La storia secondo sant’Agostino (*)

La storia secondo sant’AgostinoCultura&Identità rivista di studi conservatori n.40 29 Giugno 2023

La lettura della storia umana alla luce della fede cristiana è stata una delle grandi conquiste del pensiero agostiniano: la “teologia delle due città”, di Dio e del diavolo, è ancora un criterio ermeneutico essenziale per qualunque indagine sulla storia in una prospettiva non meramente naturalistica. La espone un grande filosofo metafisico del Novecento

Michele Federico Sciacca

1.IL PROBLEMA DELLA STORIA E I FONDAMENTI METAFISICI DI ESSA

La storia secondo sant’AgostinoParlare del concetto di storia in Agostino [354-430] può sembrare porsi un problema in lui inesistente o addirittura risolto in senso negativo: non c’è conoscenza razionale o filosofia della storia ma solo teologia. E indubbiamente per il gran Vescovo non c’è soluzione totale del problema della storia né intelligibilità di essa senza il ricorso ai dati della Rivelazione. Ciò però non significa che egli neghi il momento razionale o filosofico, anzi proprio su questo, secondo lui, s’innesta quello sovrannaturale o teologico, senza che sia negata la possibilità di una metafisica e di una logica della storia, di una metafisica dell’interiorità e di una logica che è dialetticità.

Il mondo esiste per un atto volontario di Dio che lo ha creato: avrebbe potuto anche non essere; è, perché Dio ha liberamente voluto che fosse.

1 La contingenza

La sua esistenza è dunque contingente: la contingenza è il primo fondamento metafisico della storia. Un mondo eterno sarebbe senza storia: c’è storia dove c’è creatura e dove c’è creatura c’è contingenza. Infatti, un mondo eterno significa: a) vi è un principio, in se immutabile, estraneo, “lontano”, da cui eternamente emanano delle apparenze, che svaniscono come ombre; di esso non c’è storia, né delle sue apparenze, che compaiono e scompaiono come immagini riflesse in uno specchio; b) il principio eterno si risolve dinamicamente nel suo stesso divenire, anzi quest’ultimo è la sua essenza; ab aeterno il principio adegua il divenire e viceversa. Osserviamo che ove c’è divenire perenne non c’è eternità ma perpetuità non infinito ma definito e ove l’essenza dell’essere e il divenire stesso, questo non ha più quell’essenza sua per cui è tale. Lessere nella sua assolutezza e; può essere senza la contingenza, ma la contingenza, se c’è, non è e non può essere l’essere assoluto; e se esso è la stessa contingenza e in essa tutto si risolve, non c’è l’essere, ma la contingenza sola, la quale, non potendo essere da sé, e solo affermata assurdamente è in contraddizione con la sua stessa essenza. È impossibile parlare di storia perché si è negato lo stesso suo fondamento, che è la contingenza, che se è, e per un atto volontario creativo dell’essere non contingente.

Né, come è noto, è esatto dire, per sant’Agostino, Che Dio ha creato il mondo nel tempo, in quanto non vi è tempo prima della creazione: anche il tempo è creatura di Dio, ha inizio con la creazione e «[…]  non vi era tempo prima dell’inizio del tempo» (1). E, come creatura, il tempo e anch’esso contingente e non coeterno a Dio: la contingenza del tempo e la contingenza della storia, che è temporale, ed è la contingenza della storia, che è temporale, ed è la contingenza stessa del mondo.

2 La partecipazione

Stabilito il principio della contingenza, con altrettanta forza è affermato quello della partecipazione analogica tra l’eterno creante e il contingente creato. Proprio il primo evento “storico”, che è la creazione, comporta un vincolo ontologico tra il creatore e la creatura: il mondo e ogni suo ente avrebbe potuto non essere, ma una volta che è, e dal e per il creatore. Questo vincolo creaturale a un moto dialettico: all’Eterno al temporale e dal temporale all’Eterno, che non è un viaggio di andata e uno di ritorno: l’ente che è da Dio, per il fatto che è da Lui, è, come tale, per Lui. L’andata e il ritorno sono implicati nella essenza stessa dell’ente creato e la dialettica del da e del per è ancora l’implicanza dei due termini pur nella loro distinzione. O, se si preferisce: il movimento dal Creatore alla creatura pone l’altro dalla creatura al Creatore; cioè, per il fatto che la creatura è creatura, per sua natura ed essenza, è portata a tendere a Dio, anche se e quando tende ad altro: il tendere ad altro è una “diversione” che non distrugge la tendenza, la sola essenziale, di “convergere” in Dio.

Gli anni di Dio sono il suo hodiernus dies, l’oggi eterno, attraverso cui sono passati (transierunt) tutti gli anni dei nostri padri e nostri, in quanto dall’oggi di Dio hanno ricevuto misura (modus) ed esistenza (utcumque existerunt); e così sarà per quelli che verranno (2). Dio non è i nostri anni (la storia), ma tutti i nostri anni passano dal Suo Oggi creante; e a quest’Oggi aspirano a tornare le creature intelligenti. Si noti: dall’eterno al temporale e all’eterno ancora: il temporale (la storia) sta in mezzo, come chiuso dall’eternità: il suo inizio è l’eterno e l’eterno il suo fine. Dunque la storia, non solo ha una finalità superstorica, ma anche un principio: la sorgente è anche la sua foce; l’eterno è sorgente e foce. E siccome essa porta in sé il vestigio della sorgente e della foce, non scorre come fiume dal monte al mare, ma zampilla come getto d’acqua, il cui “sfociare” è tornare — come aspirazione — al punto sorgivo da cui ha zampillato. Vi è certo un duplice movimento di discesa ed ascesa, ma non c’è separazione: già nella discesa — l’atto creante le creature — è implicita, ontologicamente, nella creatura stessa, la direzione di ascesa.

