Abstract: la tragedia del Libano, un paese che muore. Una serie di corrispondenze dal Paese dei Cedri, ridotto allo stremo dalle sanzioni, dalla devastante esplosione che ha devastato il porto e parte della capitale e ancora una volta sull’orlo della guerra civile con gran parte della popolazione ridotta in povertà e dove si muore anche per le malattie più banali
Reportage dal Libano,
il paese che non ha pane per vivere
Elettricità solo due ore al giorno, molti mendicanti, tanta disperazione. Parlano mons. Jules Boutros e il deputato Mehlem Khalaf
di Rodolfo Casadei
Grazie al sostegno di Orizzonti e di Romagna Solidale l’inviato di Tempi Rodolfo Casadei si trova in Libano. Qui trovate la prima delle sue corrispondenze per il sito, che lasciamo aperta alla lettura anche dei non abbonati. Il reportage completo potrà essere letto sul prossimo numero di Tempi mensile
Beirut – È una strana povertà quella del Libano entrato nel terzo anno di una crisi sistemica che investe finanza, economia e politica. Le statistiche raccontano un paese dove nel giro di due anni la popolazione in condizioni di povertà relativa è passata dal 40 all’80 per cento, dove a causa dell’iperinflazione che ha portato via il 95 per cento del suo valore alla moneta nazionale metà delle persone che lavorano ora devono accontentarsi di stipendi equivalenti a 36-90 dollari al mese, mentre le banche ostacolano in tutti i modi i prelievi dei risparmi dai conti correnti bancari, dove i carburanti costano sedici volte di più di due anni fa, e il gas per la casa 40 volte in più.
Eppure chi arriva a Beirut di sera incontra il solito traffico caotico e senza tregua che la accomuna alle altre capitali mediorientali, e migliaia di finestre illuminate, per non parlare dei pannelli giganti della pubblicità. Basta però scendere dall’automobile e fare due passi per le vie di qualsiasi quartiere, o sdraiarsi sul letto della propria stanza in qualunque struttura di ospitalità, per udire ovunque un ronzio sordo e ininterrotto: quello dei generatori diesel di quartiere, pagati dai privati cittadini a privati gestori, per avere quelle ore di corrente elettrica che normalmente vanno dalle 6.30 della mattina a mezzanotte. Perché la Società elettrica nazionale non garantisce più che una-due ore al giorno di energia dalla rete, e subito fuori Beirut nemmeno quella.
Appena fuori dal ristorante
Se si entra nel quartiere cristiano di Gemmaizeh, famoso per il mix architettonico, le botteghe artigiane e i locali di tendenza, si resta colpiti dalla vivacità della vita notturna, fra le vetrine ben illuminate e ben fornite e auto di passaggio di ogni cilindrata; si notano locali molto frequentati o addirittura senza tavoli liberi. Ma basta avvicinarsi, osservare i frequentatori, ascoltare i loro discorsi che passano senza soluzione di continuità dall’inglese all’arabo al francese, per rendersi conto che si tratta nella grande maggioranza di espatriati (operatori di Ong, turisti, studenti stranieri) o di libanesi della diaspora, che fanno la spola fra l’Europa e il Libano.
Basta uscire dal ristorante e ci si imbatte nei mendicanti che non sono più rappresentati solo dai profughi siriani (fra un milione e un milione e mezzo, specialisti degli incroci con semaforo e dei cavalcavia, sotto i quali si sistemano anche con pile di materassi che vengono sparpagliati a terra la sera) o da invalidi civili locali, ma da quella signora cinquantenne, pantaloni e decente maglia a maniche corte, che fuori da una trattoria cerca di raccontare le disgrazie sanitarie della sua famiglia e chiede un’offerta in denaro a chi ha appena cenato.
Ong e agenzie di cooperazione
Alla luce del giorno stupisce scoprire che i quartieri devastati dall’esplosione del porto dell’agosto 2019 – Gemmaizeh, Mar Mikhail, Achrafieh – hanno avuto tutte le case e i palazzi restaurati o addirittura ricostruiti, persino le case disabitate hanno riavuto i vetri alle finestre. Resta spettrale e privo di qualunque segno di ricostruzione, gli uffici su 20 piani trasformati in centinaia di occhiaie vuote che guardano sia il mare verso l’esterno che il quartiere verso l’interno, il palazzo dell’Electricité du Liban, sede centrale della società pubblica che dovrebbe fornire l’energia elettrica al paese.
E allora il mistero comincia a svelarsi: Gemmaizeh e le altre aree danneggiate di Beirut sono state ricostruite grazie alla solidarietà internazionale che ha operato attraverso Ong e agenzie di cooperazione dei vari paesi, e alla solidarietà della diaspora libanese, che ha finanziato la ricostruzione e l’installazione di migliaia di pannelli solari che complementano l’energia prodotta dai generatori.
