Norberto González Gaitano
Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale – Pontificia Università della Santa Croce – Roma
Comunicazione dal titolo El sindrome de Scherezade y otros sindromes deseducativos de la televisión, presentata dal professor Norberto González Gaitano, della Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale nella Pontificia Università della Santa Croce, di Roma, al Convegno Medios de comunicación y Cultura, tenutosi nella Pontificia Università di Salamanca, in Spagna, dal 15 al 19 febbraio 1999. Traduzione e titolo redazionali.
Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), il geniale maestro contemporaneo del paradosso e del senso comune, era sorpreso dall’assurdità di un mondo, il nostro, che conferisce un maggior valore sociale all’attività di un maestro, che insegna la prova del nove a cinquanta alunni, piuttosto che a quella di una madre, che insegna tutto sulla vita a sua figlia o a suo figlio (1).
Tutta l’enfasi sull’importanza dell’educazione per il progresso di un popolo, gli accalorati discorsi dei nostri politici sulla necessità di una riforma permanente dell’educazione per renderla più efficace, gli aumenti nella voce relativa all’educazione nel bilancio dello Stato, sono chiacchiera vuota o argomentazione inconsistente quando quasi nulla aiuta a incrementare il tempo e la qualità dedicati alla forma più universale di educazione: l’educazione privata in famiglia, perché, paragonata a questa, l’educazione pubblica nella scuola può risultare ristretta e limitata.
Infatti, “il maestro generalmente ha a che fare con una sola sezione della mente dell’alunno – afferma Chesterton – […] i genitori invece non solo hanno a che fare con tutto il carattere del bambino, ma anche con tutta la sua vita” (2).
Siamo soliti dimenticare che la posizione del genitore è più grande e più contrassegnata da sacrifici di quella del maestro; dice ironicamente il celebre scrittore inglese: “Tutti sanno che i maestri hanno un compito faticoso e spesso eroico, però non è ingiusto ricordare loro che hanno, in questo senso, un compito estremamente felice. Il cinico direbbe che il maestro ha la sua felicità nel non vedere mai i risultati del suo insegnamento. Preferisco limitarmi a dire che non ha la preoccupazione aggiunta di doverlo valutare all’altro estremo. Raramente il maestro è presente quando l’allievo muore. O, per dirlo con una metafora teatrale più dolce, raramente è presente quando cala il sipario” (3).
Questa lunga premessa sul diverso ruolo della scuola e della famiglia nell’articolato processo educativo del bambino serve a introdurre la riflessione sulla televisione e sui suoi effetti educativi, più precisamente diseducativi. Questo inquietante intruso familiare, inizialmente accolto come alleato nel processo educativo quando fece la sua comparsa ormai mezzo secolo fa, gioca un ruolo decisivo nella formazione, o deformazione, soprattutto dei bambini, e di quanti non sono più tanto bambini (4).
1. Un esperimento inquietante: la rappresentazione della violenza in televisione
Questa comunicazione intende essere un’esposizione di ragioni contro quel potente operatore di socializzazione primaria, “autentica scuola di analfabeti istruiti”, come dice Juan José García-Noblejas, nota anche in campo pedagogico come “bambinaia elettronica” (5), e nel linguaggio corrente come “la scatola vuota” o, più semplicemente, come televisione. Però non intendo lanciare un anatema sulla televisione.
Vi invito a fare un esperimento. Facciamolo sotto la guida di Dolores “Lolo” Rico Oliver, già operatrice televisiva, soggettista e direttrice di Produzione di Programmi per bambini e per ragazzi alla TVE, la televisione pubblica spagnola, attualmente scrittrice di libri, fra i quali si annovera la magnifica e dura critica, però realistica, Tv fábrica de mentiras.
La manipulación de nuestros hijos, che citerò ampiamente nel prosieguo: “Vuol fare un’esperienza curiosa? Le interessa conoscere alcuni dati significativi sulle abitudini che vengono create nei nostri figli? È molto facile: basta aprire bene le orecchie quando loro sono davanti al piccolo schermo e Lei no. Per esempio, nelle prime ore della serata provi a passeggiare silenziosamente nel corridoio. Forse la sua famiglia è una delle molte che ha più di un televisore. Probabilmente i suoi bambini rientrano nel 12% che fruisce di un apparecchio solo per loro in camera da letto […].
È appostata in corridoio, nascosta nell’oscurità? Che cosa percepisce? Non la colpisce quanto sta sentendo? […] La prima cosa che si avverte quando si “sente” la televisione, privata dell’attrazione dell’immagine, senza stimolo visivo che catturi la nostra attenzione, sono le grida. Ve ne sono di tutti i tipi, in una svariata gamma che va da quello acuto e atterrito della donna che vede avanzare verso di lei l’assassino fino al rantolo rauco dell’uomo che muore strangolato. Vi sono urla che fanno accapponare la pelle come quelle di una tortura o di uno stupro. Vi sono ululati da incubo che solo un brutto sogno ci potrebbe far ascoltare, stridori da rabbrividire e lamenti d’oltretomba […].
Qualche volta sono persino giunta a spaventarmi pensando che stesse realmente succedendo qualcosa e ho tirato un respiro di sollievo rendendomi conto che le grida provenivano dalla televisione” (6).