Sulla base della contingenza, la partecipazione analogica tra l’Eterno creante e il contingente creato si presenta anche da un altro aspetto. Ogni ente creato è contingente, in quanto avrebbe potuto non essere, ma, una volta creato, non può nella sua essenza essere diverso da quello che è: è contingente, ma la sua essenza gli è necessaria: non è da sé, ma, una volta che è, è quello che è per essenza. L’uomo, il soggetto della storia e di cui — e solo di lui — c’è storia, è ente contingente dotato d’intelligenza; e non c’è intelligenza senza verità, la quale è interiore all’uomo, presente alla sua mente, di cui è lumen; ma è superiore alla mente e la trascende. Nel mutabile uomo vi è qualcosa d’immutabile, facente parte della sua essenza spirituale; nell’uomo intelligente vi è qualcosa di necessario; nell’uomo temporale vi è la presenza dell’eterno. L’uomo mortale è capace di pensieri immortali, come dice Aristotele [384-322 a.C.]; lo è per la sua partecipazione all’essere, alla verità.

Senza di essa e se tutto nell’uomo fosse contingente, non vi sarebbe storia, la quale ha un suo ordine, di origine divina, perché tale ordine è nell’uomo, che la fa; non vi sarebbe storia, perché gli avvenimenti e le opere, come non espressive di valori, sarebbero senza valore e perciò “non già avvenuti e pur presenti”, ma semplicemente avvenuti, morti, nati senza storia. Pertanto la dialettica di eterno-temporale e temporale-eterno, di cui è fondamento la contingenza che implica necessariamente il tempo, fondamento della storia, rende possibile la storia stessa in quanto giustifica, proprio per la permanenza del valore e per la sua trascendenza, la storicità, che è — e c’è — solo perché storicamente — e, dunque, nel e col tempo — si manifesta il valore, che non è creato dal tempo, ma fa che il tempo abbia un senso storico e sia tempo di valore.

Una storia che crea il valore, prodotto dal suo stesso divenire, nega la storicità, il senso della storia, se stessa; è appunto lo storicismo, che è la concezione della storia senza valore storico, senza storicità, la quale è la storia degli eventi e delle opere umane esprimenti valori non storici e pur producenti non nella storia — come se vi potesse essere la storia e poi i valori da mettere dentro —, ma la storia stessa attraverso l’attività spirituale umana in tutte le sue forme.

Non c’è storia senza tempo, ma vi può essere tempo senza storia: il tempo esterno, delle cose, non ne ha: la storia comincia con il primo uomo, Adamo, non con le cose che vi erano prima che il fiat di Dio lo creasse. Della natura non c’è storia, il tempo dunque non si identifica con la storia: vi è un tempo non storico, il tempo delle cose prive di coscienza.

3. La successione

La storia secondo sant’AgostinoAgostino non ebbe chiaro questo concetto, né ai suoi tempi poteva averlo: il pensiero moderno l’ha chiarito ed approfondito, ma i suoi chiarimenti ed approfondimenti hanno la loro fonte proprio in sant’Agostino, lo scopritore del tempo della coscienza o come si suol dire — e, dico anch’io, pur che al vocabolo si dia il suo significato pregnante vero -, della successione. Successione e contingenza sono i due fondamenti metafisici della storia; ma la successione è il tempo della coscienza, umano; dunque è questo tempo, assieme alla contingenza, che fonda metafisicamente la storia e la fa essere come tale.

II. IL PROBLEMA DEL TEMPO

Agostino spesso indulge ad una concezione della storia che non è superiore alla cultura della sua epoca; parlo della storia intesa come insieme dei fatti avvenuti nella distesa del tempo e narrati, come passato o res gestae, la cui cognitio è per esperienza e non per via razionale. In breve, la storia intesa come erudizione, esempio, conoscenza utile di cose accadute, ecc. (3). È la storia del tempo esteriore, dei fatti che sono stati, collocati nel tempo e misurati secondo l’ordine cronologico. Se Agostino non avesse detto altro, non ci saremmo posti neppure il problema del suo concetto di storia, né l’avremmo trattato con impegno speculativo. Ma non ha detto solo questo, e, anche questo, va visto dall’altra prospettiva del tempo della coscienza o tempo interiore, per cui il passato è presente nel presente e proiettato nel futuro; ed è questo passato, che è storia; ed è questo tempo che è tempo storico. Certo l’oggetto della storia è sempre il passato, ma altro è il passato del tempo esteriore, altro quello riportato al tempo della coscienza.

sant' Agostino il problema del tempoPassato è ciò che è stato, e se è stato, non è; e futuro è ciò che sarà, e se deve essere, non è ancora; presente è ciò che scorre ed è attimo senza durata, non è. Ciascuno dei tre modi del tempo non è; l’essere del tempo è il non-essere. E tale è il tempo, considerato empiricamente come tempo esteriore, come spazio in cui avvengono certi fenomeni ed eventi. Il tempo non è il movimento di un corpo, ma la misura di esso: e qual è questa misura? È estensione, ma non spaziale: è estensione spirituale, la distensio ipsius animi, cioè della mente e dello spirito: «In te, anime meus, tempora metior» [“È in te, spirito mio, che misuro il tempo”] (4).

