Massimo Introvigne
Dal cardinale Ruini a Repubblica, il giorno dopo il referendum tutti assicurano che è morto in Italia il teorema che identificava modernizzazione e secolarizzazione. Dal momento che – insieme con diversi colleghi americani – da qualche anno cerco di diffondere appunto una critica articolata della teoria della secolarizzazione, sono molto interessato a questo dibattito, che non è nato né finirà con il referendum.
Fin dalle sue origini ottocentesche, la sociologia della religione si fondava sul teorema secondo cui più la società diventa moderna, scientifica e democratica, meno spazio lascia alla religione. Questa «teoria della secolarizzazione» ha regnato incontrastata fino a quando il centro di gravità della sociologia delle religioni non si è spostato dall’Europa agli Stati Uniti. Lì era facile constatare che il teorema non funzionava: in una società certamente moderna, scientifica e democratica la religione non arretrava, anzi avanzava.
I sociologi europei risposero dapprima parlando di «eccezione americana». Quando poi constatarono che anche in molti Paesi dell’Asia e dell’Africa alla modernizzazione corrispondeva un risveglio, non un arretramento della religione, rovesciarono il discorso con la formula della «eccezione europea»: il teorema secondo cui quando la modernità avanza la religione arretra varrebbe solo per l’Europa.
Occorre tuttavia chiarire che quando si parla di statistiche sulla religione, e di secolarizzazione, si parla di tre cose diverse. In inglese viene facile chiamarle le tre B: believing, belonging e behaving, cioè credenze, appartenenze e comportamenti. I sociologi hanno scoperto da decenni che le tre cose non vanno insieme: nell’Unione Europea per esempio l’80 per cento dei cittadini si dichiara credente, ma solo il 20 per cento frequenta almeno mensilmente una funzione religiosa, e meno del 10 per cento dichiara di ispirare i propri comportamenti morali e sociali alla religione.
Non c’è veramente dibattito sul fatto che la secolarizzazione non abbia investito le credenze: quasi ovunque, dopo la crisi delle ideologie irreligiose, i credenti sono piuttosto in crescita. La discussione riguarda invece le appartenenze e i comportamenti: quanti sono davvero in contatto con le religioni istituzionali? Basta andare in chiesa una volta al mese? O una volta alla settimana? O ancora si devono condividere i principali insegnamenti della religione, in particolare in campo morale?
A seconda dei parametri utilizzati, i cattolici italiani possono essere stimati in metà, un terzo o un quinto della popolazione.
Altri distinguono fra «identità» cattolica (che resta costante e in cui si riconoscono otto italiani su dieci) e «identificazione» con la Chiesa, le sue pratiche e i suoi insegnamenti. Quest’ultimo è un dato stimato intorno al venti per cento degli italiani. Ma è un dato molto variabile. Il referendum conferma che il lungo pontificato di Giovanni Paolo II – e la tendenza continua con Benedetto XVI – ha ridotto il divario fra identità e identificazione, e messo nell’angolo il dissenso nei confronti delle gerarchie, vigoroso ai tempi dei referendum su divorzio e aborto.
L’identificazione, tuttavia, è per sua natura precaria. Richiede di essere continuamente riproposta e riaffermata. Di qui l’insistenza dei vescovi sulla «nuova evangelizzazione» e gli strumenti come il nuovo compendio del Catechismo. La piantina cresciuta con il referendum abbisogna di lunga e continua irrigazione per continuare a crescere.