Potremmo pensare che la Rico Oliver esageri, ma non è così: le cifre sono testarde.
Uno studio sul prime-time delle reti americane in una settimana dava i seguenti risultati: 45 scene di sesso, di cui 23 relative a unioni eterosessuali fra non sposati, 16 adulteri, 4 fra sposati, 1 fra adolescenti e 1 fra omosessuali; 57 assassini, 99 aggressioni, 29 scontri di veicoli e 22 casi di abuso su minori (7).
Il problema non è esclusivamente americano. Uno studio sulla programmazione di sei canali televisivi francesi per una settimana fornisce i seguenti risultati: 670 omicidi, 15 sequestri, 848 lotte e risse, 419 sparatorie, 14 sequestri di minori, 11 furti, 8 suicidi, 27 casi di tortura, 32 casi di cattura di ostaggi, 18 scene relative alla droga, 9 defenestrazioni, 13 tentativi di strangolamento, 11 episodi bellici, 11 strip-tease e 20 scene d’amore spinte (8).
Quando un bambino italiano va per la prima volta alla scuola elementare porta già nello zaino, insieme all’astuccio e alle matite colorate, 1800 scene di violenza. La dieta prescolare di violenza del bambino americano – sempre più precoce – è di gran lunga superiore: comprende 8.000 omicidi e 100.000 fatti violenti (9).
Non ho intenzione di annoiare con statistiche, ma i dati sono molto eloquenti. Al punto che l’indagine sulla violenza in televisione, realizzata per conto della NCTA, l’Associazione Nazionale della Televisione Via Cavo, degli Stati Uniti d’America, concludeva che “la violenza in tutte le sue forme permea la televisione americana, fino al punto che la sua presenza e il suo influsso costanti sono stati dichiarati una minaccia nazionale per la salute pubblica dal Servizio Sanitario Nazionale e da altre associazioni mediche e professionali. Tuttavia, nonostante decenni di ricerca scientifica e di crescente interesse, vi è ancora disaccordo su come affrontare il problema della violenza televisiva” (10).
Si potrebbe sostenere che, in fin dei conti, si tratta solo d’immagini irreali in televisione. Senza dubbio. Ma non è facile dimenticare i preoccupanti fatti di delinquenza minorile provocati dall’imitazione di comportamenti violenti visti in televisione, come quello dei tre bambini che uccisero la loro amichetta “per gioco”, come avevano visto alla “tele”; o quello dei bambini che assassinarono un vagabondo, in Francia; e così altri.
Lo stesso vale per il cinema: un ragazzo di quattordici anni di un paese vicino a Milano s’impiccò dopo aver visto, su una rete italiana, la replica televisiva del film Schegge di follia. Il film Natural Born Killers, di Oliver Stone, è stato il detonatore di 14 omicidi nel 1993 e di 3 nel marzo del 1994. In un’inchiesta realizzata per due anni, dal 1993 al 1995, sulla cronaca nera di due giornali romani, Il Messaggero e la Repubblica, Patrizia Morgani e Patrizia Spina hanno rilevato che, in 57 episodi di cronaca nera, i protagonisti avevano imitato “eroi” di pellicole cinematografiche (11).
Non bisogna dimenticare che esistono innumerevoli studi empirici che dimostrano la relazione diretta fra quanto viene trasmesso nei programmi televisivi e la vita dei telespettatori. È dimostrato, per esempio, che i suicidi di adolescenti tendono a concentrarsi, statisticamente, nei giorni successivi alla trasmissione di programmi in cui appaiono suicidi (12).
Ma, anche quando sia impossibile attribuire una responsabilità esclusiva e diretta ai mezzi di comunicazione, soprattutto dal punto di vista legale, è indubbio che, come afferma la Rico Oliver, “i teleamatori vivono immersi in un unico mondo da cui ricevono passivamente tutte le soddisfazioni e tutte le speranze (si vive tutta una giornata vuota in attesa di un determinato programma o di un determinato serial). Questo mondo è condiviso massivamente e serve da nesso unitivo degl’interessi giovanili… ed è il tema principale delle loro aspirazioni e conversazioni” (13).
Infatti, non bisogna dimenticare che, anche se la televisione non è il mondo reale, per molti non esiste altra realtà oltre a quella che appare in televisione. “La conseguenza è che, per i bambini e per i giovani e – sempre di più – anche per Lei e per me – aggiunge la Rico Oliver – esiste solo quanto si percepisce in forma di fiction e che, perciò, la vera realtà è la finzione, rispetto a cui – si potrebbe quasi dire – la realtà è solo una realtà debole e accessoria, alla quale crediamo perché assomiglia a quella della televisione. Mi sembra pericoloso” (14). Abituati a veder sgorgare salsa rossa da una prospettiva che l’occhio umano non vedrebbe mai nemmeno in un video surrealista, il sangue di un vero ferito impressiona appena.
Alcuni sondaggi realizzati specificamente su audience infantili contrastano con la netta affermazione della Rico Oliver circa la difficoltà dei bambini a distinguere la realtà dalla finzione. Così, un sondaggio condotto dalla Società Italiana di Pediatria e dal supplemento per bambini del quotidiano Avvenire rileva che l’86% dei bambini intervistati crede di sapere che cos’è la realtà e che cos’è la finzione, mentre solo l’11% crede che tutto quanto si vede in televisione sia vero; comunque, un 70% dichiara che gli piace imitare i propri personaggi preferiti della televisione (15).
