Studi Cattolici n.647 gennaio 2014
Mariolina Ceriotti Migliarese
Estate 2014. Leggo sul Corriere della sera: «Lo scienziato inglese Richard Dawkins sostiene: una donna che aspettasse un bambino down dovrebbe dimostrare senso di responsabilità e abortire; poi, magari, riprovare». Estate 2014. I giornali riportano la vicenda di due piccoli gemelli nati in Australia da fecondazione eterologa: uno dei due è affetto da sindrome di down. La coppia che li ha «ordinati» rifiuta il piccolo con handicap e vuole tenere solo il figlio sano.
Estate 2014. In Francia la Tv di stato rifiuta di trasmettere un filmato nel quale piccoli down ci spiegano perché vale la pena farli venire al mondo: “Dear future mom”, un filmato dolcissimo, che aiuta a riflettere, potrebbe turbare le donne che hanno abortito o che potrebbero decidere di farlo.
Niente come questo tipo di episodi mette in luce la profondità e la vastità dell’attacco al cuore del femminile e del materno. Ci sono stati anni (… quanto tempo fa?) in cui una donna capace di accettare e amare un figlio con handicap riceveva ammirazione e supporto dai membri della propria comunità. Le sue (enormi) fatiche, preoccupazioni, ambivalenze, potevano trovare conforto e aiuto concreto nella solidarietà sociale. Molti secoli di cristianesimo avevano trasformato in un valore condiviso l’idea che fin dalle sue origini il piccolo embrione è una persona, e che ogni persona ha un valore unico e insostituibile che nemmeno la presenza di una disabilità o di una grave malattia possono annullare.
Il cuore di questa capacità di accoglienza sono sempre state soprattutto le donne, che nel concreto della vita quotidiana si sono fatte carico delle necessità dei membri più fragili della famiglia umana; compito spesso ingrato, faticoso, poco riconosciuto, ma che le donne stesse sapevano importante e centrale, al punto da non potere e non volere abdicare di fronte a esso.
Ma oggi? La donna stessa, oggi, fatica ad avere la certezza che un compito come questo abbia ancora un senso. Perché far nascere persone handicappate e farsene carico? Non è la loro una vita insensata, priva di valore e destinata necessariamente alla sofferenza? Perché lottare contro tutto e tutti? La donna percepisce molto bene che la scelta di far nascere un figlio che sa «malato» non risveglierà intorno a lei nessuna vera solidarietà e che sarà molto difficile trovare un supporto autentico.
La cosa più probabile in questi casi è ormai quella di venire guardata con malcelata disapprovazione: peggio per lei se ha voluto far nascere qualcuno così; poteva scegliere di evitarlo, l’aborto era la cosa più semplice e più logica. In questo modo la già grande solitudine e paura che una donna prova davanti a una gravidanza problematica è diventata oggi una insostenibile voragine.
Dopo la scomparsa del padre
Già da qualche anno ormai è in corso un vivo dibattito sulla scomparsa del padre; in Italia il tema è stato aperto e portato avanti con forza per primo dal prof. Claudio Risè con numerose pubblicazioni.
Credo sia ora giunto il momento di parlare del pericolo forse ancora più grave della scomparsa delle madri nella società occidentale: bisogna riflettere infatti con attenzione non solo sul crollo evidente della natalità, che è sotto gli occhi di tutti, ma anche e forse soprattutto sul progressivo misconoscimento di ciò che una madre è, del significato e del valore specifici della maternità.
Parlando della madre e del materno, non intendo fare riferimento a qualcosa che è vivo e operante in modo automatico in tutte le donne; desidero invece riferirmi a un potenziale archetipico che è presente nell’inconscio femminile, in attesa di venire attivato da ogni singola donna per poter sprigionare le enormi energie vitali di cui è portatore.
Non tutte le donne sono consapevoli di questa ricchezza potenziale che riposa in loro e molte al contrario hanno paura di riferire a sé stesse la parola «madre», come se si trattasse di una parola sottrattiva, imprigionante e pericolosa. Eppure l’archetipo materno è un archetipo potente e ricchissimo, legato al femminile a partire dal corpo stesso della donna; la parola «madre», come dice F. Dolto, «è… la rappresentazione umana della creatività, il simbolo stesso della fertilità umana».
