Chic è stata (e sarà) l’Europa a spirito medioevale
Il pensiero medievale riconosceva l’esistenza del male e poneva delle distinzioni fra lo spirito e la materia, fra la mente e il corpo
di Jacob Giovanna
Il pensiero medievale riconosceva l’esistenza del male e poneva delle distinzioni fra lo spirito e la materia, fra la mente e il corpo. Il pensiero moderno invece riduce il male ad effetto collaterale di disfunzioni sociali, non riconosce allo spirito nessun diritto di esistenza e riduce la mente ad appendice del corpo. A queste due diverse concezioni, medievale e moderna, non possono che corrispondere due diverse visioni della società e dell’economia.
In termini medievali la società è mossa dall’insieme delle volontà dei suoi membri a somiglianza di come il corpo è mosso dal pensiero. Se le volontà sono buone l’economia va bene e il benessere si diffonde fra tutte le classi sociali, se le volontà sono cattive l’economia va male e il benessere rimane privilegio di pochi (passi l’eccessiva semplificazione).La buona salute di una economia non dipende unicamente dall’abbondanza delle risorse a disposizione, e viceversa la cattiva salute non dipende unicamente dalla penuria, perché gli uomini possono impiegare bene poche risorse, facendole fruttare, o viceversa sciuparne di grandi.
Allo stesso modo un uomo di bassa estrazione sociale può trarre immensi utili da un’attività fortunata nella quale all’inizio investe un capitale modesto, magari avuto in prestito da una banca, mentre un uomo che proviene da una famiglia ricca può diventare povero dilapidando in fretta immense ricchezze. La concezione moderna della morale e dell’economia è pressoché opposta a quella medievale e tomista.
Se in termini medievali è il pensiero degli uomini a formare l’economia, in termini moderni, ossia marxisti, è l’economia a formare il pensiero degli uomini. La morale, la religione, la cultura e l’arte sono “sovrastruttura” dei rapporti economici: quanto più l’economia è prospera ed equa, tanto più evoluta sarà la “sovrastruttura”.
Nello specifico, è il benessere a rendere l’uomo democratico, liberale, tollerante, non violento. Esattamente questo ha detto di recente Umberto Galimberti: «democrazia di per sé è una parola vuota, un sottoprodotto dell’economia, quando la gente sta bene è democratica, quando sta male si scanna. Noi siamo democratici perché siamo ricchi, se fossimo poveri non lo saremmo».
Galimberti parlava dei popoli arabi, che a suo parere starebbero male a causa dell’Occidente che «consuma l’87% delle risorse del mondo» e guarda ai paesi arabi «con l’occhio di chi intende accaparrarsi le loro ricchezze» (U. Galimberti, “Noi e l’Islam. Che cosa ci divide?”, D la repubblica delle donne, 31/5/03).
Prima di esaminare la questione dell’Occidente che deprederebbe l’intero orbe terracqueo, alcune considerazioni sulla democrazia. Se è vera l’equazione benessere = democrazia, gli individui antidemocratici che vivono nei paesi poveri dovrebbero diventare automaticamente democratici nel momento in cui si sistemano nei paesi ricchi.
Che i conti non tornino l’ha imparato a sue spese l’intellettuale cattolico Jean Claude Barreau, ripetutamente minacciato di morte dai cittadini musulmani di una delle più grandi potenze industriali del mondo, la Francia, perché nel suo libro De l’Islam en général et du monde moderne en particulier (pubblicato nel 1991) si è permesso di consigliare loro la piena adesione ai valori repubblicani.
Questo aneddoto insegna che non è la società del benessere a creare individui democratici e tolleranti, ma che al contrario potrebbero essere gli individui antidemocratici e intolleranti a rendere antidemocratica e intollerante la società del benessere. Trasformandola in una specie di Arabia Saudita in cui gli opulenti centri commerciali convivono tranquillamente con la polizia per «la promozione della virtù e la repressione del vizio». Che sia questo il futuro dell’Europa?
Sembra che neppure il benestante popolo saudita, divenuto improvvisamente bersaglio di Al Qaeda, covi il desiderio di liberarsi di un regime liberticida che, nella sostanza, è assolutamente coerente con la visione del mondo propugnata da Al Qaeda: «Riforme? E quali?
L’Arabia Saudita è una società tribale, non siamo ancora pronti alle elezioni, se è questo che vuole suggerire», diceva all’intervistatore di Repubblica Torki Al-Sudairi, direttore del giornale saudita Al Riyadh, dopo avere manifestato tutto il suo odio per bin Laden (E. Piervincenzi, “I tre kamikaze di Gedda preparavano un 11 settembre”, Repubblica, 22/5/03).
Non bastasse, laddove nei paesi arabi libere elezioni ci sono state, i risultati sono stati molto poco rassicuranti. «Ogni volta che c’è stato un tentativo del popolo per raggiungere la democrazia – dice Ali Abu Shwaima, presidente del Centro Islamico di Milano e Lombardia, intervistato da Galimberti (ivi) – le grandi potenze, corrompendo gli eserciti, hanno organizzato colpi di Stato per instaurare dittature. (…) Guardiamo all’Algeria: quando il popolo algerino ha voluto portare avanti un sistema democratico, scegliendo i propri rappresentanti, subito c’è stato un colpo di Stato appoggiato dall’Occidente».