La polemica fra accademici sugli effetti diretti sul comportamento rimane aperta, in parte perché i numerosissimi studi seguono metodologie diverse. Anche se i dati non sono concordi, è certo che le ricerche più consistenti, come quella di L. Rowell Huesmann e Leonard D. Eron (16), e in generale la maggioranza di esse, concorda nell’affermare che “aggressività e visione della violenza hanno un certo grado di interdipendenza” (17) e che “bambini più aggressivi guardano televisione più violenta” (18).
Comunque, come mostrano Franco Bettetini e Armando Fumagalli, conviene non perdere di vista che gli effetti negativi della rappresentazione della violenza si possono dare a diversi livelli, che possono riguardare settori sociali diversi e con diversa intensità, a seconda dei fattori complementari: stimolo dell’aggressività nei casi di settori a maggior rischio per il fatto di vivere in ambienti dove la violenza domina già abitualmente la vita quotidiana, o nel caso di persone psichicamente immature o con tendenze patologiche specialmente in campo psicosessuale; blocco dell’immaginazione in bambini che, abituati a contemplare la risposta violenta come unica soluzione dei problemi drammaticamente rappresentati, tendono a imitare il comportamento violento imparato dalla fiction come unica soluzione davanti a reali situazioni di pericolo; saturazione di violenza rappresentata che porta a un atteggiamento annoiato e indifferente davanti al dolore reale e concreto; e così via (19).
In definitiva, non si può dimenticare la dimensione pragmatica della comunicazione, ossia di qualunque testo. Dire è sempre simultaneamente un fare, e perciò ogni comunicazione instaura sempre un modello di relazione fra emittente e destinatario: “In altre parole, una comunicazione autentica, cioè insieme vera e corretta, sarà attenta anche al tipo di rapporto che instaura tra le figure simboliche che, nel testo, rappresentano l’emittente e il destinatario. A inficiare tale autenticità non è solo la menzogna ma un agire comunicativo che strumentalizza l’altro, che impone un dominio sull’altro, che assume, cioè, le forme di una violenza diffusa. In questa prospettiva la comunicazione di massa può assumere un carattere violento indipendentemente dai suoi contenuti e, per certi versi, dalle sue stesse modalità linguistiche. Si tratta di una forma di violenza più sottile, meno evidente, ma altrettanto capace di colpire lo spettatore, ancor più indifeso perché non allarmato criticamente” (20).
2. Un mondo felice?
Pensino adesso un momento ai ricordi della loro infanzia. Sarà stata più o meno felice, ma sono certo che la loro memoria non è carica d’immagini confuse, violente, erotiche, stupide o angoscianti di programmi come Dinasty, Dallas, Beautiful, Baywatch, Chi l’ha visto?, Tempi moderni e bim bum bam, per menzionarne solo alcuni.
Scrive Rainer Maria Rilke (1875-1926) in Lettere a un giovane poeta: “E se anche si trovasse in una prigione, le cui pareti non lasciassero trapelare ai suoi sensi i rumori del mondo, non le rimarrebbe forse la sua infanzia, quella ricchezza squisita, regale, quello scrigno di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di far emergere le sensazioni sommerse di quell’ampio passato; la sua personalità si rinsalderà” (21).
In contrasto con le parole del poeta la Rico Oliver aggiunge: “Nei futuri ricordi dei bambini di oggi vi saranno una ventina d’ore settimanali di televisione… Ne resteranno altri o questa infinita successione d’immagini antiestetiche, sgradevoli e violente che vediamo quotidianamente li cancellerà?” (22).
Oggigiorno per molte famiglie il televisore è molto di più di un mobile animato: è quasi il nuovo altare laico. È il punto di riferimento spaziale della casa, attorno al quale si organizza, stavo per dire la “vita familiare”, ma credo sia più appropriato dire la “contiguità familiare”. Davanti alla televisione si pratica tutto un rituale. Ogni membro della famiglia davanti al piccolo schermo ha i suoi atteggiamenti, le sue piccole abitudini – vi è chi mangia pop-corn o chi si beve una bibita -; ogni persona della casa ha i propri programmi, che tiranneggiano non solo lei ma anche tutti gli altri. Per esempio, una secca intimazione del padre al silenzio interrompe la conversazione, che era riuscita a farsi strada grazie alla pausa pubblicitaria: è iniziato il telegiornale.
Poi è la volta della telenovela venezuelana, più tardi è il programma di quiz a estinguere il nuovo tentativo d’intervallo di pace e di dialogo. Non parliamo poi del calcio. E così passano le ore, senza respiro. Gli dèi del focolare ancestrale, i Lari o i Mani romani, invidierebbero l’autorità di questo nuovo altare: “Quanto dice la televisione è infallibile, come se si trattasse della voce di Dio. È indubbio che vi è chi passa più tempo in un mese davanti al televisore che in chiesa in tutta la vita.
