Da Marx a Hegel: la conoscenza come teofania. Un libro
di Marcello Pera
Fra i grandi problemi filosofici, quello del progresso è fra i meno trattabili. Anche nei contesti meglio definiti e apparentemente più appropriati, quelli della scienza, la questione non è chiara.
Nessuno dubita che la conoscenza scientifica progredisca, che oggi ne sappiamo più e meglio di ieri. Ma se ci si chiede come e perché, questa idea si fa analiticamente opaca. La scienza progredisce secondo il modello della espansione, alla maniera delle onde concentriche in uno stagno, in cui di volta in volta i cerchi esterni (le nuove conoscenze) contengono quelli interni (i risultati acquisiti)?
Oppure la scienza progredisce secondo il modello dell’approfondimento, alla maniera dei gironi infernali danteschi a forma di cono rovesciato, in cui il successivo va più in profondità del precedente?
Dopo la fine della filosofia della scienza positivista e neo-positivista, entrambi i modelli sono stati considerati inadeguati, se non altro perché, in molti casi, non è chiaro che lo stadio successivo parli, e meglio, dello stesso oggetto del precedente (la chimica e la fisica sono progredite quando hanno negato il flogisto e l’etere).
E di gran lunga peggio vanno le cose nei contesti morali e politici. L’umanità va verso il meglio? Oppure resta moralmente statica (più o meno lo stesso male, più o meno lo stesso bene), se non addirittura regredisce (sempre più male, sempre meno bene)?
Gli stessi termini della questione sono controversi. Quando si dice che uno stadio B segna un progresso, ci si riferisce a uno stadio antecedente A, a uno stadio futuro C, a uno stadio finale Z? Il progresso va inteso nel senso di “a partire da” o nel senso di “rispetto a”?
Il primo caso sembra il più agevole da trattare: andare in treno oggi, per esempio, è un progresso se confrontato con l’andare in carrozza ieri. Ma il confronto richiede che sia definito un valore, per esempio la velocità di movimento, che faccia da criterio. Ed è la scelta e la giustificazione di questo valore che sono controversi.
Meglio la velocità o la sicurezza o la comodità o la piacevolezza dello sguardo al panorama, o…, eccetera eccetera? Non meno controverso è il secondo caso, il progresso “rispetto a” o per “approssimazione verso”. Anche qui opera un valore, con l’aggravante che questo valore deve essere inteso come il valore finale, la mèta definita, lo scopo ultimo. Ma c’è questo valore? E qual è? Stabilito come e da chi?
Un esempio: i costumi sessuali di oggi sono un progresso rispetto a quelli di ieri? Si risponde: sì, lo sono, perché sono più vicini alla piena libertà e autonomia degli individui. Ma si tratta di una tautologia. Poiché nessuno conosce che cosa sono la piena libertà e autonomia degli individui, questa risposta equivale a dire: i costumi sessuali di oggi sono un progresso rispetto a quelli di ieri, perché… sono di oggi!
Giuseppe Bedeschi ha deciso di aiutarci a fare un po’ di ordine intellettuale. In un libro aureo, che si raccomanda a tutti per chiarezza di concetti, finezza di scrittura, lucidità di argomentazione, ha considerato, ricostruito ed esaminato le principali risposte dei principali pensatori in materia di progresso, dall’Illuminismo a oggi (“Declino e tramonto della civiltà occidentale. Studi sulla caduta dell’idea di progresso nella cultura europea”, Rubbettino, pp. 146, Euro 15).
Sul tema, Bedeschi ne sa tanto e non aggiunge del suo. Ma di quel tanto che sa ci offre preziosa dovizia, affinché noi possiamo orientarci. Da Hegel a Marx a Comte, fino a Freud, Ortega y Gasset, Heidegger, Adorno e Horkheimer, Croce, ci mostra due cose importanti.
La prima è che i moderni sono tutti tormentati dall’idea del progresso della storia, ma non ne sono mai venuti a capo se non con una fuga nell’utopia, fosse l’Assoluto che si realizza di Hegel, la fine dell’alienazione di Marx, l’avvento dello stadio positivo di Comte. Tutte fedi, generose o perverse, ma solo fedi, senza forza cogente o resistente ai fatti della storia.