Soldi dall’estero
Quella diaspora che ufficialmente invia a casa 6 miliardi di dollari all’anno, cifra che nel 2019 era pari al 16 per cento del Prodotto interno lordo, ma che l’anno scorso equivaleva a un terzo, e alla fine di quest’anno ancora di più. Cifra probabilmente sottostimata.
Insomma, il Libano sopravvive grazie al lavoro di chi è andato all’estero e all’ingegno di chi è rimasto in patria. Spesso controvoglia: secondo l’ultimo rapporto sulle tendenze migratorie nei paesi di lingua araba, il 48 per cento dei libanesi (che sono circa 4,5 milioni, poi ci sono altri 2 milioni e passa di abitanti costituiti da profughi siriani, palestinesi e stranieri di varia provenienza) desidera emigrare. Fra il 2017 e la fine del 2021 secondo le statistiche ufficiali 215.653 libanesi hanno abbandonato il Paese, cioè quasi il 5 per cento di chi ha la cittadinanza.
Il vescovo cattolico più giovane al mondo
«Non posso dire ai nostri giovani, alle nostre famiglie: “Non emigrate!”. Gli uomini non sono alberi, a volte non trovano nutrimento sufficiente lì dove sono nati, e allora si spostano nel mondo», dice mons. Jules Boutros, da maggio vescovo siro-cattolico di curia del patriarcato di Antiochia. Coi suoi 39 anni Boutros è attualmente il vescovo più giovane del mondo cattolico, e la pastorale giovanile è da sempre il suo campo di azione preferito. È responsabile della pastorale universitaria e dei movimenti laicali.
Nei mesi successivi all’esplosione nel porto di Beirut ha guidato squadre di giovani che partecipavano ai soccorsi, visitavano le famiglie, censivano i bisogni e cercavano di soddisfarli. «A chi parte raccomando di vivere la chiamata alla santità là dove andrà. Tanti emigrano pensando di cambiare in meglio la propria vita grazie al fatto che dove vanno c’è sempre l’elettricità, si trova un lavoro e i salari sono decenti.
Tutto questo dà sicurezza, ma non dà gioia: dopo un po’ sentiranno il peso della solitudine. Io dico a questi giovani: l’uomo è creato per servire Dio, solo in questo trova la sua gioia. Lì dove andate non dovete essere solo una buona manodopera, dei professionisti efficienti, dovete essere dei missionari! I paesi dove andate hanno bisogno della nostra fede più ancora che della nostra manodopera, hanno bisogno dell’ardore di Cristo che è nei nostri cuori».
«Per tenere viva la fede e la missionarietà dei nostri emigrati in questi anni li ho visitati nei paesi dove emigrano: in Olanda, Belgio, Francia, Italia, Germania, Svezia, Turchia, ecc. L’etimologia originaria della parola “diaspora” è “seminagione”. È un’immagine di vita, l’immagine di piante che crescono e danno frutto. Ma bisogna aiutarli con la vicinanza perché non cadano nella trappola delle false libertà dei paesi in cui emigrano. Perché non finiscano come il Figliol prodigo».
«Lo Stato è paralizzato»
«Ho vergogna di me stesso di essere deputato, e di non poter soddisfare i miei connazionali che chiedono il pane per vivere, le medicine per curarsi, il latte in polvere per i loro bambini che vanno a cercare fino a Dubai, l’elettricità per lavorare, la possibilità di prelevare i loro risparmi. Lo Stato è paralizzato, in via di decomposizione, e le nostre voci in parlamento non vengono ascoltate, siamo stati esclusi dalle presidenze di tutte le 17 Commissioni parlamentari».
Siamo nello studio di Mehlem Khalaf, avvocato di fama, già presidente dell’Ordine, e da qualche mese deputato del parlamento nazionale, nel quartiere di Badaro; all’angolo della via una coda di una ventina di persone attende di poter entrare nella Blom Bank, uno dei tanti istituti di credito che da mesi esasperano i depositanti impedendo loro di prelevare somme significative dai loro conti correnti bancari. Si entra solo su appuntamento, un paio di persone alla volta: in questi mesi si sono succeduti casi di correntisti che hanno minacciato di usare la forza o di suicidarsi nei locali delle banche che rifiutavano di permettere loro prelievi e operazioni.
Sistema di potere
In realtà Mehlem Khalaf è uno dei deputati che meno dovrebbero vergognarsi della situazione di crisi: è stato eletto per la prima volta alle ultime elezioni, è un esponente della società civile interconfessionale che è scesa in piazza nell’ottobre del 2019 per protestare contro il malgoverno giunto all’apice, fa parte del gruppo delle Forze per il Cambiamento, un gruppo di parlamentari eletti fuori dalle logiche partitiche confessionali, che sotto il mantello del governo di unità nazionale hanno impoverito il paese.
«Democrazia consensuale, governo di unità nazionale o di coesione nazionale, sono gli slogan dietro a cui in questi anni si è creato un sistema di potere basato sul raccordo fra esponenti dei partiti che dicono di rappresentare e proteggere la propria comunità religiosa di riferimento, ma che in realtà si sono spartiti le spoglie del paese, soprattutto attraverso appalti gonfiati e pilotati di opere pubbliche e di servizi pubblici affidati a privati di loro gradimento. In questo paese la corruzione è sia verticale che orizzontale, anche i cittadini comuni sono costretti a diventare corruttori per ottenere licenze e permessi che altrimenti verrebbero loro negati o ritardati enormemente».