[…] Si ricorre a essa quando abbiamo bisogno di aiuto per superare un cattivo stato d’animo o per risollevarci da un problema; si guarda e si ascolta in silenzio; di solito gode della nostra fiducia perché ci ispira credibilità, anche se si limita a offrirci volgarità, e viviamo la scarsa informazione che ci fornisce come se si trattasse della scienza infusa che lo Spirito Santo concede agli apostoli” (23).
No, non si tratta di parole di qualche documento di conferenza episcopale. Sono sempre parole della nostra operatrice, produttrice, soggettista televisiva e autrice del libro che sto citando, la Rico Oliver. Non si mostrava meno critico Hans Georg Gadamer, in un’intervista concessa al quotidiano comunista l’Unità: “[…] al nostro sistema di comunicazione manca la spontaneità. Tutti sono passivi. La funzione politica della televisione consiste nell’addomesticare le masse, nell’addormentare la capacità di giudizio, il gusto, le idee. È una delle forme di burocratizzazione della società prevista da Max Weber [1864-1920]“ (24).
Lo stesso Popper avvertiva nel suo testamento intellettuale che la televisione “[…] è diventata un potere politico colossale, potenzialmente si potrebbe dire il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. […] Essa è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si mette fine” (25).
La mia generazione non è nata con l’esperienza del televisore come un mobile in più della casa nella quale è cresciuta, del che siamo debitori non tanto al senso educativo dei nostri genitori, quanto al fatto di esser figli del Primo Piano di Sviluppo quadriennale, che ha rianimato la vita economica della Spagna nei primi anni 1960.
Senza idealizzare il passato, almeno non troppo, penso che i nostri ricordi siano popolati da aromi di una stretta convivenza familiare, spesso veramente stretta; da tradizioni di narrazioni e di racconti propri di una cultura ancora orale, come si può apprezzare nel magnifico film di Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli. E da serate di lettura fino a notte inoltrata, soprattutto da quelle lunghe notti estive, in cui gli adolescenti della generazione del Primo Piano di Sviluppo divoravano, e consumavano, i logori esemplari delle biblioteche comunali: la maggior parte delle famiglie non aveva i mezzi per dotarsi di una vasta biblioteca propria.
Erano ore rubate al sonno, con la complicità, quando non con il “cattivo esempio”, del pater familias. Questa mancanza di svago telediretto a prezzo del tempo di audience milionarie, ignare del valore delle loro ore di ozio, ha consentito alla maggior parte di tale generazione di godere di mondi fittizi, immaginativi, non visivi, molto vari, così vari come i propri interessi: prima Jules Verne (1828-1905), Enid Blyton (1897-1968) ed Emilio Salgari (1863-1911); poi Mark Twain (pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, 1835-1910), Gustavo Adolfo Bécquer (1836-1870), Padre Brown, Agatha Miller Christie (1890-1976), Fëdor Michajloviã Dostoevskij (1821-1881); e così fino a oggi.
Il “danno” era già fatto e, grazie a Dio, era irreparabile. Franz Kafka (1883-1924), che non sarebbe mai stato il contabile sognato da suo padre, scrisse queste parole nel suo piccolo diario: “Non faremo mai capire a un ragazzo che di notte è completamente immerso in una storia avvincente, non gli faremo mai capire con una dimostrazione limitata a lui stesso, che deve interrompere la lettura e andarsene a letto” (26).
Ignoro quale sarà il ricordo dell’infanzia dei bambini e dei giovani della generazione dell’abbondanza, ma non posso sottrarmi alla tremenda inquietudine che provocano in me le cifre precedentemente ricordate: ogni settimana 57 assassini, 45 scene di sesso di cui 16 adulteri, 22 scene di abuso su minori…
Jerry Mander, studioso di comunicazione sociale, ha pubblicato un libro il cui titolo è piuttosto eloquente: Quattro buone ragioni per eliminare la televisione (27). Non intendo privare nessuno del piacere della sua lettura riassumendo queste ragioni. Non si può nemmeno negare che la televisione abbia qualche aspetto positivo.
Come ha detto Papa Giovanni Paolo II, “la televisione può arricchire la vita familiare: può unire tra loro più strettamente i membri della famiglia e promuovere la loro solidarietà verso altre famiglie e verso la più vasta comunità umana; può accrescere in loro non solo la cultura generale, ma anche quella religiosa, permettendo ad essi di ascoltare la Parola di Dio, di rafforzare la propria identità religiosa e di nutrire la propria vita morale e spirituale” (28).
È vero che si tratta di “può”, e che qualche volta, benché rara, queste funzioni si realizzano. Non è meno certo che – e sono parole dello stesso Papa Giovanni Paolo II – “la televisione può anche danneggiare la vita familiare: diffondendo valori e modelli di comportamento falsati e degradanti, mandando in onda pornografia e immagini di brutale violenza, inculcando il relativismo morale e lo scetticismo religioso; diffondendo resoconti distorti o informazioni manipolate sui fatti ed i problemi di attualità; trasmettendo pubblicità profittatrice, affidata ai più bassi istinti; esaltando false visioni della vita che ostacolano l’attuazione del reciproco rispetto, della giustizia e della pace” (29).
Esporrò di seguito, per sommi capi, alcuni altri effetti sociali, cognitivi e psicologici della televisione.