Passato, presente e futuro, tre modi del tempo, sono tre atti dello spirito, distinti, ma solidali, di cui l’uno si continua nell’altro; e perciò il tempo è durata o. meglio, il durare della coscienza. Il tempo interiore è presente, che non è lì, fuori di me o come un dato dentro di me, ma è l’attentio animi che dura: in questa durata è presente il passato come memoria, è presente il presente come contuitus ed è presente il futuro come expectatio; presente del passato (praesens de praeterito), presente del presente (praesens de praesentibus) e presente del futuro (praesens de futuris) (5). Questi i tre modi del tempo o dello spirito che ricorda, che è attento e che aspetta: nello spirito e precisamente nell’istante del presente o nell’atto dell’attenzione, si raccoglie il passato e si anticipa il futuro. Dunque processo interiore al tempo e non estensione fisica, quasi tre tempi, l’uno separato dall’altro, il passato “collocato” per suo conto dietro di noi, il presente puntualizzato nell’attimo empirico inattuale, il futuro fissato là davanti a noi. È questa l’illusione empirica che la presa di coscienza dissolve facendoci ritrovare il tempo nell’interiorità nostra.

È in questo tempo interiore che vanno ritrovati la storia e il suo senso: non un passato che è avvenuto e narrato in un presente che gli è estraneo e da cui è “lontano” (è stato), ma un passato che è presente nel presente, memoria e perciò non è più solo passato o accaduto narrato, ma elemento costitutivo dello stesso presente, atto sintetico di questo presente, che è esso e il presente del passato; e non un futuro che se ne sta per i fatti suoi in attesa che sia presente per poi passare, ma un futuro che è già operante nel presente, in cui è presente il passato, operante e presente come attesa e facente sintesi con il presente carico del passato e gravido dell’avvenire.

Parliamo pure di “successione”, ma non si dia alla parola un senso empirico, spaziale: la successione è la durata della coscienza, ma non nel senso che il passato stia prima e il futuro dopo e il presente in mezzo, ma nell’altro che ogni punto della estensione spirituale è sintesi dei tre momenti, è lo spirito che, attenzione come presente, è, in questa attenzione attuale, anche ricordo ed aspettazione. Tempo della coscienza e dunque della storia personale di ogni uomo e anche tempo della storia degli uomini e dell’umanità intera: il tempo della mia vita è lo stesso tempo della storia (6).

Il contingente è temporale, ma storico, perché il corso del tempo ha un ordine, che è ordine della storia; perché nella contingenza, il cui modo di esistere è la temporalità, si manifestano e vivono valori non prodotti né  riproducibili al flusso storico; e perciò vi è storicità: ciò che passa è storico in quanto non è morto ed è vivo nel presente, come memoria di valore, espresso dall’azione o dall’opera. Il fare storico è factum per il verum, che attua, che, presente nel presente, è actus che è in fieri, in quanto alimenta il futuro, che contiene come aspettazione. La storia non è passare di eventi umani, come passano le cose del mondo, non è solo flusso e divenire ma, ma è stare in atto, che è movimento interiore, dei fatti che, presenti nella memoria del presente, non precipitano nella dimenticanza del passato, e delle anticipazioni del futuro: nell’istante dell’atto di coscienza il passato e il futuro hanno un linguaggio, parlano.

Il “torrente” della storia è la profluxio mortalitas humanae: tutto corre e scorre, si raccoglie e si aduna; nascono uomini, vivono e muoiono; altri nasceranno, vivranno e morranno; eventi si succedono, muoiono e non permangono ed altri nasceranno e moriranno: tutto si raccoglie nell’“abisso” di morte: silenzio il passato, silenzio il futuro: in mezzo, “fra due silenzi”, il suono del presente, che si spenge nel passato o in quello ancora vuoto del futuro. Ma è questo momento, se inteso come “istante” del tempo interiore della co- scienza e non come “attimo” del tempo esteriore o fisico, questo medium, in cui tutto «sonat, et transit» [“la parola dell’uomo, appena è stata pronunziata, passa”] (7), il presente di coscienza o attenzione, che raccoglie il passato e il futuro — raccoglie il tempo, distensio animi — il suono del passato e quello da venire dell’umanità e fa che non precipiti in abyssum.

I due silenzi, nel cui mezzo è il sum del sum del presente, diventano la “parola” del presente stesso, dalle tantissime pause, ma senza un punto che la chiuda su e in se stessa. Il durare di questo istante è storia di ogni singolo uomo e dell’umanità intera, la storia senz’altro, non più chiusa tra due silenzi – e dunque non storia -. Ma aperta alla presenza del passato e nell’attesa del futuro, che sono la parola del presente. Intelligenza del presente di ogni singolo uomo nella presenza del suo passato e nell’attesa del suo futuro: questa la storia personale, di cui sono testo le Confessioni; intelligenza del presente della famiglia umana nella presenza del suo passato e nell’attesa del suo futuro: questa la storia pubblica dell’umanità, di cui è testo il De Civitate Dei. Due storie, una storia, il cui futuro o fine atteso e sperato, è nelle mani di Dio, come lo è il suo inizio. Creazione e fine dei tempi: il  lunedì e il sabato non sono da noi, ma noi siamo per il lunedì e il sabato, affinché poi sia la domenica: e i giorni intermedi sono per il giorno che apre e l’altro che chiude, ma apertura e chiusura sono nei giorni di mezzo — la vita, la storia —, come passato operante e futuro stimolante, come evocazione di (inizio superstorico) e come vocazione a (fine ultrastorico).