Come può Hegel ricondurre l’accidentale, il fortuito, il contingente, all’Idea, alla Ragione, all’Assoluto? Mistero. Come può Marx pensare che un dato storico, la rivoluzione proletaria, metta fine alla storia? Altro mistero.
Quanto a Comte e agli altri positivisti, i misteri sono anche più ingenui. Supposto che la nostra sia l’epoca scientifica, supposto che questa segni un progresso rispetto a un’altra epoca supposta solo mitica, come si può proiettare il progresso scientifico su quello morale? Più conoscenza vuol dire anche più moralità? Assurdo.
La seconda cosa che esce dallo scrigno di Bedeschi, anche se in modo sotterraneo e indiretto, è, secondo la mia lettura, anche più preziosa: la questione del progresso morale dell’umanità è una questione religiosa, e la questione del progresso, o regresso, dell’occidente è una questione cristiana.
Di ciò abbiamo anche un indizio esterno: quando l’occidente ha smesso di dirsi cristiano, ha smesso anche di negare il progresso, o perché ha pensato di aver raggiunto lo stadio finale (la rivoluzione, l’uomo nuovo) o perché ha disperato di poterlo mai conseguire. Perché questione religiosa?
Perché l’idea di progresso della storia richiede l’idea della salvezza come mèta ultima dell’umanità, l’idea di un cammino ascendente da percorrere verso tale mèta, e l’idea di una guida, una Provvidenza, che ci conduca in modo infallibile. Tutte idee religiose che significano l’intervento di Dio nella storia.
Per questo è corretto dire che ogni teoria morale del progresso dell’umanità è una teofania. Più precisamente, nell’occidente, una teofania cristiana. Rivestita con diversi linguaggi e apparati concettuali, questa teofania è all’opera nei pensatori esaminati da Bedeschi.
In Hegel, con la sua idea della Ragione che sta dietro o sotto la superficie e l’accidentale. In Marx, con la sua convinzione della fine della storia nella Gerusalemme celeste in terra. E negli altri con altri concetti dagli effetti simili. La principale differenza reciproca è la conclusione: c’è chi sostiene che la Provvidenza consentirà all’uomo di superare l’ostacolo principale al progresso morale, che è il peccato originale (lo stesso che il male radicale di Kant, il Thanatos di Freud, l’azione illogica di Pareto), e c’è chi invece sostiene che questo male è inestirpabile e che l’unico progresso morale si avrà solo quando l’uomo, nella Città di Dio non nella città terrena, si sarà infine ricongiunto con Dio.
Neppure il cristianesimo dà risposte univoche in proposito. Se l’uomo è un angelo caduto, Dio lo può salvare con la grazia, ma nella storia dell’umanità, dove la caduta opera sempre, non può esserci autentico progresso morale. Alternativamente, se la provvidenza di Dio guida la storia, allora si può pensare che l’umanità progredisca verso la mèta da lui fissata.
La teofania cristiana è una escatologia, ma si può essere cristiani e confidenti nel progresso verso il meglio che infine ci sarà, e si può essere cristiani e disperati per il peggio che intanto c’è. Di una cosa si può essere sicuri: se si perde il cristianesimo, arriva la “fine di tutte le cose”, come Kant sostenne a spese del proprio illuminismo, o arriva la vittoria dell’“Anticristo che è in noi”, come Croce scoprì a spese del suo sistema.
L’occidente, così giustamente caro a Bedeschi, ha battuto entrambe le strade. Se oggi declina, non è tanto perché non crede più nel progresso, ma perché non crede più in Dio, senza il quale l’idea di un’umanità che soffre ma progredisce è priva di senso.
Quando si spegne la luce della fede, le ombre si allungano, i contorni sfumano, le figure illanguidiscono e la speranza perisce. Si vive alla giornata. O si vive rassegnati come l’ultimo giorno.
E’ la condizione nostra di oggi. Ed è un dramma di dimensioni enormi il fatto che lo stesso Magistero pontificio oggi contribuisca a spegnere la luce. Quando si dice che Dio vuole la pluralità delle religioni, cioè vuole la verità tanto quanto l’errore, se ne sia o no consapevoli, s’intende dire che l’uomo può procedere da sé solo, senza altra guida o illuminazione. Il libro di Bedeschi serve da antidoto anche contro questa eresia