Dal Nostro Inviato A Verona Mimmo Muolo
Si scrive tradizione. E i più la leggono come passato. «Una storia gloriosa da conservare devotamente e archeologicamente» o tutt’al più «qualcosa da aggiornare e superare in virtù dell’idea di un continuo progresso». Per Costantino Esposito, invece, la parola tradizione è sinonimo di presente. E come tale il docente di storia della filosofia dell’Università di Bari l’ha presentata ai convegnisti, introducendo i lavori del quarto ambito. Quello dedicato, appunto, alla tradizione.
«Oggi si fa molta fatica a comprendere la tradizione come vita. Essa non riguarda semplicemente il nostro passato, ma costituisce una vera e propria dimensione del presente. Del resto possiamo sperimentarlo tutti i giorni. Le nostre azioni, il nostro modo di vivere, la nostra stessa identità dipendono da ciò che abbiamo ricevuto, dall’educazione, dalla famiglia. Noi siamo una storia, siamo fatti di questo passato che continua ad orientarci e a segnare la direzione da cui proveniamo e quella verso cui andiamo».
E ciò vale anche per la fede cristiana?
«Direi che vale soprattutto per la fede cristiana. Altrimenti il rischio è quello di un cristianesimo senza Cristo, una storia gloriosa che non dice nulla al presente e che finisce per farci sbilanciare nell’immaginazione e nella progettazione di quello che ancora non c’è e che ancora non siamo. Ma quando si parte da un vuoto, e non da una presenza, in realtà si arriva all’idea – oggi sempre più condivisa – che in fondo non vi sia nulla per cui valga la pena di vivere».
Eppure qualcuno dice che oggi c’è troppo presente, a scapito della memoria e del progetto.
«Questo succede quando si vive la propria vita come una serie di esperienze senza senso. La tradizione, invece, è incontro che avviene nel presente. Incontro con la persona di Cristo attraverso coloro che ne hanno fatto esperienza e possono testimoniarlo. In questo senso la tradizione non è mai una trasmissione di valori o di nozioni astratte, ma è essa stessa testimonianza, quasi un’osmosi da persona a persona, tra un uomo che ha già sperimentato la fede e un altro uomo che decide di seguirlo. In altri termini è un comunicare se stessi e più precisamente un modo diverso di giudicare la realtà, coinvolgendosi con essa in maniera nuova».
È questo che San Pietro vuole dire, nella sua Lettera, quando raccomanda di rendere ragione della speranza?
«Esattamente. Il deposito della fede è qualcosa che ci perviene e che noi siamo chiamati a verificare criticamente, nel senso etimologico del termine: non denigrare, ma vagliare. È come se Cristo stesso e la Chiesa si consegnassero a ogni generazione, a ogni uomo, perché verifichino se effettivamente rispondono alle esigenze della loro vita. Certo, il Vangelo è immutabile, ma senza questa consegna, senza questa tradizione che permette l’accoglienza si ridurrebbe a ideologia. La tradizione cristiana attende di essere messa sempre di nuovo alla prova, di essere verificata. Il che non vuol dire affatto ripetuta, ma vissuta e quindi, come accade in ogni rapporto integralmente umano, anche modificata nelle sue forme, corretta in alcune direzioni, arricchita sempre di possibili novità».
Qualcuno sostiene che proprio la nostra tradizione sarebbe un ostacolo al dialogo con chi proviene da tradizioni diverse. Lei che cosa pensa al riguardo?
«Penso che, invece, solo andando al fondo della coscienza di sé si può incontrare veramente l’altro. Guai se, per un malinteso senso del dialogo, riducessimo il cristianesimo a un’indistinta e confusa religiosità o a un fideismo sentimentale. Il dialogo scadrebbe a mera tolleranza e la tolleranza porta sempre con sé il germe della violenza. Per cui anche in questo senso la tradizione ci dà una mano, in quanto ci rende disponibili ad accogliere nuovamente ciò che ci ha reso – e ci rende tuttora – quello che siamo».