Vi è storia dell’uomo singolo e dell’umanità perché vi è stata creazione e perché la coscienza è temporale, anche se il suo fine trascende il tempo: e lo trascende perché non tutto, nella coscienza mutevole, è mutevole; e perciò c’è storicità.

III.  SCIENTIA E SAPIENTIA: FILOSOFIA E TEOLOGIA DELLA STORIA

E’ tema centrale della filosofia agostiniana il duplice ordine di conoscenza: scientia o conoscenza delle cose temporali e sapientia, lume divino, che illumina la mente umana (8). L’atteggiamento morale corrispondente è di “usare” (uti) della prima come strumento dell’altro, di cui solo si deve “fruire” (frui). Conoscenza temporale e conoscenza eterna, dunque, nettamente distinte, ma il senso autentico della prima è nella seconda. ù

La storia, il temporale di cui c’è scientia, va vista dalla prospettiva dell’eterno, la sapienza divina, rivelata da Cristo affinchè sia fede illuminante e vivente dell’uomo “nuovo”, riscattato. Nella storia è presente l’opera dell’uomo e quella di Dio: è la storia del genere umano, della societas. Dio agisce sui singoli in maniera occulta come Grazia e sul genere umano come Provvidenza. Sono due azioni distinte, ma non separate: l’azione della grazia concessa al singolo che fa che le sue azioni abbiano influenza nella societas e l’azione della Provvidenza sulla comunità che ha influenzato il singolo. Uomo e società, Grazia e Provvidenza sono come vasi comunicanti: storia globale è quella d’ogni singolo e di tutta l’umanità come societas. Per conseguenza la storia dal punto di vista della scientia non va considerata a sé, ma sempre tenendo presente l’altro della sapientia; cioè non vi è una filosofia e una teologia della storia da considerare separatamente, ma una filosofia, pur valida per sapere umano e razionale, la cui intelligibilità ultima è la sapienza.

In altri termini, non è esatto dire che per sant’Agostino — e per il per pensiero cristiano – non vi è filosofia ma solo teologia della storia, come è stato affermato anche per il Cristianesimo, spogliato della sua “mitologia” e secolarizzato — è il tentativo di [Georg Wilhelm Friedrich] Hegel [1770-1831] e dello storicismo moderno —, vi è solo una filosofia della storia, come comprensione razionale totale dell’uomo singolo e dell’umanità nell’immanenza della storia stessa e del temporale. La posizione agostiniana ci sembra un’altra e la più vicina  all’impostazione e alla soluzione vera del problema: vi è una conoscenza umana della vita degli uomini, individuale e sociale (filosofia),avente un ordine secondo il quale si svolge, ma essa ha il suo compimento di intelligibilità nella illuminazione della sapientia divina (teologia). Questo incontro, punto di inizio e di mediazione [nel]la creazione, tra temporale e divino — e Cristo è l’inserzione del divino nell’umano — è attestato dalla compresenza e convivenza nel mondo degli uomini delle due Città, che solo il Sabato separerà. Vi è dunque una dialettica — non certo di “risoluzione” dell’uno nell’altro — tra i due termini della storia, che è umana e divina, fatta dalla volontà degli uomini, ma con il concorso della Grazia e della Provvidenza.

Ma la dialettica è più complessa: a) il tempone  ha una nel suo interno, non solo come dialettica dei tre modi di esso, ma anche come “tempo della morte” e “tempo della vita”, a seconda che prevalga l’uno dei due “amori”, la superbia o la carità, b) Agostino non chiama historia gli eventi dell’uomo singolo — della persona —, ma è la persona, colta nella profondità del tempo interiore della coscienza, il fondamento e la radice della storia dell’umanità. Vi è dunque una dialettica persona-societas, storia individuale e storia sociale, che si svolge secondo il ritmo della dialettica dei due tempi della morte e della vita e secondo l’altro della Grazia e della Provvidenza. Concetto complesso della storia, che si svolge secondo momenti dialettici distinti e pur unitario, armonico, sintetico. In questa distinzione-unità e unità-distinzione di momenti essenziali – metafisici, dialettici e sapienziali — va considerata la distinzione tra scientia e sapientia. Da questa prospettiva la scientia non è più la conoscenza inferiore [sic]e quasi trascurabile dei fatti esterni, ma quel grado del conoscere che ha il suo compimento e la sua piena intelligibilità nella luce della sapientia, non più conoscenza dei fatti “esterni” ma di momenti interiori.

Il fatto storico, oggetto della scientia, perde quel che di “fisico” e “naturalistico” sembra avere in alcuni testi agostiniani e si presenta come vita spirituale, perché tale è l’interiorità, a cui è presente la verità che la trascende e, trascendendola, le assegna un destino supernaturale e superstorico e perciò —soltanto per questo — veramente spirituale. La scientia è conoscenza dei temporalia nella luce dell’eterno (9), conoscenza che ha valore intellettivo e religioso (10). Il concetto agostiniano di storia va incentrato in quello che è il punto focale della sua filosofia: l’interiorità, l’uomo interiore, a cui è presente il lume di verità. La storia è della persona ed è fatta da persone: anche quella cosiddetta “collettiva” è storia di persone: la storia comincia con la creazione dell’uomo e c’è storia solo dell’uomo e dell’umano.