3. Gli effetti della televisione
Farò riferimento solo a tre dei possibili effetti che ho denominato, con parole di García- Noblejas, la sindrome di Jabberwocky, la sindrome di Sherazade e la sindrome di Humpty-Dumpty.
1. La “sindrome di Jabberwocky”
La sindrome di Jabberwocky: il nome di questo effetto è preso da Attraverso lo Specchio – continuazione di Alice nel Paese delle Meraviglie, la celebre bambina di Lewis Carroll, pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson (1832-1898) -, utilizzato da García-Noblejas per esemplificare l’effetto di sradicamento culturale prodotto soprattutto dalla televisione, anche se si può attribuire a tutti i media (30). Alice sta ascoltando una strana poesia che suona molto bene ed esclama: “Sembra molto bella, […] ma è piuttosto difficile da capire!” (31).
Con questa sindrome mi riferisco al fatto che la televisione ci offre una visione del mondo e dell’uomo frammentaria, parziale, spesso contraddittoria e sempre caleidoscopica. Naturalmente quest’immagine non contribuisce a che l’uomo comprenda meglio sé stesso. Ciò accade, per esempio, a causa dell’aperta contraddizione fra i messaggi di programmi che appaiono sullo stesso mezzo in spazi diversi.
Così, insieme a messaggi pubblicitari contro la droga o contro l’alcol, di buona fattura drammatica e persuasiva, se ne diffondono altri in programmi d’intrattenimento o in altri annunci pubblicitari, che esaltano il fascino e il lusso uniti al bere o al consumo di droga. Si pensi per esempio a Miami Vice, o all’episodio Joyride della serie The Equalizer, dove non si critica il consumo di droga, ma l’ingiusto arricchimento dei trafficanti per il fatto di commercializzare droga adulterata.
Il dramma della droga viene poi mascherato in documentari informativi quando si associa a un problema di ordine pubblico, che sembra riguardare esclusivamente quartieri di periferia, come Entrevías a Madrid o La Mina a Barcellona, mentre sappiamo tutti che la droga non fa distinzione fra ricchi e poveri, anzi, proprio negli ambienti d’élite si consuma più droga, specialmente cocaina. O se ne promuove direttamente il consumo con la diffusione indiscriminata di video-clip musicali, che trasmettono sfacciatamente tale messaggio.
Questo effetto si può attribuire a tutti i media, ma è particolarmente rilevabile nella televisione per il carattere drammatico e narrativo dei mezzi audiovisivi. Così García-Noblejas afferma che “quanto si coglie nei film e nei programmi televisivi può essere compreso essenzialmente come rappresentazione di azioni e di abitudini umane, con il loro corredo di sentimenti. O, il che è equivalente, ha senso per la vita degli spettatori, perché lo valutano – in termini generali – come modello di valori consapevoli o inconsapevoli, di virtù e di vizi” (32).
Con l’aggravante che la privilegiata posizione domestica della televisione, la sua integrazione nella vita quotidiana e la credibilità che si concede a essa “nascondono accuratamente il suo carattere di artificio culturale argomentativo” (33). Spesso a questo si deve aggiungere la cattiva intenzione di quanti “fanno” televisione per manipolare ideologicamente o commercialmente l’audience, di solito incapace di rendersi conto di questa manipolazione.
A tale argomentazione si può forse replicare che, in fin dei conti, quando la televisione diffonde oggettivazioni di habitat dell’uomo nel mondo, pattern, forme o modelli di comprensione di sé stesso, di per sé non rende gli uomini migliori o peggiori. È vero, com’è vero che la lettura di vite di santi o d’imprese eroiche di grandi uomini della storia non ci rende né migliori né più coraggiosi.
Ma, certamente, per questa ragione l’arte deve rispettare la sua logica interna, cioè presentare il sublime come sublime, il miserabile come miserabile, il volgare come volgare: insomma, il buono come buono e il cattivo come cattivo, di modo che il buono “sappia” di buono e il cattivo “sappia” di cattivo. Così hanno fatto i classici di tutti i tempi, che non hanno rappresentato una condizione umana immacolata.
Pensiamo per un momento a William Shakespeare (1564-1616) e al cumulo di miserie umane rappresentate nei personaggi immortali dei suoi drammi. Non si tratta di nascondere la realtà della condizione umana caduta, i suoi possibili abissi di viltà, ma nemmeno i suoi vertici morali; si tratta di mostrare la sua grandezza, la sua dignità, che si può certamente perdere nell’abiezione di questi abissi insondabili di malvagità, e che può brillare nella bellezza morale di condotte virtuose, ma non stupide, o nella misericordia davanti al male altrui, fisico e soprattutto morale. Dobbiamo ricordare, con Ashley Montagu, che “gli uomini e le società si sono fatti secondo l’immagine che avevano di sé stessi, e sono cambiati sulla base dell’immagine da loro stessi sviluppata” (34).
Quale immagine, quale identità culturale fornisce la televisione? Riporterò due elementi emblematici, due aspetti della nostra identità culturale.
Il primo è l’immagine della morte nella nostra società. Ci siamo resi conto del paradosso costituito dalla volgarizzazione della morte prodotta dal mercato televisivo della violenza, in contrasto con il fatto che la morte reale, non quella della fiction, viene occultata sempre più nella nostra società? La gente muore negli ospedali, lontano dalla vista dei bambini e anche dalla nostra. Gli anziani, memoria prossima della fugacità della vita, vengono confinati in residence con tutte le comodità, ma lontani dalla nostra vista.