E così «il partito che ha preso il 70% dei voti, per i mass media occidentali era diventato un partito fondamentalista». Con buona pace del signor Shwaima, quel partito fondamentalista lo era veramente. E con buona pace di tutti, la democrazia di per sé, senza il supporto di una cultura adeguata, potrebbe anche mandare al potere Hitler o Osama bin Laden. Quest’ultimo è ben visto dal 71% dei palestinesi, dal 58% degli indonesiani, dal 55% dei giordani, dal 49% dei marocchini, dal 45% dei pakistani (cfr. R. Casadei, “Osama for president”, Tempi, 18/6/03).
E veniamo alla questione dell’Occidente che deprederebbe l’intero orbe terracqueo giustificando il terrorismo dei depredati. «Se Osama Bin Laden fosse con noi – dice un intervistatore di Repubblica ripetendo la lezione di Galimberti – direbbe certamente che in questo villaggio globale creato dalla mondializzazione non c’è democrazia per i “diseredati”. E che in ogni caso i rapporti di forze li penalizzano a un punto tale da non lasciar loro altra risorsa al di fuori della violenza, anche terroristica».
Jean François Revel, membro dell’Académie Française pure insignito della Legion d’Onore, smonta questo luogo comune in due parole: «Se anche lo dicesse avrebbe torto, innanzitutto perché alcuni dei paesi arabi sono tra i più ricchi del mondo; in secondo luogo perché gli avversari della globalizzazione sbagliano in pieno quando affermano che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Fanno confusione fra due cose diverse: l’approfondimento del fossato tra ricchi e poveri e l’impoverimento dei più indigenti. Se raddoppiano sia i redditi di Bill Gates che i miei, il divario tra noi sarà maggiore, ma non per questo sarò diventato meno ricco. In questi ultimi 40 anni, in America latina e in Asia il livello di vita è considerevolmente aumentato; e se l’Africa subsahariana è sinistrata, le ragioni sono politiche più che economiche. L’Africa riceve 4-5 volte più aiuti dell’America latina e dell’Asia, ma tutti questi aiuti scompaiono, vengono dilapidati o rubati» (in B. Guetta, “Vincere la paura del mondo”, Repubblica, 13/10/01).
Bisogna solo aggiungere che il famoso 87% delle risorse l’Occidente non lo ruba agli altri, ma lo produce (verità politicamente scorretta che il missionario Piero Gheddo è quasi il solo a proclamare: cfr. R. Casadei, “La prima povertà è non riconoscere Cristo”, Tempi, 30/8/00). E noi che ragioniamo ancora come san Tommaso d’Aquino, sappiamo che questa capacità produttiva ha un fondamento spirituale, cioè una mentalità, una cultura, un insieme di valori. La democrazia non è un sottoprodotto dell’economia ma esattamente il contrario.
L’Occidente non è democratico perché è benestante, ma è benestante perché è democratico. L’insieme dei valori occidentali fa bene all’economia perché fa bene all’uomo, e un uomo contento lavora meglio. E dove li ha imparati l’Occidente i valori occidentali se non alla scuola del Cristianesimo? “No!”, esclama Galimberti, il cristianesimo c’entra poco con i valori occidentali, che vengono tutti dalla Grecia, ed è addirittura incompatibile col progresso economico.
«Come conciliare l’etica della moderazione, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia caratterizzata da un’economia di sussistenza, con l’opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo dei beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro moderazione) è un fattore economico, e dove la gratificazione dei desideri, quando non dei vizi è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti?» (U. Galimberti, risposta ai lettori, D 19/7/03).
Se il Medioevo è stato l’epoca più cristiana della storia, ebbene è difficile parlare di economia di sussistenza di fronte ai ricchi commerci e all’artigianato di livello superiore, spesso di lusso, dei comuni italiani. I lucchesi avviavano in Europa la produzione della costosissima seta, i milanesi si specializzavano in armi e corazze, i veneziani rivendevano in tutta Europa il cotone e lo zucchero acquistati in Oriente, i fiorentini facevano concorrenza alle Fiandre nella produzione e nella rifinitura dei cosiddetti pannilana.
La cattolicissima Firenze di Dante Alighieri e del dolcestilnuovo era diventata talmente ricca, col suo artigianato e i suoi commerci, che le banche fiorentine potevano permettersi di prestare al re d’Inghilterra Filippo III tanti soldi (mai restituiti) quanti ne servirono per iniziare la guerra dei cent’anni contro la Francia.
L’epoca feudale invece si era distinta per le intense opere di bonifica e colonizzazione delle terre boschive e paludose. E all’origine di tanta laboriosità c’è senza dubbio il cristianesimo. Erano stati i monaci ad insegnare all’Occidente che il lavoro non è un fastidio da consegnare agli schiavi (merce molto ricercata in tutte le civiltà tranne che in quella cristiana) ma un dovere che nobilita l’uomo, il complemento necessario della preghiera (“Ora et labora”).
E il frutto del lavoro, cioè la ricchezza, non è il male assoluto come pensano i comunisti e i catto-comunisti. La ricchezza è male solo se usata male. Gli uomini dei comuni la usavano bene: per aiutare i poveri (nei registri di contabilità delle ditte medievali si trova segnato un socio speciale: “Messer Domineddio”, i cui utili finivano in opere pie) e per l’arte.
Ve lo immaginate voi che perdita per milioni di turisti contemporanei se nel Medioevo le Arti di Firenze non si fossero date tanto da fare a produrre il “plusvalore” necessario all’edificazione di S. Maria del Fiore o S. Croce e tutto il resto che attira sguardi ammirati perfino dal Sol Levante?