Ma Dio è il Creatore di tutto e ha voluto incarnarsi per rivelarsi all’uomo. Del resto, la storia quale noi possiamo farla, comincia con un tremendo dialogo tra Dio e Adamo: “non fare questo, se no morirai” ed Adamo lo fece ugualmente. La storia è dunque dell’uomo, ma Dio è sempre presente in essa, dall’inizio alla fine. Come Uno e Trino, Creatore, Grazia, Provvidenza. E Dio è Persona, tre Persone e un solo Dio. Il Cristianesimo ha personalizzato l’Essere, la Verità: «Ego sum qui sum. Ego sum veritas», ecc. Persona creante e persona creata: gli altri enti, anch’essi creature, appartengono a Dio che li ha fatti per l’uomo. Le orme di Dio sono impresse in tutta la creazione, ma è nell’interno dell’uomo, la creatura intelligente e libera, che Egli penetra come sapienza illuminante, ed è l’uomo che è storico. Non si conosce la storia dell’umanità ponendosi il problema astratto della conoscenza dell’umanità in astratto, la quale in concreto è i singoli uomini. L’ordine della storia umana è lo stesso ordine interiore dell’uomo singolo; dunque, è nella creatura spirituale che innanzi tutto va scoperto l’ordine umano-divino della storia.

Dio diede un ordine ad Adamo e Adamo lo trasgredì: il libero arbitrio non volle “riconoscere” la sapienza ed amarla, le si ribellò: la volontà, vinta dal- la superbia, si allontanò da Dio e si disperse. Amor Dei e Amor sui, questi i due “pesi” che attraggono l’uomo da Adamo in poi, questo il mistero suo più profondo, quello che egli vive, istante per istante fino all’ultimo istante. In questa lotta tra carità e superbia, che è propria di ogni uomo il dramma della scientia e della sapientia, del peccato e della redenzione, della libertà capace di peccare e della grazia. La sua soluzione non risiede nell’annientamento della propria natura come se essa sia male o nulla, né nella negazione dell’amore di Dio; risiede nell’eliminazione del male o liberazione della volontà dal peccato — il “nulla” mistico ha valore morale-ascetico e non ontologico —, una volta che liberamente si è sottomessa alla sapientia, suo principio. Ma la liberazione della libertà è anche opera della grazia, di Cristo, il Liberatore.

Due amori in un’anima: il conflitto è interiore, la posta è la salvezza o la perdizione. Ora vince il pondus cupiditatis [peso della cupidigia], ora quello caritatis: «mergimur et emergimus» [“(..) siamo immersi ed emergiamo”] (11). La veritas in interiore homine è al centro della lotta e ci rende consapevoli di essa; ma è la divina Sapienza rivelata che ce la fa conoscere attraverso i dommi del peccato e della Incarnazione-Redenzione: attraverso la Rivelazione (duce Te), l’uomo entra in intima sua. Dio ha dato all’uomo, creatura intelligente, la libertà, ma appunto la libertà è la sua prova suprema: divisa tra due amori è chiamata a scegliere o la schiavitù di se stessa con la ribellione — “chi ama se stesso senza amare Dio, odia se stesso” — o la sua liberazione con la charitas — “chi ama Dio e non se stesso, ama se stesso” (12) —, che è negare se stessa nell’amore per Dio e, dunque, affermarsi come veramente libera. Due amori, due scelte: la libertà si attua nei termini di questa dialettica. Due amori, due tempi, quello del peccato e quello della grazia. Dialettica del tempo e dialettica della libertà all’interno di ogni singolo uomo: è una dialettica sola anche se di duplice aspetto, la quale sta a significare che il problema del tempo e quello della libertà sono indissolubili. E il tempo è il fondamento della storia; dunque il problema della storia è problema della libertà o, se si vuole, della “storia” della libertà di ogni singolo uomo in cui si scontrano due amori — due scelte — due tempi dell’umanità intera. Concezione grandiosa della Storia: Cielo e terra, Dio e l’uomo e l’universo sono presenti.

Il tempo della morte è nato dal primo peccato: non è stato creato da Dio, Adamo ed Eva non furono creati con esso. Dal momento del peccato i due antichi progenitori cominciarono a morire: conobbero la vecchiaia, il passare degli anni, il correre verso la morte. È il tempo dei giorni che corrono: un po’ di rumore e poi più nulla, silenzio del passato e silenzio del futuro. Dove va quest’acqua morta della vita? nel nulla: «in locum suum, in finem suum»[“verso al loro sfocio, verso la loro fine”] (13)

I giorni di questo tempo non stanno in piedi: prendono congedo quasi prima di arrivare: «[…] vanescentes interea temporum lapsus, ubi nihil solidum, nihil stabile retinetur» [“(…) il dileguarsi del tempo, perché in esso nulla si conserva di duraturo, nulla di stabile”] (14).

