Vittorio Possenti
II nichilismo giuridico, espressione del nichilismo europeo, è un ospite inquietante che bussa alla porta, insidiando la natura stessa del diritto, volgendolo verso la volontà più forte, scindendone i legami con la ragione e la giustizia.
Il nichilismo e i suoi figli si adoperano attivamente per introdurre una nuova comprensione della legge e del diritto, e questo nell’epoca in cui si fa più affidamento sul diritto come l’ultima istanza e l’ultimo «collante» che possa tenere insieme le attuali società fortemente pluralistiche e secolarizzate. La complessità del problema del nichilismo giuridico implica naturalmente alcune risposte previe alle domande: che cos’è il nichilismo giuridico? Come è sorto? Quali i suoi antefatti e quali i suoi esiti? Quali categorie occorre mettere in azione per intenderlo?
Da oltre 150 anni il pensiero europeo ha messo in atto alcune diagnosi fondamentali sul nichilismo che portano i nomi di Nietzsche, Heidegger, Sartre, Jùnger, Severino, ma che risultano tra loro molto lontane: avvertono l’imponenza drammatica del tema, ma non riescono a trovare risposte paragonabili. Anche la grande tradizione della filosofia dell’essere e del realismo, che si distende dalla grecità attraverso lo snodo fondamentale di Tommaso d’Aquino sino al XX secolo (Maritain e Gilson) non potrebbe risultare assente in questa contesa straordinaria in cui ne va della comprensione di noi e della realtà.
Nel volume Nichilismo e metafisica. Terza navigazione (Armando 2004, II ed.) ho cercato di elaborare una ricerca fondamentale sulla natura e l’origine del nichilismo teoretico, dell’oblio dell’essere e dell’antirealismo, temi al centro della deriva nichilistica, impiegando i nuclei speculativi più vitali della Seinsphilosophie. Nel nichilismo le categorie centrali di essere, unità, verità, scopo non hanno più contenuto: non esiste alcuna verità, unità, scopo, alcun «mondo vero» oltre l’eternità di un divenire senza senso e senza fine.
Diritto naturale & positivo
La vicenda del nichilismo giuridico si colloca entro questa immensa vicissitudine epocale, in cui nichilismo significa che non si da alcun diritto che sia giusto in sé e misurato dal diritto naturale. Conseguentemente tutto il diritto è positivo, posto (positum) da una volontà orientata assolutamente alla decisione (decisionismo giuridico e politico), in cui si esercita lo scontro tra singole volontà in lotta per il potere.
Prendiamo le mosse da due domande essenziali: 1) esiste un diritto (jus) fondato nella ragione e nella natura umana, oppure abbiamo a che fare soltanto con leggi, norme, codici arbitrari nel senso che il loro essere e valere si riduce a venire posti da singole volontà al momento potenti? 2) Se così fosse, dovremmo accettare questo stato di cose, abbandonando il diritto e la politica alla potenza, consegnandoli alla volontà e all’arbitrio degli uomini?
Il nichilismo giuridico si sviluppa quando si risponde al primo interrogativo scegliendo la seconda opzione e si risponde positivamente all’altro. Ritenendo che la legge di ogni tipo e ordine sia espressione di volontà e non possieda altra ragion d’essere che il mero volere del legislatore, il nichilismo giuridico esclude che il giusto e la giustizia siano portatori di una misura di razionalità o almeno di ragionevolezza. Non esistono né giusto né ingiusto in sé, ma giusto e ingiusto cominciano a valere solo dopo la decisione della volontà positiva del legislatore, la quale è normata solo da sé stessa, e perciò può avere qualsiasi contenuto e ospitare qualsiasi scelta.
Se col normativismo kelseniano che trasforma il diritto da espressione della ragion pratica in statuizione imperativa da parte della sovranità, si configura l’ingresso del nichilismo nel dominio giuridico, il suo preambolo sta in Nietzsche, il quale a mia conoscenza non ha fatto ricorso al lemma «nichilismo giuridico».
