Ogni individuo dovrebbe dire la frase di Luigi XIV: “Lo Stato sono io” (R. Jhering)
Sul piano più strettamente giuridico, il principio di sussidiarietà contiene una duplice valenza: esso indica sia un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato, formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali (sussidiarietà verticale).
In quest’ultima accezione si lega a una prospettiva federalistica in un’ottica per cui la rottura di un potere centralizzato è vista come essenziale all’affermazione di una democrazia che individua nella “prossimità” dei governanti ai governati un bene primario.
Anche in questo significato esso è indice di una tendenza antistatalista e anticentralista. Affermare, infatti, che i livelli di governo superiori necessitano di una giustificazione, nel senso che il loro intervento è ammesso solo quando determina un incremento della qualità dei risultati, significa scalfire uno dei cardini dello statalismo, cioè che la decisione del legislatore non necessita di giustificazioni, essendo questo interprete, a priori, della “volontà generale”. Sussidiarietà verticale, invece, significa valutazione dello stato dei fatti, perseguimento di efficienza, valorizzazione di iniziative decentrate, federalismo fiscale, moltiplicazione dei centri decisionali.
Tutto ciò potrebbe – non c’è dubbio – moltiplicare gli arbitri, ma può costituire – se rettamente inteso e se adeguatamente verificato nei suoi momenti attuativi – un’occasione importante di ripensamento delle formule classiche di gestione della cosa pubblica.
Detto questo, tuttavia, è sulla prima valenza, che peraltro ne costituisce il significato originario, che vale la pena di insistere, in quanto essa appare da un lato quella meno conosciuta e dall’altro quella nei cui confronti si riscontrano le maggiori resistenze ideologiche.
Nel suo significato di sussidiarietà orizzontale questo principio, affermando che lo Stato interviene solo quando l’autonomia della società risulti inefficace, si contrappone all’idea di una “cittadinanza di mera partecipazione” e promuove invece “una cittadinanza di azione” in cui è valorizzata la “genialità creativa dei singoli” e delle formazioni sociali. In questa sua valenza antistatalistica e antiassistenzialista non è tuttavia esauribile nell’ipotesi neoliberale dello Stato minimo.
Ciò in quanto mentre riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempo ne afferma la responsabilità sociale. In questo modo il principio di sussidiarietà dimostra di valorizzare la persona come protagonista della vita sociale, capace di rispondere, nella libera associazione con altri, a esigenze e bisogni della società.
Contestando il presupposto dello statalismo e non esaurendosi nella formula liberalista, non rappresenta nemmeno una formula di compromesso tra le due teorie, ma esprime una concezione originale. Detto principio, inoltre, respingendo il presupposto metafisico della “mano invisibile” che in modo ineffabile guiderebbe, secondo la filosofia liberale, la sublimazione dell’interesse egoistico nel bene comune, implica realisticamente la necessità – come esprime la derivazione etimologica subsidium – dell’intervento promozionale od ordinatore e coordinatore dello Stato a favore dell’incremento e dell’incentivazione di una cultura della responsabilità.
La Costituzione del 1948 e il favore per la sussidiarietà.
Nonostante nella Costituzione del 1948 il principio di sussidiarietà non risulti espressamente menzionato, a differenza di altri principi come quello di solidarietà o di eguaglianza, è tuttavia possibile ritenere, per un duplice ordine di motivi, che esso sia stato implicitamente tenuto presente dai Costituenti. Il primo dato che conferma questa ipotesi è rappresentato dalla coincidenza della concezione della persona che emerge dal quadro costituzionale con il presupposto antropologico sul quale il principio di sussidiarietà si fonda.
Nella Costituzione, infatti, la persona è vista nella concretezza del suo legame sociale e nella sua possibilità di apporto libero e creativo all’edificazione del bene comune: il valore della dignità umana è costantemente affermato e l’imputazione dei diritti è fatta all’individuo considerato nella concretezza del suo esistere, a un soggetto, cioè, che così come non è considerato (com’era invece nella finzione dello “stato di natura”) al di fuori della relazione sociale, tantomeno è sublimato nella dinamica organizzativa della persona statale.