Tempo che va e tempo che viene, ma tutto va verso la morte; più le cose crescono e più “si affrettano” verso il non-essere (15). Sembra che il tempo del peccato sia avido di morte: come sferza, colpisce la vita umana e le mette nelle ossa una gran fretta di morire (16). Essere secondo questo tempo è essere per la morte (17). Son vecchi tutti i giorni — «veteres dies» (18) –, figli del tempo decrepito. Sembra il linguaggio di cui usano ed abusano gli esistenzialisti, ma solo un’interpretazione superficiale potrebbe indurre anche noi a parlare di “esistenzialismo” agostiniano.

Agostino non nega la “validità” del tempo né fa dell’esistere un “essere per la morte” e dell’uomo “la senrtinella del Nulla”. Il senso del suo discorso è ben diverso: son vecchi i giorni del peccato, cioè della creatura che rinnega Dio per eccessivo amore di sé, per orgoglio e cupidigia, convinta che sia essa il principio di se stessa, e che il senso e la fine della sua storia siano in se stessa e nel corso temporale. È questo il tempo della caducità, della vecchiaia, della morte, perché è il tempo trascinato dal pondus dell’amor sui, inchiodato al mondo, sospeso nel vuoto e attaccato al vuoto della sua contingenza che, in tal caso, è la sua vanit. In e da questo tempo tutto ciò che nasce è già morto perché morto è lo spirito che lo produce contro la sua natura e contro la verità. È il tempo perduto dello spirito perduto, il tempo della città terrestre, della sottomissione della libertà al peccato. ù

Ma se la nostra libertà sa riscattare se stessa nella luce della verità e amiamo in noi non noi ma Dio — e solo amando Dio, noi stessi — il pondus dell’amor Dei restaura il tempo nella sua positività e i giorni vecchi e passeggeri si tramutano tutti in nuovi e stabili. La caduta del tempo è la caduta della libertà nel peccato, il suo volontario recidersi dalla partecipazione all’eternità: il cadere del tempo è la rottura del vincolo creaturale, l’oblio che la vita temporale è l’avanzare verso l’Eterno, il vero futuro dello spirito e non verso la morte: il fine della vita non è  la fine di essa, ma il trascendere la sua fine temporale nel fine extratemporale. Ed è anche qui il fine della storia, la finalità del tempo che passa e passando si raccoglie nella coscienza, che avanza verso il futuro  e avanzando si progetta verso un futuro non storico.

Ma vi è questa positività solo se il tempo non si stacca dall’eternità, la scientia dalla sapientia, l’uomo da Dio, solo se l’amore di sé si tramuta in amore di Dio, in cui la creatura compie se stessa e la sua storia.

IV.  I DUA AMORI E LE DUE CITTA’

I due tempi, a questo punto, non sono più due, l’uno contro l’altro, dall’altro separato e negato in una opposizione esclusiva, ma sono due momenti dialettici di un solo tempo, in questo senso: è contro il tempo della vita il tempo della superbia che si chiude in se stessa e in sé presume trovare il suo principio e il suo fine – assolutezza della storia -: questo tempo si pone contro se stesso, l’uomo contro la sua profonda interiore natura e perciò si autonega nel nulla; ma non è più il tempo della morte quello della nostra vita temporale, anche restando transeunte e destinato alla fine, se esso non si stacca dalla partecipazione nell’eternità, se l’uomo non si rifiuta alla verità interiore illuminante e alla Grazia che, se vuole, può raggiungerlo. In questo caso, il tempo che passa, non passa: è presente nella nostra coscienza raccolta verso il suo futuro. È sempre tempo “giovane”, anche nella vecchiaia più vecchia, perché è andare verso la giovinezza e la vita il cammino verso la Grazia che viene incontro ed attira.

Non si tratta di negare il tempo nell’eternità o l’eternità nel tempo, ma di riconoscere che la storia di ogni singolo e dell’umanità si svolge secondo il principio dell’ordine metafisico della partecipazione del tempo all’eternità, dell’uomo a Dio, della storia stessa al Valore che la fa essere e positivamente essere, se essa è durata nel valore per il Valore. È la storia nuova e sempre nuova dell’uomo nuovo, l’uomo di Cristo.

Il conflitto mortale dell’antinomia dei due amori e dei due tempi all’interno dell’uomo e della storia si compone non nella esclusione o negazione o risoluzione di uno di essi, ma nella sintesi tra la positività del tempo e dell’amore che ogni creatura deve al suo essere che è da Dio e la positività eminente dell’amore per Dio e della Eternità, la sola che dia positività al tempo e alla storia; perché tutto è stato creato dall’Eterno. Le rovine e le devastazioni del tempo, se la sapienza vi soffia dentro, sono i monumenti insigni degli uomini, che scrivono la loro storia e la storia, ascoltando dentro la parola divina e pronunziandola ogni qual volta pensano ed operano: parola umana e divina la storia del tempo che volgendosi alla eternità si riconquista come tempo di valore e di quell’amore che amando Dio si salva in Dio stesso come creatura. L’ostilità dell’uomo con se stesso, la divisione tra i due amori, si compone in amicizia dell’uomo con se stesso e nell’armonia dell’unico amore, che se è amore di Dio è anche amore di sé.

