scopre che il cervello non è nemmeno meccanico, ma una sua parte – il cervello plastico – si struttura e si modifica in rapporto alle esperienze e quindi in base alle rela zioni che il singolo stabilisce con altri esseri umani. Dunque il cervello cambia, si storicizza e finisce per stampare dentro la sua materia, nella carne, esperienze che quel singolo ha fatto e poteva non fare. Quindi il tempo e l’esperienza strutturano lo stesso organo che dovrebbe scientificamente “misurare” il mondo dentro cui l’uomo è calato.
Epicrisi. Ci siamo limitati in questa analisi ai decenni della crisi delle scienze e quindi a quei fatti che hanno caratterizzato il clima scientifico dell’inizio del Novecento, poiché da qui comincia il grande declino che oggi, nel terzo millennio, appare in tutta la sua drammaticità fino a fare del tempo presente un tempo dominato dalla stupidità, da una involuzione che sembra apocalittica non tanto per ordine di un Dio stanco ma di un uomo che si è perso, senza più riferimenti e senza più princìpi. Il percorso, che in parte abbiamo alle spalle, è dunque quello di analizzare gli anni del cambiamento per poi passare al presente che descriveremo nella vita e nei comportamenti che si sono fatti cronaca.
Ma non abbiamo fretta. Vogliamo trattenerci sulla caduta dei princìpi, mantenere l’attenzione costantemente e quasi ossessivamente su di essi, sulle categorie: poiché, oltre che prestare attenzione a un itinerario che stiamo tracciando, vogliamo che dentro ciascuno si attivi una percezione dei princìpi perduti, la consapevolezza di che cosa è accaduto, anche se nessuno lo ha mostrato in maniera chiara e con l’impegno che un tale segnale di pericolo mortale avrebbe meritato non solo per il singolo ma per un’intera società, e forse per una civiltà. Che le civiltà finiscano, del resto, non è un delirio di qualche profeta di sventura.