La scomparsa progressiva del materno porta con sé la scomparsa della particolare attitudine verso l’umano che la cultura materna buona comporta: attitudine di accoglienza, di compassione, di attenzione al bisogno, di protezione, di cura. Porta con sé quella diminuzione del valore della vita e della persona che è drammaticamente sotto gli occhi di tutti noi.
II pensiero materno è inclusivo
Ma in cosa consiste la cultura materna buona? Il primo frutto di una buona cultura materna consiste nella capacità di accogliere la persona: accoglierla per quello che «è» perché «è», riconoscendole un valore incondizionato, legato solo al suo essere una persona e dunque in senso lato sempre un figlio.
È un’attitudine che porta le donne che la coltivano a un atteggiamento di fondamentale concretezza nelle loro scelte e nei loro pensieri, perché la donna che vive il materno sa che ogni scelta e ogni decisione che coinvolgono l’umano non coinvolgono mai un umano neutro e astratto, ma l’umanità reale di qualcuno che è persona, che sente, che soffre, che desidera.
Per questo motivo il pensiero materno si configura come un «pensiero in relazione», un pensiero inclusivo, che sa tenere conto dell’altro. È un pensiero che dice: «Il bene della persona dell’altro mi riguarda»; e questo pensiero è in grado di modulare una particolare attenzione nei confronti dell’uomo, di ogni singolo uomo concreto presente nell’orizzonte di una donna materna, con ricadute incalcolabili sulla vita sociale. L’attitudine materna all’accoglienza si accompagna allo sviluppo di altre importanti capacità; tra queste ce n’è una che riguarda la qualità dello sguardo: si tratta dello sviluppo di una capacità immaginativa positiva, analoga a quello che i francesi chiamano, con termine intraducibile, la reverie.
Si tratta dell’attitudine a vedere-sognare-immaginare-sperare tutto il positivo che la vita dell’altro possiede ancora in germe, qualcosa che ancora non è in atto, che ancora non si vede, ma che proprio la presenza di questo sguardo buono permetterà di far fiorire. E lo stesso sguardo che nella donna gravida sa «vedere» il bambino che verrà là dove altri vedono solo un grumo di cellule; è lo sguardo interiore che sa proiettare nel futuro del figlio ancora piccolo o dell’adolescente un po’ difficile immagini buone, positive, fiduciose che ne sosterranno la crescita.
Questo saper «guardare oltre» ciò che si vede è dunque un altro dono prezioso del materno al mondo: è la fonte della fiducia nell’altro essere umano, sempre persona, sempre nato come figlio. E la fonte di un pensiero positivo, che regala all’altro sempre una nuova possibilità. A questo dono se ne aggiunge ancora un altro, altrettanto ricco e importante, che è nelle corde della donna «materna»: la maternità infatti predispone la donna ad acuire la propria sensibilità, per permetterle di entrare in contatto con la creatura che contiene e di sintonizzarsi progressivamente sui suoi bisogni; grazie a questa accresciuta sensibilità la madre impara a percepire il non-detto, a intuire nel figlio anche ciò che di lui ancora non conosce.
Se questa particolare sensibilità permette alla madre di identificarsi in modo empatico con il bambino che porta in sé, la stessa dote costituisce una risorsa essenziale per un mondo veramente umano; l’empatia è infatti il prerequisito indispensabile per potersi mettere dal punto di vista dell’altro e l’assenza di empatia o la sua carenza sono dal punto di vista psicologico la causa principale della crudeltà e dell’intolleranza, oggi così drammaticamente in aumento.
A tutti questi doni che il materno può e deve continuare a portare al mondo, desidero aggiungerne brevemente un altro, che credo particolarmente misconosciuto: sono le madri infatti e più in generale le donne a introdurre per prime i figli dell’uomo al piano simbolico e culturale.
Lo fanno educando i loro piccoli, maschi e femmine, a usare una posata, a servirsi del bagno, a girare vestiti; lo fanno introducendo per prime il linguaggio, base di ogni codice simbolico. Lo fanno raccontando storie e tramandando abitudini, lo fanno insegnando a modulare il bisogno perché possa dare accesso al desiderio.
Noi tutti dobbiamo essere grati a quelle donne che non hanno smarrito i loro doni e che continuano a regalarli silenziosamente al mondo; ma è soprattutto importante e ormai urgente aprire una riflessione che consenta alle donne di tornare a essere consapevoli del loro incomparabile potenziale e di imparare a farlo fiorire in sé stesse, perché il mondo tomi ad essere per tutti un luogo migliore.