Tanto più significativo che ne abbia indicato ante litteram con chiarezza meridiana il contenuto reale: «Ma l’elemento più decisivo, quel che la suprema potestà fa e attua contro la strapotenza dei sentimenti avversi e pervicaci – così fa sempre, non appena è in qualche modo abbastanza forte per questo – è la statuizione della legge, la chiarificazione imperativa di quel che deve in generale valere ai suoi occhi come permesso e legittimo e di quel che invece deve valere come proibito e illegittimo.
Conformemente a ciò, solo a partire dalla statuizione della legge esistono “diritto” e “torto”… Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso… Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come strumento nella lotta di complessi di potenza, bensì come strumento contro ogni lotta in generale… sarebbe un principio ostile alla vita, un ordinamento disgregatore dell’uomo, un attentato all’avvenire dell’uomo, un indice di stanchezza, una via traversa verso il nulla» (1).
Il diniego di Nietzsche è la vittoria della volontà di potenza più potente, il tracollo di ogni diritto e dei diritti umani, il trionfo del paradigma della forza su quello della giustizia: il nichilismo o antiumanesimo giuridico, appunto, che fanno rientrare giustizia e diritto nell’area della potenza.
In L’homme révolté A. Camus lo disse chiaramente: senza un valore che la trasfiguri, la storia è soggetta alla legge dell’efficacia e della potenza. I nuovi filosofi di cui parla Nietzsche procedono infatti con il loro volere a creare i valori: «Essi comandano e legiferano, affermando: “Così deve essere!”… La loro volontà di verità è volontà di potenza» (2).
Il diritto e la giustizia non sono intesi come mezzi con cui gli uomini cercano di dare voce a un criterio obiettivo, commisurato alla realtà dei rapporti umani, ma soltanto quali prodotti di una volontà che con statuizione eminentemente imperativa stabilisce che cosa è diritto e che cosa è giustizia.
Prima di tale statuizione risulterebbe insensato parlare di giusto e di ingiusto in sé. Bene è dunque ciò che è conforme alle opzioni del legislatore, male quanto vi è contrario. Di fatto una parte della razionalità giuridica attuale si pone come largamente storica, terrena, non disponibile a rinviare a una misura ideale di giustizia, a un «cielo platonico» di verità stabili, a un diritto naturale che nel suo contenuto essenziale vale dovunque.
Ogni assoluto è tramontato sotto i colpi della volontà di potenza, Dio viene congedato, il diritto rimane una faccenda che si regola solo tra gli uomini. Tanto la decisione politica è un decisione posta da una volontà, altrettanto il diritto positivo è un diritto posto, che non si richiama a un diritto superiore né lo imita, ma che sta in solitudine e riposa solo sul volere degli uomini.
Gli scopi stabiliti da singole volontà subiettive non possiedono il carattere della necessità o almeno della stabilità: possono andare in mille direzioni ed essere aperti a molteplici soluzioni. Come a un certo momento sono stati introdotti nell’esistenza da una volontà dotata di potere, così possono più avanti scomparire.
Se non vi è un significato fondamentale e fermo di che cosa significhi diritto, il suo svolgimento e i suoi temi saranno soggetti a un continuo mutare, guidato dalla casualità e dalla contingenza del volere. Tutto diviene revocabile: gli stessi diritti umani sono solo editti revocabili di tolleranza: come sono stati posti così possono essere tolti.
Nel nichilismo giuridico si manifesta la vittoria del positivismo giuridico assoluto, che separa problema del diritto e problema della giustizia, identifica hi (positive) e droit, sostenendo che niente si può contro la legge, ma tutto si può con la legge, dal momento che questa può avere qualsiasi contenuto.
Il diritto diventa legalità positiva, cui consegue l’esclusione di ogni diritto naturale indipendente dalla statuizione umana. Viene posto come nullo ogni ordinamento reale preesistente alla decisione normativa e che questa dovrebbe rispettare, non instaurandolo ma restaurandolo.