Il secondo dato è inerente alla caratterizzazione in senso pluralistico, sia associativo che istituzionale, che consente di affermare come nella Carta del 1948 sia già implicitamente sancita la rottura del monopolio statale dell’interesse comunitario, in vista del riconoscimento ai soggetti del pluralismo del compito di perseguire gli obiettivi propri dell’intera collettività statale. Quello per cui al privato spetterebbe unicamente surrogare un pubblico carente (la cosiddetta supplenza del privato), alla luce di quanto appena osservato, dovrebbe essere stimato pertanto come un luogo comune superato dalla possibilità di concepire l’attività pubblica come integrativa di quella privata, considerata idealmente prioritaria.
All’interno di un’attività di programmazione, rivolta a creare un sistema di servizi mediante strutture pubbliche e private (rispondenti a requisiti tecnici e organizzativi prescritti dal legislatore e accertati mediante gli opportuni controlli) dovrebbe quindi risultare quasi indifferente che le strutture di servizio attuative del programma possano essere gestite dalle une o dalle altre, dovendo essere posto l’accento non tanto su chi gestisce le stesse, quanto sullo scopo obiettivo e sul risultato da raggiungere.
La resistenza ideologica al principio di sussidiarietà.
Benché da una lettura sistematica della Costituzione emerga un certo favore per la sussidiarietà, aprendo una qualsiasi enciclopedia giuridica tale voce nemmeno vi figura. Il dato è singolare ed evidenzia l’estraneità di tale principio alla nostra tradizione giuridica, ancora in larga parte sotto lo scacco di altre scelte di campo.
Il principio di sussidiarietà, infatti, è risultato un’idea disarmonica rispetto a una tradizione rivolta a considerare l’interesse statale non come la semplice sommatoria degli interessi individuali o delle varie comunità particolari, ma come un interesse affatto autonomo trascendente quelli particolari. Il retaggio delle elaborazioni hegeliane, in questo senso, costituisce un presupposto ancora altamente influente.
Proprio in forza del peso di questa eredità, inoltre, la rilevanza che la Costituzione assegna nell’art. 2 alle formazioni sociali non ha avuto modo di svilupparsi secondo l’originalità dell’aspirazione dei Costituenti. La cultura giuridica italiana è infatti in gran parte rimasta ferma su una concezione che tende ad appiattire la persona sul singolo e a considerare il riferimento alle formazioni sociali come un mera garanzia supplementare, come qualcosa di aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo in quanto tale.
È rimasto così svuotato di implicazione normativa il riconoscimento costituzionale per cui all’interno delle formazioni sociali si svolge la personalità individuale e, quindi, il coessenziale legame che giuridicamente viene formulato nell’art. 2 tra la dignità dell’individuo e la partecipazione a esse.
Le nuove forme del controllo statale sulla vita sociale.
Se quindi una pretesa totalizzante ha costituito il postulato incancellato della tradizione giuridica, largamente depotenziando quelle aperture che invece la Costituzione repubblicana favoriva, occorre anche avvertire come oggi questa stessa pretesa si trovi stretta da fenomeni nuovi, sovranazionali e nazionali, come la complessità crescente della società, la globalizzazione delle economie, la multietnicità, la forza e la concentrazione degli interessi economici.
Fenomeni, questi, che hanno minato quella presunta unicità: oggi la “crisi dello Stato” non è solo evidente nel processo di smobilitazione conseguente al “fallimento dello Stato”, ma si manifesta anche nel fallimento del miraggio del “controllo totale”, cioè del controllo diretto di ciò che è giuridico. Le pretese totalizzanti non sono però venute meno e il nuovo volto del Leviatano rischia di divenire più pervasivo di quello antico: significativamente, da qualche tempo, il mondo degli addetti ai lavori si interroga sul fenomeno della proliferazione incontrollata di nuove autorità – normalmente definite come indipendenti -, ma in realtà concepite come articolazione del potere pubblico, quasi una sorta di braccio secolare di questo, destinate a sovrintendere settori particolari della vita sociale o dell’ordinamento giuridico.
