In tutt’Italia si riscontrano ordinanze di incostituzionalità riguardo ai provvedimenti adottati contro persone immigrate illegalmente e che non hanno ottemperato alle disposizioni di legge. Una sollevazione che risponde a un disegno ideologico
di Alfredo Mantovano
Zamfir non ha ottemperato a tale ordine e per questo, intercettato dalle forze di polizia nel Veronese il 6 aprile 2005, è stato arrestato, processato e condannato dal tribunale di Verona a otto mesi di reclusione. Il reato a lui contestato è quello previsto dall’articolo 14, comma 5 del testo unico sull’immigrazione, che stabilisce – per chi si rende responsabile di una condotta come quella da lui in concreto realizzata – una pena il cui limite minimo e il cui limite massimo sono stati aumentati: nel 2004 il Parlamento ha trasformato l’originaria contravvenzione punita con l’arresto da sei mesi a un anno in un delitto punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Il 4 ottobre 2005 è chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, in secondo grado, la terza sezione della Corte di appello di Venezia, mentre l’imputato da tempo è stato scarcerato. È una vicenda semplice, che non richiede particolari approfondimenti, né sul piano della ricostruzione del fatto, né sul piano giuridico.
Ma i giudici dell’appello sospendono il processo d’ufficio (cioè senza che vi sia una iniziativa delle parti, e in particolare del difensore) e trasmettono gli atti alla Corte costituzionale: ritengono infatti che la legge, poiché prevede una sanzione a loro avviso eccessiva rispetto all’entità del fatto concreto, si pone in contrasto con i principi di proporzionalità e di ragionevolezza e col fine rieducativo della pena. Fin qui nulla di particolare: è più che normale chiamare in causa la Consulta per provocare il vaglio di costituzionalità su una disposizione che si ritiene illegittima.
È la motivazione dell’ordinanza che merita attenzione: dopo aver rivolto al legislatore l’addebito di aver piegato «il diritto penale sostanziale alle esigenze di quello processuale», «ponendo entrambi a sostegno dell’attività di polizia, con una inversione dei piani e dei ruoli istituzionali», la Corte di appello veneziana afferma: «il comportamento di chi non osserva l’ordine impartito dalla pubblica autorità, nella tradizione giuridica del nostro Paese, è stato a volte sanzionato solo in via amministrativa […]; ma, in questo caso, sin dai tempi del codice Rocco, questo reato è stato sempre configurato quale fattispecie contravvenzionale […]; ed è significativo che perfino il legislatore del 1938, per sanzionare gli stranieri ebrei “inottemperanti” all’ordine di lasciare il paese dopo la promulgazione delle leggi razziali, non si fosse allontanato da questa tradizione, limitandosi a prevedere una nuova ipotesi di contravvenzione, sempre punita con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda». […]
Ostilità programmatica
È un provvedimento isolato o è uno dei tanti sintomi della deliberata e programmata ostilità nei confronti della legge “Bossi-Fini”? Viene da chiederselo, di fronte alla quantità di ordinanze promosse dai giudici di merito contro tale legge, neanche lontanamente paragonabili con quelle che hanno interessato le disposizioni, non così distanti nella formulazione, della “Turco-Napolitano” – la legge sull’immigrazione approvata dalla maggioranza di centrosinistra nella XIII legislatura –, e soprattutto di fronte alla teorizzata (da esponenti significativi del mondo giudiziario) opposizione alla politica dell’immigrazione seguita dal Governo di centrodestra.
Senza passare in rassegna la miriade di interventi sui mass media di giudici di vario grado e di varia funzione, è interessante ed emblematico riprendere un passaggio della relazione con la quale il dott. Claudio Castelli, segretario generale di Magistratura democratica, ha aperto i lavori del xiv Congresso nazionale di questo raggruppamento della magistratura associata, a Roma, il 23 gennaio 2003, appena cinque mesi dopo l’entrata in vigore della “Bossi-Fini”.
Il giudizio del vertice di Md su tale riforma e sull’azione dell’Esecutivo nel suo insieme ha i caratteri della inappellabilità: «l’operato del governo e della maggioranza parlamentare usciti dalle elezioni del 13 maggio 2001 costituisce un salto di qualità negativo». Per questo, dopo aver iniziato a dipingere a tinte fosche il quadro dell’Italia berlusconiana, in cui le «grandi opere», per fare un esempio fra i tanti, corrispondono ineluttabilmente a «una formidabile occasione per la criminalità organizzata e le imprese ad essa legate», il dott. Castelli arriva al punto: «la legge Bossi-Fini, portato di pregiudizi razzisti, spinte securitarie e parole d’ordine tanto demagogiche quanto inidonee a governare un fenomeno sociale imponente […] non condurrà ad un governo giusto ed efficace dei fenomeni migratori, ma comporterà un’ampia e profonda compressione dei diritti fondamentali dei migranti; non raggiungerà gli scopi dichiarati e, in particolare, non ridurrà l’area dell’immigrazione irregolare […]».
