da Il Corriere del Sud anno XXVII
20 settembre 2018
Nel 75° anniversario del rastrellamento tedesco della comunità degli ebrei romani del 1943 c’è ancora chi prova a riscrivere la storia perseguendo interessi ideologici e convenienze personali
di Giuseppe Brienza
«Non è possibile, nell’ora presente, capire qualcosa degli avvenimenti, sfuggire al disorientamento degli spiriti, evitare l’imprudenza nell’agire, giocare un ruolo utile nella politica o nella società e persino essere semplicemente un uomo colto, un “anti-barbaro”, senza solide conoscenze di storia e soprattutto senza avere il gusto della storia, perché bisogna avere il gusto della storia come si ha quello della poesia o dell’arte».
Riprendiamo questa citazione del pensatore elvetico Gonzague de Reynold (1880-1970) [cfr. Cercles concentriques. Etudes et morceaux sur la Suisse, Les Editions du Chandeleir, Bienne 1943, pp. 182-183] riflettendo sulla notizia della cancellazione, da parte del Sindaco di Roma, dalla toponomastica della città dei nomi di due scienziati italiani della prima metà del XX secolo, lo psichiatra Arturo Donaggio (1868-1942), nel 1924 candidato al Nobel per la medicina ed il biologo Edoardo Zavattari (1883-1972), a lungo direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università “La Sapienza”.
«Virginia Raggi ha fortemente voluto un atto eccezionale, la cancellazione dalla toponomastica dei nomi di chi aveva messo il proprio prestigio scientifico a servizio della diffusione di false e indegne teorie razziste». Così ha spiegato la decisione del primo cittadino pentastellato il Vicesindaco di Roma con delega alla “Crescita Culturale” Luca Bergamo, nel giorno stesso in cui l’intestazione delle «prime due strade» (quindi la “bonifica storico-ideologica” è destinata a continuare…) di Roma sono sostituite passando dal nome di chi firmò (in realtà fu incluso a sua insaputa nella lista dei firmatari) il manifesto delle Leggi Razziali del 1938 a quello di due vittime della Shoah scelte dal Comune a seguito di «un percorso partecipato con la Comunità ebraica di Roma».
“Imprudenza nell’agire” causata da ignoranza? Diremmo proprio di sì, perché se Zavattari fu indubbiamente uno dei maggiori teorici, nel nostro Paese, dell’ideologia condannabile del razzismo biologico, cancellare dalla memoria nazionale il prof. Donaggio appare un vero abuso. Dire che questo accreditato psichiatra abbia «messo il proprio prestigio scientifico a servizio della diffusione di false e indegne teorie razziste» ci sembra per lo meno una esagerazione storica.
Direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di Bologna e presidente della Società italiana di Psichiatria, Donaggio firmò oltretutto il Manifesto della razza il 15 luglio 1938 (data nella quale questo documento fu pubblicato sul “Giornale d’Italia”). A quel tempo la sua carriera scientifica era già finita, se non altro perché era arrivato alla venerata età di settant’anni (era nato a Falconara Marittima l’11 ottobre del 1868).
L’ultimo incarico accademico-scientifico che Donaggio ricevette, quello nel 1935 di direttore della Clinica delle malattie nervose e mentali di Bologna, al tempo della promulgazione delle “leggi razziali”, era già stato esperito e, nel luglio del 1938, lo studioso si era appunto ritirato dall’insegnamento per limiti d’età. Morendo in un incidente automobilistico prima della caduta del regime fascista, cioè nel 1942, non fece quindi in tempo, come provarono a fare due degli altri firmatari del Manifesto, a revocare la sua “firma” e, quindi, protestare per essere stato incluso senza il suo espresso consenso nella lista dei firmatari.