Queste autorità sono dotate di poteri amplissimi, in quanto, in deroga al tradizionale paradigma garantista della divisione tra potere normativo, esecutivo e giudiziario, emanano atti che sono, ad un tempo, regole, ordini e sentenze.
Molti giuristi hanno denunciato il problema di quale tutela dei diritti dei cittadini sia concretizzabile dinanzi agli atti di tali organismi di incerta natura e normalmente privi di una legittimazione democratica per lo meno adeguata al potere di cui dispongono. Il processo di costituzione di queste autorità è molto intenso: da quelle più vecchie come la Consob fino alle più recenti, come la potentissima Autorità garante della concorrenza e del mercato o la neocostituita Autorità per le Telecomunicazioni o, infine, l’Autorità garante per la tutela delle persone e del trattamento dei dati personali – meglio nota come Garante della privacy.
Se queste sono le più note, ve ne sono poi moltissime altre, meno conosciute, ma non meno importanti come la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge 12/6/1990 (cosiddetta Autorità per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali), la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione (AIPA), l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, l’Autorità per la regolazione dei servizi di pubblica utilità nel settore del gas e dei servizi elettrici, ecc.
Alle autorità si affiancano poi le agenzie: si pensi, ad esempio, all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente.
Sebbene la fioritura di queste autorità non possa essere considerato un male in sé, dal momento che alcune tendono a porsi come garanti di valori e interessi fondamentali, è altresì evidente come nel complesso il fenomeno sia un inquietante e significativo sintomo di un crescente tentativo di controllo della vita sociale, realizzato attraverso la costituzione di appositi poteri pubblici.
Il deficit di democraticità che in ogni caso si deve accusare in questo nuovo volto del potere pubblico ripropone la domanda se la via maestra non possa essere un’altra: quella di ripensare globalmente ciò che lo Stato deve realmente fare e quello che, invece, deve riconoscere e incentivare secondo appunto un principio di sussidiarietà.
La sussidiarietà come “principio costituzionale” dell’Unione Europea
Lasciato nell’oblio per moltissimi anni, il principio di sussidiarietà entra prepotentemente sulla scena del diritto europeo con il Trattato di Maastricht in cui, all’art. 3b, viene sancito tra i principi cardine dell’Unione Europea che “la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati a livello comunitario“.
Nessun altro documento costituzionale europeo conosce una definizione così esplicita del principio, benché esso non sia del tutto nuovo per il diritto: la Costituzione tedesca, infatti, lo mette a presiedere il riparto delle competenze legislative tra Federazione e Stati membri, e l’Atto Unico lo afferma al momento di dotare la Comunità di poteri di intervento nel settore della tutela ambientale.
La portata di queste norme è comunque pur sempre parziale, riguardando solo i rapporti tra livello di governo e certe specifiche materie; lo stesso Trattato di Maastricht lo riferisce unicamente a certe competenze, quelle cosiddette “ripartite”, essendo palese che per quelle esclusive vige invece il monopolio di intervento in capo agli organi comunitari. Di conseguenza, se da un lato è da considerarsi in modo positivo il fatto che il principio in esame sia stato recepito anche dai documenti che presiedono all’organizzazione politica continentale, dall’altro lato non viene meno la necessità di considerare con criticità tale recepimento, criticità che si sostanzia nella tensione ad affermare che, rettamente inteso, il principio di sussidiarietà, come già si è ricordato, mantiene una portata ben più vasta e radicale.
La codificazione a livello europeo, in ogni caso, ha dato origine a un ampio dibattito sul significato e sulla rilevanza del medesimo. Molti sono gli studiosi e gli uomini politici che ne hanno una visione ristretta, quasi si trattasse di un “non principio”, cui attribuire di volta in volta il significato che è più consono agli scopi politici contingenti.