Giova poco soffermarsi sul merito delle singole affermazioni: la previsione – non soggetta a discussione per quanto è perentoria – dell’ampliamento dell’estensione della clandestinità, quale esito ineluttabile delle nuove norme, viene pronunciata dal segretario di Md mentre in tutta Italia è in corso la più grande regolarizzazione (regolarizzazione, non sanatoria) mai realizzata, che consente – nel giro di appena un anno – di far emergere dal “nero”, nel quale erano confinati dalle politiche dei governi precedenti, 650.000 extracomunitari, irregolari ma impegnati in lavori onesti: a ciascuno di loro viene garantito un contratto di lavoro, l’assistenza sanitaria e contributiva, e il permesso di soggiorno, in un quadro di sicurezza, in virtù della identificazione certa di ogni straniero, perseguita con i rilievi fotodattiloscopici.
Giova di più sottolineare che per Claudio Castelli la legge “Bossi-Fini” si basa su “pregiudizi razzisti”: una valutazione pesante, inaccettabile e infondata, ma al tempo stesso una conferma della parola d’ordine da diffondere a proposito del nuovo intervento legislativo che, proprio perché “razzista”, merita solo di essere boicottato. E quale strumento più efficace dell’ordinanza di illegittimità costituzionale ha il giudice per paralizzare l’applicazione della norma? È comunque un mezzo idoneo a contrastare le scelte politiche di una maggioranza sgradita. […]
600 latitanti di troppo
A scanso di equivoci. Non sostengo la tesi secondo cui le decisioni ostili alla nuova legge sull’immigrazione costituiscano sempre e ovunque la traduzione obbligata di input di correnti dell’Associazione nazionale magistrati; tento solo di indicare il contesto politico, di politica in senso lato e di politica giudiziaria, che fa da sfondo a quelle decisioni, e inevitabilmente le condiziona.
Tutto ciò segnala un problema serio: quello di comprendere se e fino a che punto il governo dell’immigrazione, la cui responsabilità compete a un esecutivo che anche su questo ha raccolto i consensi degli elettori, possa essere, in tutto o in parte, ostacolato dalla teorizzata e programmata ideologica ostilità alle scelte normative effettuate.
Non sono evidentemente in discussione passaggi fortemente polemici di una relazione congressuale, pur se gravi e offensivi in sé. È in discussione anche la quantità dell’intervento giudiziario sulla “Bossi-Fini”: il blocco del procedimento col rinvio al giudizio di legittimità della Consulta ha interessato, nei tre anni circa che vanno dall’entrata in vigore della nuova legge (settembre 2002) al termine del 2005, ben 617 giudizi, cui corrispondono altrettante ordinanze di costituzionalità.
Con tutto il rispetto per lo scrupolo e per l’approfondimento, c’è mai stata altra legge che in un tempo così circoscritto ha meritato tante attenzioni critiche? È solo un caso o è una dinamica che risente di scelte culturali, e politiche in senso lato, interne alla magistratura? Con la mole di questioni sollevate, come si fa a non ritenere che – come è accaduto per tante decisioni giudiziarie riguardanti il terrorismo di matrice islamica – anche sul versante dell’immigrazione l’ideologia recita una parte non marginale?
Basta scorrere l’elenco delle questioni sollevate per avere conferma. Sono state impugnate dai giudici di merito non solo disposizioni di maggior rigore sul piano della effettività delle espulsioni dei clandestini, ma perfino le norme che disciplinano l’ingresso regolare, e che collegano il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro: si tratta di norme in linea con gli orientamenti affermati negli ultimi tre anni in sede di Unione Europea.
E, poiché la Consulta si è espressa finora, con pronunce di limitata e parziale incostituzionalità, solo con cinque sentenze, in tutti gli altri casi il risultato concreto è stato non già l’invocata sanzione di illegittimità, bensì la più circoscritta vanificazione della legge sull’immigrazione nel procedimento nel quale è stata sollevata la questione di illegittimità; non si è ottenuto che la norma cassata fosse dichiarata incostituzionale, ma che nel caso specifico la “Bossi-Fini” non fosse applicata. Proviamo a moltiplicare questa singola vanificazione per 617, e il risultato diventa di una certa consistenza.
Per avere un’idea di ciò che è accaduto nella gran parte dei casi, se il giudizio di merito in corso (per riprendere un caso concreto più volte riscontrato) ha riguardato la convalida dell’accompagnamento alla frontiera di uno straniero cui sia stata applicata la pena con sentenza di patteggiamento, e il giudicante ha ritenuto incostituzionale che tale tipo di sentenza motivi l’espulsione, di fatto, nel tempo necessario perché la Corte costituzionale dichiari inammissibile o non fondata la questione sollevata, il clandestino ha circolato liberamente, e altrettanto liberamente ha potuto dileguarsi.
Non si tratta di fare le pulci alle singole ordinanze di merito sollevate dai vari giudicanti; si tratta piuttosto di porre il problema del blocco realizzato per via giudiziaria all’applicazione di una legge dello Stato, in una materia di singolare importanza per la sicurezza nazionale. Un blocco che non sempre e non da per tutto è il frutto di scelte ideologiche; ma che, per quanto fin qui riassunto, non può considerarsi estraneo a tali opzioni.