Allo stesso modo, se il tempo è il tempo per l’eternità, non è il tempo del silenzio e della morte, ma quello della parola immortale che è ogni opera umana di valore e della vita verso cui lo conduce lo scorrere sull’ala della verità, scorrere che è durare nel proprio essere per l’Essere. Dio ha costituito il genere umano come un sol uomo (19): i due tempi e i due amori si ritrovano dunque anche nella storia dell’umanità. Siccome, a causa del peccato, vi sono gli uomini che amano se stessi fino al disprezzo di Dio e non sanno amare, come quelli rinnovati dalla sapienza, Dio fino al disprezzo di se stessi, così come vi sono due uomini, vi sono due Città. La stessa dialettica che governa la storia di ogni singolo uomo governa quella della societas umana. È ancora il principio dell’interiorità che è fondamento anche della storia dei popoli, che non è divisa esteriormente per età, secoli, ecc., ma secondo i due amori e i due tempi. Il mistero che è il dramma dell’uomo è il mistero del grande dramma della storia umana; identica è la soluzione.

Da Adamo e da Cristo, dal peccato e dalla Grazia, dal tempo della morte e dal tempo della vita: questa l’origine delle due Città, questi i momenti secondo cui coesistono e secondo cui si svolge la trama umana-divina, storica e superstorica della storia universa: o verso Dio o verso se stessa contro la sua finalità. La storia del mondo è la storia del conflitto tra due amori o meglio il tramutarsi di uno di essi, quello per se stessi, in odio dell’altro (20). Progenitori delle due città Caino e Abele: la città terrena è nemica della celeste fino a darle la morte: quel fraticidio, nato dalla discordia dei due amori, si ripete nei secoli: aversio da Dio e conversio in Dio: questo il duplice movimento di tutta la storia profana e sacra.

Gli imperi assiro e romano (Babilonia e Roma), i grandi segni della città terrena; Gerusalemme, il divino segno della città celeste. Attraverso l’ostilità dei “terrestri” passa la città di Dio nel mondo, incrollabile: soffre nella sua Chiesa. La condanna e la beatitudine eterna aspettano i cittadini dell’una e dell’altra, nel giorno in cui la città di Dio sarà separata per sempre dalla terrena. Babilonia, Roma e Gerusalemme non sono che simboli o figure del processo storico universale delle due città.

V.  LIBERTA’ E TEMPO

Ma questa storia sapienziale è filosofia o teologia della storia? È l’uno e l’altro: è valida la conoscenza umana, a è insufficiente a cogliere il senso profondo e l’intelligibilità ultima della storia, come l’uomo, senza la Rivelazione, non avrebbe mai penetrato le sue profondità. L’interiorità dell’uomo è sua ed è umana la sua conoscenza, ma proprio questa conoscenza, nella sua positività, lo apre, dall’interno del suo movimento, alla trascendenza e alla Rivelazione. Così è dell’interiorità della storia: il suo corso universo rivela un piano divino; la sua intelligibilità si compie con l’accettazione dei dati della Rivelazione. La sapienza rivelata illumina la scienza umana e l’una e l’altra si ritrovano unitariamente nella sapienza mistica, che è l’esperienza che il lume umano fa del lume divino trascendente, vita della sua stessa vita. La città celeste, la sancta Civitas Dei, è societas, comunità di gioia e gioia della comunità santa, costruita sull’amore di Dio: è essa, l’esemplare, che potenzia ed eleva la nostra conoscenza della città di Dio, pellegrina in terra, mescolata alla città terrena e per essa sofferente, ma in essa agente per la salute di altri cittadini sino al Sabato del compimento.

Nel determinare il concetto di storia Agostino non si è fermato a considerare il puro processo storico, ma ha indagato sull’intelligibilità ultima della storia eterna. Per il primo compito basta la scienza umana, ma, dopo averlo assolto, non si è ancora risolto il problema totale della storia totale. Questo problema ne implica altri due, quello dell’inizio e l’altro del fine, la cui soluzione – e solo essa — può dare la piena intelligibilità della storia. Sul fondamento del Cristianesimo, Agostino pone come inizio la creazione e come fine un fine ultrastorico, a cui l’umanità è orientata. Creazione ed escatologia, ma non come due dati — la creazione all’inizio, ieri e l’escatologia alla fine, domani fra cui si svolgono il processo e il progresso storico, ma come due presenze dinamiche operanti all’interno del processo stesso: è oggi e nell’oggi di ogni creatura e dell’umanità globale la creazione, com’è di oggi e in ogni oggi la fine dei tempi, anche se la creazione è stata all’inizio e la fine sarà in ultimo. Creazione e fine sono sempre contemporanee al processo e al progresso storico: la creazione iniziale si continua nel processo e io sabato finale è incominciato nel processo stesso: tra inizio, svolgimento e fine vi è una continuità ideale e reale. Ma anche lo svolgimento della storia per se stesso, per essere inteso nelle sue profondità, richiede l’ausilio della Rivelazione ed infatti solo il principio peccato-grazia ne illumina il fondo.

Il concorso della teologia, dunque, è necessario per l’intelligibilità ultima della storia degli uomini e di quella di ogni singolo, il più umile e reietto come per l’episodio più splendente. Intellegibilità dunque teologica, ma dell’ordine storico, che è temporale e razionale: però proprio per la sua razionalità implica una discendenza dall’eterno e dal divino. Non autosufficienza dall’uomo e dalla storia né negazione dei valori umani e storici; semplicemente dipendenza e vincolo dinamico fra il terreno e l’ultraterreno, l’umano e il divino, il temporale e l’eterno. La dialettica storica è anche dialettica teologica: secolarizzare la seconda, che è assolutizzare la prima, come han fatto Hegel e lo storicismo, è negare la storia e perdere il senso dell’uomo e della storicità. La “scienza” della storia ha il suo compimento nella “sapienza”: il temporale contingente, che non è pienezza di essere, ma è essere, esiste in quanto ha avuto l’esistenza dall’Essere. L’ordine temporale dipende dall’ordine eterno, che penetra nella storia, pur trascendendola, e permea la vicenda terrena di ogni creatura e della creazione intera. Perciò il temporale è segno e vestigio dell’eterno: «Ut signum, id est, quasi vestigium aeternitatis tempus appareat» [“affinchè il tempo appaia un segno, ossia un’orma — per così dire — dell’eternità”] (21).ì

Tutto è contenuto nella sapienza di Dio, luce della nostra poca scienza.