Vi sono, però, posizioni più interessanti che hanno della sussidiarietà una visione onnicomprensiva e radicale, comprendente sia i rapporti tra i diversi livelli di governo sia le relazioni tra realtà pubblica e iniziativa dei privati e delle loro aggregazioni. Tali concezioni mettono in relazione la sussidiarietà verticale con altre norme del Trattato di Maastricht, e in particolare quelle che ne affermano – almeno implicitamente la dimensione orizzontale (ad esempio l’affermazione che richiama la necessità di costruire una “Europa dei cittadini”).
Pregevole è pure il tentativo in atto in Europa di elaborare dei criteri specifici e sufficientemente precisi che consentano la verifica in sede giudiziale del rispetto del principio. La giustiziabilità, infatti, è stata finora praticamente inesistente per il dogma della presunta “bontà” degli interventi legislativi sopra richiamato.
Ora invece il Trattato di Amsterdam ha tra i suoi allegati proprio un documento che elabora dei “criteri” in base ai quali fare valutazioni degli interventi legislativi e sottoporre quindi i medesimi a controlli anchegiurisdizionali. Se questo si realizzerà, come è auspicabile, allora verrà meno uno degli ostacoli che si frappongono a realizzare in concreto la sussidiarietà, che è dato appunto dall’inesistenza di istanze di controllo preposte alla verifica della sua attuazione. Il principio di sussidiarietà nel dibattito sulla riforma costituzionale.
Una precisazione importante.
Il dibattito in seno alla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali si è orientato per l’espressa previsione nel progetto di Costituzione del principio di sussidiarietà. A differenza di quanto sostenuto da molti giuristi, per i quali questa intenzione concretizzerebbe un’indebita scorribanda nella prima parte del testo della Costituzione – rispetto alla quale la riforma non può intervenire -, quanto detto in precedenza consente invece di sostenere come questa previsione si ponga in ideale continuità con quanto in essa è già implicitamente stabilito.
Le alterne vicende della sussidiarietà.
Ripercorrendo brevemente l’iter della discussione, si deve rilevare come l’iniziale valenza con cui il principio è stato recepito faceva riferimento alla sola accezione relativa alla distribuzione del potere pubblico tra centro e periferia (sussidiarietà verticale) senza menzione del significato originario e più peculiare del principio (sussidiarietà orizzontale).
La più ampia accezione del principio è entrata successivamente nel dibattito costituente dapprima come istanza avanzata dai rappresentati del Forum del terzo settore nel corso di un’audizione in Commissione, e, quindi, a seguito della presentazione di tre emendamenti dal contenuto sostanzialmente analogo, provenienti, in modo trasversale, sia da esponenti della maggioranza parlamentare che dell’opposizione. Il dibattito in relazione alle diverse accezioni, estensive o restrittive, del principio è continuato in modo piuttosto vivace vedendo contrapposte da un lato Rifondazione comunista, Verdi, Ulivo e Sinistra democratica e, dall’altro, Partito Popolare e Forza Italia.
La posizione restrittiva discendeva dalla preoccupazione di una possibile sottrazione dell’esercizio delle funzioni pubbliche allo Stato, soprattutto in materia di scuola e di sanità, in quanto – si è osservato – dal punto di vista economico l’iniziativa privata potrebbe essere da questi gestita meglio. In altre parole il timore derivava dal fatto che stabilendo in Costituzione una preminenza automatica tra pubblico e privato, a parità di condizioni il primo avrebbe dovuto comunque cedere al secondo.
La proposta di mediazione proveniente dagli assertori della sussidiarietà orizzontale nei confronti dei sostenitori dell’opzione restrittiva è stata quindi nel senso di limitarne l’ambito di applicazione all’ipotesi in cui le funzioni interessate non possano più essere adeguatamente svolte dall’autonomia dei privati, intendendo così sottolineare che, in un’eventuale comparazione tra pubblico e privato, il primo non dovesse essere penalizzato e che, laddove esistesse per il pubblico la possibilità di svolgere adeguatamente e in modo conforme ai criteri di adeguatezza, di efficacia e di efficienza una determinata funzione, ciò dovesse essere consentito.