Alla consegna del diritto alla volontà che non riconosce criteri esterni a sé stessa, consegue che il diritto nichilista esprime il linguaggio della volontà con la sua illimitatezza aperta a ogni possibilità e a ogni scelta che si manifestano poi nell’incessante produzione giuridica, le cui regole esistono solo perché gli uomini vogliono che esistano. Poiché la volontà degli umani vuole e disvuole, desidera e allontana, ama e odia, niente è stabile, tutto è revocabile e mutabile. Ciò che è stato posto può con pari ragione essere tolto: e là dove non vi è alcun senso autentico, vi possono essere infiniti sensi.
Il senso fattualmente scelto non sarà vero e buono, ma soltanto scelto, ossia voluto ed eventualmente imposto con la violenza. Tolto il riferimento essenziale all’atto di ordinamento della ragione e alla giustizia, il diritto difficilmente si difende dal confondersi con la violenza. Alte risuonano in proposito le celebri parole di Agostino: «Remota justitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?» (3).
Prassi senza razionalità
II nichilismo giuridico riposa sulla tesi, semplice e radicale, che nella prassi non vi sia spazio per la razionalità. Esso comporta la cancellazione della ragion pratica, e l’attribuzione della regia, nel migliore dei casi, alla ragione formale e procedurale che costituisce un fragile schermo dinanzi all’imporsi del nichilismo.
La ragione non sarebbe in grado di discernere un ordine dell’essere e di introdurre un atto razionale di ordinamento nell’agire: nulla potrebbe ambire a valere come una ordinatio rationis, termine assolutamente centrale nella determinazione dell’idea di legge in Tommaso d’Aquino.
Per fuoriuscire dal deserto del nichilismo occorre l’atto della ragione, non solo quello della volontà, e tale atto congiunto è un atto di ordinamento, non un ordine come comando. Sussiste una fondamentale diversità tra ardo come atto d’ordinamento razionale e orda come Qomando. Per intenderla occorre richiamare la determinazione di legge che l’Aquinate offre come una moneta d’oro in uno scrigno che oggi forse pochi si curano di aprire e intendere: «Lex nihil aliud est quam quaedam rationis ordinatio ad bonum commune ab eo qui curam communitatis habet, promulgata» (4).
Vi è nichilismo giuridico quando la determinazione tommasiana della legge come ordinatio rationis in vista del bene comune è completamente abbandonata nei suoi due profili massimamente rilevanti: l’atto di ordinamento della ragione è annientato e sostituito da un mero comando o imperio che procede solo dalla volontà; il riferimento al bene comune sfuma, poiché non si ritiene più determinabile o giustificabile alcun bene comune.
Contro Kelsen
Kelsen è forse l’esponente principale di quel positivismo giuridico radicale che conduce direttamente al nichilismo giuridico e la cui divisa suona: il diritto positivo può avere qualsiasi contenuto. Nella sua «dottrina pura» del diritto, che vorrebbe essere una semplice «teoria descrittiva» del diritto, si considerano solo problemi di validità del diritto positivo, mai di valore e di giustizia.
Contro Kelsen sostengo che la scienza giuridica è una «scienza impura» nel senso che appartiene al campo delle scienze pratiche che di per sé sono volte a conoscere e a normare l’azione umana nei vari campi dell’esistenza e naturalmente in quello dell’esperienza giuridica.
Ciò significa che la scienza giuridica non può essere una scienza logico-formale e soltanto descrittiva come in Kelsen. Questi, azzerando l’idea stessa di ragion pratica — che è ragione a un tempo conoscitiva e normativa -, toglie al diritto ogni razionalità e finisce per corrompere lo stesso carattere centrale della scienza giuridica.
La corruzione consiste nel fatto che Kelsen nella sua dottrina si rifiuta di valutare il contenuto delle leggi positive. Kelsen era libero di elaborare una scienza descrittiva del diritto, se solo si fosse astenuto dalla grande quantità di giudizi di valore che popolano premesse e svolgimenti di tale dottrina soi disante pura.