La morte ha smesso di essere una realtà umana naturale, inscritta nel tessuto della vita e valorizzata; invece, come scrive la Rico Oliver, “sugli schermi televisivi appare sprovvista al contempo di ogni senso individuale e di ogni trascendenza psicologica: una morte simultaneamente estranea e neutra” (35) – e aggiunge, con un pronostico non privo di verità, nonostante il suo pessimismo – “[…] forse dobbiamo pensare che alla società in cui viviamo interessa volgarizzare la morte. In fin dei conti oggi la vita non è qualcosa che sembra avere un grande valore” (36).
Il secondo elemento è la volgarizzazione della sessualità. Diceva Gustave Thibon, parafrasando Blaise Pascal (1623-1662), che la sessualità umana oggi “[…] ha la sua circonferenza dappertutto e il suo centro da nessuna parte” (37). Il nudo erotico della pubblicità e l’esposizione pubblica del rapporto d’amore più intimo hanno svigorito il valore umano di questa realtà; è ormai come i fiori di plastica, il vino chimico, e tutti gli altri “pseudo” della nostra società artificiale.
Scrive Thibon che “la sessualità umana normale gravita attorno a due poli: l’appetito carnale e l’amore spirituale. L’erotismo attuale è estraneo sia all’uno che all’altro” (38). “I consumatori di erotismo commercializzato sono doppiamente frustrati: non godono né della dimensione spirituale dell’amore perché – al dire di Simone Weil [1909-1943] – “la bellezza è un frutto che si guarda senza allungare la mano”, né si soddisfano nell’esercizio completo della sessualità, perché una nebulosa d’immagini inaccessibili si frappone fra il loro desiderio e l’oggetto posseduto” (39).
Non è questa la sede per sviluppare le idee appena abbozzate sul problema della “dissoluzione e manipolazione del corpo” operata dai mezzi di comunicazione sociale e gli effetti psicosessuali indotti soprattutto negli adolescenti: rimando al brillante studio di Bettetini e Fumagalli già citato, in cui si approfondisce la questione con abbondanti esempi (40).
2. La “sindrome di Sherazade”
La sindrome di Sherazade, ovvero come tener desta l’attenzione di un’audience annoiata che non si può muovere dalla sua poltrona di spettatore abulico. Mi sto riferendo, evidentemente, al famoso racconto delle Mille e una notte. Sherazade è obbligata dal sultano a raccontare storie ininterrottamente fino al mattino; se il sultano si annoia e si addormenta, le taglieranno la testa.
Questo è lo spettacolo che offrono le nostre televisioni, sia pubblica che private. Lo spettacolo della lotta fra i diversi canali, al fine di ottenere una maggiore audience e di riempire gli orari, aumentando così le entrate pubblicitarie, ricorda quello del ciarlatano del mercato che deve gridare a squarciagola e ripetutamente per poter attirare l’attenzione dei passanti e per trattenerli.
Molti speravano che la libertà televisiva facilitasse un’offerta pluralista e varia. Non sono un denigratore della televisione privata, ma lo sono di questo modello di televisione privata, e di quella pubblica che ne risulta. La realtà è stata oltremodo deludente: programmi di scarsa qualità, insulsi, volgari e, ciò che è peggio, gli stessi su tutte le reti. Anche la televisione pubblica, l’unica che per certi aspetti si salva, ha mimetizzato i suoi criteri di programmazione.
Sarebbe da nominare “rimediaprogrammazione” delle private, per dirlo ancora una volta con un’espressione della Rico Oliver. Come ha rilevato la nostra ormai familiare autrice, chi decide la programmazione è il marketing, non i produttori né i soggettisti. Con una complicità sospetta, i proprietari delle reti nascondono nei “gusti del pubblico” le ragioni autentiche dell’ansia di guadagno e di cattivo gusto: chi comanda sono i rating di audience.
A loro piacerebbe elevare la qualità dei programmi, ma il pubblico vuol vedere colori pacchiani, spettacoli volgari, signorine esuberanti e con la testa vuota, e circo, molto circo! Pochi sanno che non è vero, che per il pubblico, quando la scelta è fra spazzatura e carogna, non vi è alternativa. Mi ricordano quei signori d’Andalusia che, per giustificare il fatto di non dar la carne ai propri salariati, dicevano: “È che a loro la carne non piace”.
È dimostrato che quando si fa scegliere fra bistecca e lenticchie, la maggior parte sceglie la cosa buona; però se vi sono solo lenticchie… No, non è l’audience che comanda, è la pubblicità. I programmi vengono patrocinati dagli sponsor, i “padroni” che forse sanno fabbricare insaccati, ma che non sanno niente di canovacci né di pubblico e proprio loro decidono i canovacci, nonché l’arredamento scenico: molta luce, colori stridenti, abbaglianti, musica rumorosa e, se si tratta di programmi per bambini, lo scenario si riempie di bambini, molti bambini che applaudono e accompagnano le insulse e pacchiane esclamazioni della scollata e provocante presentatrice di turno – come se l’ampiezza delle scollature avesse qualcosa a che vedere con l’immaginazione infantile -, che insinua messaggi subliminali pubblicitari mentre tutti i bambini della platea rispondono con “spontaneità” millimetricamente organizzata per rafforzare il messaggio dello spot pubblicitario: – “Come giocano i cuginetti?” – domanda la presentatrice X alludendo alle bambole di una determinata marca. – “Tutti insieme“ – fa eco la ragazzaglia della platea all’unisono (41).