Il testo così modificato è stato quindi approvato dalla Commissione con il voto contrario di Rifondazione comunista, l’astensione della Lega e del Pds, e con l’accordo raggiunto tra Polo e Partito popolare. L’art. 56, quindi, prevedeva che: “le funzioni che non possono essere più adeguatamente svolte dall’autonomia dei privati sono ripartite tra le comunità locali, organizzate in Comuni, Province, Regioni e Stato, in base al principio di sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali riconosciute dalla legge.
La titolarietà delle funzioni spetta agli enti più vicini agli interessi dei cittadini secondo il criterio di omogeneità e adeguatezza delle funzioni organizzative rispetto alle funzioni medesime”. Nel corso del dibattito, tuttavia, il testo è stato ulteriormente modificato e il principio di sussidiarietà è stato praticamente rovesciato.
Nel testo approvato il 24 settembre 1997 l’art. 56 risultava così modificato: “Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei privati, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni, Stato, sulla base di sussidiarietà e differenziazione.
La titolarietà delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province, Regioni e Stato, secondo i criteri di omogeneità e adeguatezza”. È stato così introdotto un principio di sussidiarietà rovesciata, potenzialmente in contrasto con la valorizzazione della persona umana considerata come soggetto idoneo a svolgere attività di rilievo pubblico e, quindi, tale da limitare fin dall’origine i poteri degli enti politici, locali, regionali o nazionali. Questo preoccupante travaglio del principio di sussidiarietà – negato, poi concesso, e infine rovesciato – denota la mancanza di una chiara cognizione del suo significato e della sua rilevanza.
Nell’ultima formulazione l’intervento degli enti non profit è destinato a essere configurato come meramente integrativo di quello statale, così come nella formulazione precedente esso risultava formulato nel senso di accogliere indifferentemente la prospettiva “comunitaristica” propria delle origini storiche del principio e quella “individualistica”, tipica invece di una concezione neoliberista del sistema economico.
Spetterà, quindi, alle assemblee chiamate ad approvare il progetto esaminato rimuovere ogni incertezza al riguardo riconsiderando il ruolo del potere pubblico in campo sociale conformemente alla fine del monopolio statale dell’interesse comunitario e giungere a una formulazione del principio che lo riporti nel suo campo d’azione più tradizionale rivolto alla valorizzazione del privato che svolge attività di interesse pubblico (cosiddetto privato sociale).
In questa direzione sembra muoversi il recente emendamento proposto dall’Onorevole Guarino che si dimostra efficace nel conciliare la ripresa di un ruolo sussidiario del potere pubblico nei riguardi della capacità individuale e collettiva in campo sociale con le istanze di una sussidiarietà verticale avanzate dagli enti territoriali. Secondo la proposta il primo comma dell’art. 56 risulterebbe così formulato: “Lo Stato, le Regioni, le Province e i Comuni esercitano le funzioni ad essi attribuite, in conformità alle finalità di interesse generale previste dalla Costituzione e in maniera proporzionata all’obbligo di volta in volta perseguito, quando il conseguimento di tali finalità non può essere adeguatamente assicurato dall’autonomia dei privati, anche attraverso le formazioni sociali.
La titolarietà delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province, Regioni e Stato in base a principi di sussidiarietà e differenziazione e secondo criteri di omogeneità e ragionevolezza. La legge garantisce le autonomie funzionali”. L’unica perplessità, anche in vista delle possibili distorsioni interpretative, riguarda l’espressione “titolarietà delle funzioni pubbliche” contenuta nella seconda parte dell’articolo, sarebbe stato preferibile, infatti, parlare di “ripartizione delle competenze”.