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(*) Questo saggio di Michele Federico Sciacca (1908-1975) è stato pubblicato in anni ormai lontani nei Quaderni della cattedra agostiniana dell’Università di Genova con il titolo Interpretazione del concetto di storia di s. Agostino (Edizioni Agostiniane, Tolentino [Macerata] 1960). La traduzione delle citazioni dalle diverse opere di sant’Agostino, che l’Autore riporta dall’originale della Patristica Latina (PL), è quella dall’edizione maurina confrontato con il Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, contenuta nella Nuova Biblioteca Agostiniana, nel sito web https://www.augustinus.it ; i numeri dei libri

1) Omnem creaturam habere initium; tempusque ipsum creaturam esse, ac per hoc ipsum habere initium, nec coeternum esse Creatori» [“(…) ogni creatura ha un inizio e (…) il tempo stesso è una creatura e perciò ha un inizio e non è coeterno al Creatore”] (La Genesi alla lettera. Libro incompiuto, 3, 8); «Deus enim fecit et tempora: et ideo antequam faceret tempora, non erant tempora» [“Dio (…) creò i tempi e perciò, prima che creasse i tempi, i tempi non esistevano”] (La Genesi difesa contro i manichei, 1, 2, 3).

2) Cfr. Le confessioni, 1, 6, 10.

3) Per questo aspetto del problema cfr. la esposizione critica di [Mons.] Giuseppe Amari [vescovo di Verona; 1916-2004], in Il concetto di storia in S. Agostino, Edizioni Paoline, Roma 1950, ampiamente documentata.

4) Le confessioni, XI, 27, 36. Per questa parte cfr. tutto il libro X.

5) Ibid XI, 20, 26

6) «[…] hoc in tota vita hominis, cuius partes sunt omnes actiones hominis hoc in toto saeculo filiorum hominum cuius partes sunt omnes vitae hominum» [“(…) per l’intera vita dell’uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell’uomo, e infine per l’intera storia dei figli degli uomini, di cui sono parti tutte le vite degli uomini”] (ibid., XI, 28,38)

7) Esposizioni sul Salmo XXV, 13, 12,

8) Cfr. soprattutto i libri XII-XIII de La Trinità

9) Cfr. ibid., XIII, 4.

10) Come è noto, l’Agostino di Cassiciaco [Cassago Brianza (Lecco)] fa della storia un ausilio della grammatica e dell’erudizione letteraria, l’Agostino posteriore, sotto l’influenza preponderante del cristianesimo sulla cultura classica, fa della storia stessa una disciplina a sé, strumento dell’esegesi e dell’apologetica. Il vero concetto agostiniano di storia non è né il primo, né il secondo, non è quello della storia come “strumento della verità” e nemmeno l’altro della “verità della storia”.

11) Le confessioni, XIII, 7, 8.

12) Cfr. Commento alla Lettera di san Giovanni, 123, 5.

13) Esposizioni sul Salmo LVII, 16

14) La città di Dio, XX, 3.

15) Cfr. «Quo magis celeriter crescunt, ut sint, eo magis festinant, ut non sint» [“(…)quanto più rapida è la loro crescita verso l’essere, tanto più frettolosa è la loro corsa verso il non essere”] (Le confessioni, IV, 10)

16) Cfr. Esposizioni sul Salmo XXXVIII, 9.

17) Cfr. «Quoniam, quidquid temporis vivitur, de spatio videndi demiur; et cotidie fit minus minusque quod restant, ut omnino nihil sit aliud tempus vitae huius, quam cursus ad mortem, in quo nemo vel paululum stare vel aliquanto tardius ire permittitur» [“Tutto il tempo che si vive si defalca dalla dimensione del vivere e ogni giorno diviene sempre meno quel  che rimane. In definitiva il tempo in questa vita non è altro che una corsa alla morte, perché a nessuno è concesso di soffermarvisi un tantino o camminare più lentamente”] (La città di Dio, XIII, 10).

18) Esposizioni sul Salmo XXXVIII, 9

19) Cfr. «[…] Cum totum genus humanum tamquam unum hominem constitueris» [“puoi considerare tutto il genere umanocome un solo uomo” (Ottantatrè questioni diverse, 58, nGiovanni Battista).

20) «Fecerunt itaque civitates duas amores duo; terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, coelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui. Denique illa in se ipsa, haec in Domino gloriatur. Illa enim quaerit ab hominibus gloriam: huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria» [“Due amori dunque diedero origine a due città, alla terrena l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, alla celeste l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé. Inoltre quella sia gloria in sé questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio a testimone della coscienza”] (La città di Dio, XIV, 28).

21) La Genesi alla lettera. Libro incompiuto, 13, 38.

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