Si tratta di giudizi che entrano nel campo dei valori e rendono contraddittoria la sua impresa di separare validità e valore. A titolo di esempio tra i grandi «pregiudizi» di Kelsen citerei: antigiusnaturalismo, antipersonalismo, antimetafisica, una dottrina del tutto positivistica della ragione, la grande divisione tra essere e dover essere. Si potrebbe continuare a lungo in un’elencazione che rende così poco pura e soggetta a fortissimi assunti valoriali la ed dottrina pura del diritto.
Altrettanto distruttivo è l’antipersonalismo kelseniano, curiosamente rimasto in ombra. La teoria del diritto di Kelsen rompe dunque con la tradizione dell’umanesimo politico e giuridico occidentale, che si è edificato su una nozione concreta, vivente e non formale di persona. In sintesi la dottrina pura del diritto di Kelsen, insieme ai suoi presupposti, conduce al nichilismo giuridico, come del resto hanno visto non pochi, anche se forse non tutti hanno fatto ricorso al lemma «nichilismo giuridico».
Nella Germania nazista il positivismo giuridico kelseniano non offriva risorse giuridiche che potessero essere impiegate per opporre resistenza al nazismo: molti giuristi tedeschi vennero intellettualmente e moralmente disarmati dal positivismo giuridico. Tale è stata l’opinione di molti, tra cui Gustav Radbruch, Charles E. Rice e, si licet, mia. Non dimentichiamo la persuasione di A. Camus, secondo il quale il nichilismo conduce a legittimare l’omicidio: «Così da qualunque parte ci si volga, al cuore della negazione e del nichilismo l’omicidio ha un suo posto privilegiato» (5).
Viceversa essere antinichilisti significa che esiste qualcosa che non può mai diventare diritto, anche se votato da una maggioranza. Nella ricerca sul nichilismo giuridico si incontra la contemporaneità in cui nichilismo e antinichilismo si confrontano severamente. Ciò accade anche in Italia dove negli ultimi trent’anni è emerso un nichilismo (giuridico) talvolta proclamato a voce stentorea, talaltra strisciante entro il cedimento diffuso ali’antimetafisica e al debolismo (diverse pagine di Nichilismo giuridico. L’ultima parola? sono dedicate a questi aspetti).
Nella prospettiva lungamente elaborata dalla tradizione e tuttora presente, natura umana e ragione risultano le vere fonti del diritto, per cui l’incontro tra filosofia greca e diritto romano, catalizzato dal cristianesimo, ha costituito la base del pensiero giuridico occidentale dal Medioevo all’Illuminismo e alla Dichiarazione universale. A partire dal XIX secolo e in varie ondate sino a oggi quei fondamenti della civiltà giuridica — natura umana e ragione – sono stati fortemente scossi dall’obiezione positivistica, tuttora in atto.
La cultura del positivismo intende apertamente porsi come unico fondamento comune per la formazione del diritto, atteggiamento cui si accompagnano un’esplicita sottovalutazione e talvolta disprezzo di altre filosofie e culture, tradizionalmente in grado di rendere ragione del diritto e dell’esperienza giuridica.
Una malcelata aggressività verso posizioni non positivistiche è propria del positivismo che ripropone un modello di ragione ricalcato solo sul formalismo logico e sulle scienze empiriche, assunto che taglia le ali alla ragione umana e può sconfinare nell’irrazionalismo. Il nichilismo circolante nel positivismo giuridico radicale proviene in buona misura da ciò e dallo spostamento verso il volere. Ma quali motivi abbiamo per cedere le anni così in fretta al positivismo?
1) Genealogia della morale, II Dissertazione, n. 11, Adelphi, Milano 1988, pp. 65 s.
2) Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 1988, pp. 119 s.
3) De civitate Dei, 1. IV, e. 4.
4) S. Th., III, q. 90, a. 4.