Non esagero, afferma la Rico Oliver: “Gli spazi che giustificano i costi pubblicitari devono indurla a capire che vita è sinonimo di appropriazione febbrile di oggetti diversi – quanto oggi si chiama benessere – e far in modo che Lei s’identifichi con quanti godono della massima possibilità economica, quanto oggi si chiama successo. All’infuori di questi stereotipi non esistono altri interessi e, dato che chi paga comanda, le industrie che finanziano la programmazione non possono permettere che le proprie impostazioni commerciali siano vanificate da “cose volgari” come la verità, la bellezza o l’etica” (42).
3. La “sindrome di Humpty-Dumpty”
La terza sindrome è quella di Humpty-Dumpty, ovvero di come la televisione genera analfabeti funzionali. Humpty-Dumpty è il titolo di una vecchia canzone infantile inglese con una certa intenzione di satira politica nei confronti di alcuni monarchi britannici del secolo XVIII. Il personaggio è un uovo incredibilmente fatuo e ignaro della propria fragilità.
Alice lo incontra e discute con lui sul significato delle parole: “Quando io uso una parola, – ribatté Bindolo Rondolo [Humpty-Dumpty] piuttosto altezzosamente, – essa significa precisamente ciò che voglio che significhi… né più né meno. “- Bisognerebbe sapere, – disse Alice, – se voi potete dare alle parole molti significati diversi. Bisognerebbe sapere, – rispose Bindolo Rondolo, – chi ha da essere il padrone… ecco tutto” (43).
È abbastanza provato, fra gli accademici che hanno studiato gli effetti dei media, il risultato da essi prodotto d’impoverimento del processo di conoscenza della realtà (44). È chiaro, per esempio, che il ricorrente “bombardamento” informativo di avvenimenti, normalmente contrastanti, produce sulle audience un effetto di mancanza di contestualizzazione e di sconnessione con la vita quotidiana.
E, più in generale, riferendosi all’influenza dei media sui processi di comprensione della realtà, Pablo del Río Pereda afferma che “negli ultimi vent’anni, con il deteriorarsi dei referenti reali ormai instabili della costruzione strumentale, in tutto il mondo si è dato un deterioramento addizionale dei processi conoscitivi. Si è passati infatti da un pensiero costruito strumentalmente sul potere astrattivo del linguaggio scritto (che obbliga a de-contestualizzare per comprendere) a un altro fondato su codici orali e sull’immagine […].
Il risultato è un nuovo analfabetismo con vernice di “conoscenza”. Si pensa per associazione, com’è possibile fare per le immagini, però si formula un pensiero associativo in etichette verbali apparentemente precise e gerarchiche. Il risultato è un linguaggio oscuro e confuso in cui è facile sostenere una presunta obiettività unitamente a stereotipi e a pregiudizi totalmente associativi.
Si produce così la somma di due gravi mali: mancanza di contestualizzazione nei sistemi simbolici di rappresentazione […], che coincide […] con un’accusata mancanza di contestualizzazione a livello sociale: cioè la cultura vicaria dei media è solo molto parzialmente integrata nell’attività della vita quotidiana (anche se questo allontanamento si va progressivamente accorciando, non per l’avvicinamento della cultura alla realtà, come sarebbe auspicabile, ma per l’avvicinamento della realtà o dell’attività dei cittadini all’irrealtà della vita proposta dai media)” (45).
Si è spesso sottolineato l’effetto paradossalmente dis-informativo provocato dall’overdose di notizie, caratteristica della società dell’opulenza informativa. Vi è così tanta informazione che abbiamo l’illusione d’essere informati (46), quando in realtà mancano “criteri guida” che permettano di costruire sentieri di senso nel bosco dell’accumulazione di dati, di notizie e anche di pseudo-informazioni.
Per dare un’idea dell’overdose informativa, Hurbert Murray Jr. afferma che “ogni giorno si registrano una ventina di milioni di parole d’informazione tecnica. Un lettore, capace di leggere mille parole al minuto, se leggesse otto ore al giorno, avrebbe bisogno di un mese e mezzo solo per aggiornarsi sulla produzione quotidiana, e alla fine del periodo di letture sarebbe ancora indietro di cinque anni e mezzo” (47). In un giorno lavorativo The New York Times contiene più informazione di quanto avrebbe potuto conoscere il cittadino inglese medio del secolo XVII.
Ora, mentre la disponibilità di informazioni cresce a dismisura, la disponibilità ricettiva di una persona rimane costante quando non diminuisce, perché questa capacità dipende dalla qualità della sua educazione umanistica. In tale situazione, la massa, addormentata dall’iper-saturazione di notizie, diventa completamente dipendente dai creatori di opinioni, proprio perché ha bisogno d’interpretazioni globali, di commenti che le risparmino lo sforzo di documentarsi e che l’orientino nella fitta selva informativa.