Come ha ricordato nel suo saggio del 2008 “Il Manifesto della razza del 1938 e i cattolici” lo storico gesuita Giovanni Sale, pare infatti, «che nessuno dei firmatari sia stato interpellato prima della pubblicazione del Manifesto» («La Civiltà Cattolica», quaderno 3793, 5 luglio 2008). Questo antifascismo a scoppio ritardato, quindi, pomposamente annunciato con post, tweet e dichiarazioni varie quando non si rischia ormai più niente perché il fascismo è morto e sepolto da quasi un secolo, oltre che esecrabile perché privo di quelle «solide conoscenze di storia» che dovrebbero assistere, come ricordato dal de Reynold, chi esercita «un ruolo nella politica o nella società», sembra più che altro diretto a distogliere l’attenzione sui veri (e grandi) problemi di Roma. Ha poco, o nulla, a che fare con l’identità, l’anti-razzismo e la storia d’Italia.
Quanto detto non toglie che Papa Pio XI (1922-1939), fin dall’inizio, condannò il Manifesto della razza del 1938 come contrario alla dottrina cristiana, al diritto naturale e ad ogni elementare senso di umanità, promuovendo una forte opera politico-diplomatica e di sensibilizzazione per scongiurare la legislazione razziale. Achille Ratti giunse persino a scrivere il 5 novembre 1938 una lettera a Vittorio Emanuele III, re d’Italia, per impedire la promulgazione delle leggi razziali. rispose al Papa di aver trasmesso a Mussolini il suo messaggio, e che questo sarebbe stato tenuto “in massimo conto” per conciliare i punti di vista divergenti fra Chiesa e Stato.
Il primo provvedimento che, a torto, è riportato nelle ricostruzioni di comodo come “di materia razziale” del Regime fascista è quello promulgato dal Governo Mussolini nell’aprile del 1937 e vietava ai cittadini italiani di tenere «relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale italiana». Tale legislazione, sicuramente di natura discriminatoria, non aveva però carattere razzista, perseguendo esclusivamente lo scopo morale di vietare il concubinato nei Paesi colonizzati. Tale tipo di convivenze coloniali avrebbero finito, si sosteneva, per snaturare il costume matrimoniale e sociale italiano introducendo oltretutto il “meticciato”.
Il Governo Mussolini fece di tutto, sia a livello sia normativo sia propagandistico, per scoraggiare e arginare tale fenomeno, chiedendo anche alla Chiesa Cattolica, e in particolare ai missionari presenti nelle colonie italiane, di collaborare con le autorità per dissuadere i battezzati dal contrarre «matrimoni misti». Le autorità religiose, realisticamente, individuarono nei nuovi provvedimenti del Regime «efficaci strumenti repressivi adatti a limitare comportamenti disordinati e a volte scandalosi dal punto di vista morale adottati dai nuovi conquistatori, i quali del resto si professavano cattolici» (G. Sale S.I., art. cit.).
Per questo in una Nota del 1° agosto 1938 indirizzata dal Nunzio Apostolico in Italia, il futuro cardinale Francesco Borgongini Duca (1884-1954), al Capo del Governo a tale proposito si diceva: «La Santa Sede si compiace col Governo Italiano per aver colpito il concubinato fra gli italiani e gli indigeni di colore. Quanto a fiancheggiare l’azione moralizzatrice del Governo, come si domanda dalle Autorità Coloniali, la Chiesa non si rifiuta di prestare largamente, per mezzo dei suoi missionari, l’invocata opera di persuasione ad impedire tali ibride unioni, per i saggi motivi igienico sociali intesi dallo Stato, ma soprattutto per le ragioni di indole morale e religiosa, che hanno la maggiore efficacia nelle anime» [cfr. Archivio Segreto Vaticano – Affari Ecclesiastici Straordinari (ASV – AAEESS), Italia, 1.040, 720, 22, cit. in G. Sale S.I., art. cit.].
A chi dice che la Chiesa fece poco contro le leggi razziali del 1938 si può tranquillamente rispondere che, Pio XI, fece tutto quello che poteva fare in una situazione delicata e drammatica come quella in cui fu chiamato ad operare. Di fronte ad un regime autoritario (quello fascista) che stava progressivamente andando verso l’abbraccio mortale con un regime totalitario (quello nazionalsocialista tedesco), il Papa non poteva che salvaguardare la dottrina ma, insieme, operare per salvare le anime e, in prospettiva, le vite umane stesse. Compito della Chiesa non è infatti quello di costituire fronti o fare rivoluzioni, bensì di agire gradualmente come “lievito” per cercare di persuadere le menti e cambiare i cuori.