Questo vuoto viene così riempito da quei pochi, peraltro sempre gli stessi, che opinano su quasi tutto con la stessa universale competenza: dalla politica nazionale ai problemi di etica biologica, alle questioni morali e teologiche della Chiesa cattolica, ai conflitti mondiali. Sono quelli che configurano l’opinione pubblica, i cosiddetti opinion maker, che, dai pulpiti delle loro colonne giornalistiche o dei loro dibattiti radiotelevisivi, impartiscono il nuovo credo assorbito dall’opinione pubblica passivamente e con l’illusione della consapevolezza critica.
La pluralità di voci e la libertà d’espressione con cui si presentano consente infatti l’illusione d’una formazione pluralista e illuminata d’un’opinione critica omogenea e di serie, ma sempre critica.
In una recente intervista, Umberto Eco ricordava come la “semiosi” della televisione non sia una semiosi naturale, come quella dei gesti, dei comportamenti e degli sguardi che gli “umili” del romanzo di Alessandro Manzoni (1785-1873) – per citare un caso di letteratura classica italiana – apprendevano dalla realtà circostante. Le immagini televisive non propongono la realtà ma una mise en scène, com’è ben noto.
L’intervistatore osservava come i Cagliostro, i don Rodrigo di oggi approfittano della potenza dei media per guadagnare consensi, nonostante la diffusione d’informazione e l’aumento della scolarizzazione facessero sperare in difese immunitarie più robuste dei cittadini di fronte agl’imbroglioni e ai potenti. A tale osservazione
Eco rispondeva che “in tutti i tempi la moneta cattiva ha scacciato la buona e i ciarlatani hanno ingannato i gonzi. Accadeva prima della televisione e accade dopo. Data la potenza del mezzo, semplicemente accade di più. La crescita dell’informazione e della cultura accresce la credulità […]. Aveva ragione Chesterton, quando la gente non crede più in Dio non è che non crede più a nulla, crede a tutto. Gli atei sono più superstiziosi dei credenti. La New Age, una religione per non credenti, ha più dèi di ogni religione rivelata” (48).
Nonostante l’apparente durezza della mia esposizione di ragioni contro la televisione, sono pienamente consapevole che il problema non è la televisione in quanto televisione. Come avvertiva saggiamente Albert Einstein (1879-1955), “il problema vero è nei cuori e nelle menti degli uomini. È più facile mutare la natura del plutonio che quella del malvagio spirito umano”. Mi sembra ovvio che la televisione è tanto malata quanto il cuore degli uomini.
Perciò non vorrei terminare l’esposizione con una pura diagnosi del malato senza proporre una cura, o almeno qualche calmante che allevii il dolore. Ma non è mia intenzione offrire ricette. Di ricette ve ne sono molte: le associazioni di telespettatori, il potenziamento della lettura, vedere i programmi con i figli e commentarli, servirsi delle risorse tecnologiche che permettono di programmare il menù televisivo per i bambini senza che possano uscire dalla programmazione fissata dai genitori, le misure di autocontrollo o imposte per legge per definire gli orari dei programmi non adatti ai minori, gli osservatori di vigilanza dei contenuti violenti o pornografici della televisione, la concessione di una patente per operare in televisione come proponeva Popper… Ma questi sono solamente palliativi che non risolvono il problema. Ciò non vuol dire che non vi siano soluzioni: ve ne sono.
Ma le ricette servono quando vi è un piano integrale di salute, non quando si cerca solo di eliminare i sintomi. È necessaria una re-impostazione del compito educativo per le nuove generazioni. Manca un piano d’urto. Bisogna essere profondamente convinti che l’educazione, non l’istruzione, è il compito più importante dei genitori, della scuola e della società nel suo insieme. Di fronte alla sfida di ogni nuova infornata di bambini e di giovani, che si affacciano alle porte del nostro mondo nell’attesa di scoprirlo e di comprenderlo per esservi introdotti, è necessario reinventare la cultura.
Certamente concorderanno con quest’idea di Chesterton che, anche se riferita a bambini piccoli, vale come sfida per qualsiasi età: “Le due cose che rendono i bambini tanto attraenti per quasi tutte le persone normali sono: anzitutto il fatto che sono molto seri, e poi, di conseguenza, che sono molto felici. Sono allegri con quella perfezione che è possibile unicamente in assenza di humour. Le scuole e i saggi non hanno mai raggiunto la gravità che alberga in un bambino di tre mesi. È la gravità del suo stupore davanti all’universo, e stupore davanti all’universo non significa misticismo, ma un senso comune trascendente.
Il fascino dei bambini sta nel fatto che con ognuno di loro tutte le cose sono fatte di nuovo, e l’universo viene messo di nuovo alla prova. Quando passeggiamo per le strade e vediamo sotto di noi queste deliziose testoline bulbose – tre volte più grandi del corpo – che definiscono questi funghi umani, dovremmo sempre e prima di tutto ricordare che in ognuna di queste teste vi è un universo nuovo, così com’era il settimo giorno della creazione” (45).
Note
(1) Gilbert Keith Chesterton, El amor o la fuerza del sino, trad. spagnola di Álvaro de Silva, Rialp, Madrid 1993, pp. 191 ss.