I 3 miliardi del Fmi
Nonostante l’insofferenza generalizzata dei libanesi per il mondo politico tradizionale, gli esponenti delle Forze del Cambiamento hanno portato a casa solo 13 seggi sui 120 a disposizione. Hezbollah e Amal, le Forze Libanesi, il partito del presidente Aoun e quello druso dei Jumblatt continuano a restare sulla breccia.
«Colpa di una legge elettorale e di un disegno dei collegi che premia le forze confessionali, regionali, clientelari e punisce le novità politiche. I nostri candidati hanno raccolto più di un quarto di tutti i voti espressi, ma solo un decimo dei seggi».
Con tutto questo, da maggio scorso non è stato formato nessun nuovo governo e quello uscente continua ad amministrare; il 31 ottobre scade il termine utile per eleggere il nuovo capo dello Stato, dopodiché in caso di mancata elezione la carica resterà vacante. Niente di buono per un paese chiamato a riformare il suo sistema finanziario se vuole ottenere i 3 miliardi di dollari di prestiti del Fondo monetario internazionale che soli possono dare ossigeno al sistema ed evitare che imploda da un momento all’altro [1. continua].
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Tempi 28 Ottobre 2022
«Senza cristiani non c’è Libano»
Le difficoltà di convivenza nel paese in cui si vorrebbe “vivere insieme”. Ma dove solo i cristiani riescono a stare con tutti. Reportage da Beirut
di Rodolfo Casadei
Grazie al sostegno di Orizzonti e di Romagna Solidale l’inviato di Tempi Rodolfo Casadei si trova in Libano. Qui trovate la seconda delle sue corrispondenze per il sito, che lasciamo aperta alla lettura anche dei non abbonati. Il reportage completo potrà essere letto sul prossimo numero di Tempi mensile.
Beirut – La voce femminile secca e alterata risuona per tutto l’ufficio del giudice e ben oltre la porta di legno e vetro. La sequela di invettive e di lamentele culmina col più sanguinoso degli insulti: «Mio marito non è un vero uomo!». Il marito in questione, anzi l’ex marito, non muove un muscolo, impassibile e remissivo nel suo volto calmo e baffuto. Ha appena recitato la formula del divorzio, così come ha fatto quella che da questo momento è la sua ex moglie. Quando escono dalla sala addirittura le apre la porta e le cede il passo, benché lei non si sia affatto calmata.
Mohamed Nokkari, giudice del tribunale sunnita per le cause civili del quartiere di Tarik el Jadideh, è uomo di grande esperienza non solo giuridica ma anche psicologica e sociologica. «Il numero dei divorzi si è impennato in questi ultimi tre anni, a motivo della crisi economica e del confinamento a causa del Covid.
All’esasperazione per le lunghe convivenze forzate si è aggiunta l’incapacità finanziaria del marito di mantenere la famiglia, di pagare l’affitto e la scuola per i figli. Per avere meno spese le coppie si dividono tornando a vivere presso i rispettivi genitori, i rapporti si allentano e si arriva facilmente al divorzio. In precedenza c’era stata l’ondata dei divorzi per “infedeltà virtuale”, figli di Facebook e di Whatsapp: le persone sposate non sanno gestire le tentazioni informatiche, inviano messaggi compromettenti a uomini e donne che hanno conosciuto online, a volte filmati in cui si denudano, il coniuge lo scopre e chiede il divorzio.
Il primo storico forte aumento dei tassi di divorzio all’interno della comunità musulmana sunnita c’era stato quando le donne hanno cominciato a lavorare fuori di casa, a disporre di finanze proprie, a viaggiare sole».
Abbigliamento femminile in tribunale
Nokkari non è affatto un bigotto né un nostalgico del tempo andato. Interpretando al meglio lo spirito libanese del “vivere insieme”, è stato promotore congiuntamente ad esponenti cristiani e sciiti della ufficializzazione della festa dell’Annunciazione di Maria come festività nazionale islamo-cristiana il 25 marzo. Nel 2010 è stato insignito del premio Onu Sergio Vieira De Mello per il dialogo interreligioso.
È perfettamente consapevole delle dinamiche sociali in atto all’interno della comunità sunnita (che rappresenta fra il 27 e il 30 per cento della popolazione libanese), di cui è un sintomo l’abbigliamento delle donne che si rivolgono al suo tribunale: tutte le querelanti indossano l’hijab o altro velo, ma la maggior parte in maniera scorretta, lasciando scoperta parte della capigliatura; segno che abitualmente, nella vita quotidiana, non lo portano, ed è solo per rispetto della sede giudiziaria religiosa che quel giorno lo indossano.
Del resto è quello che si nota facendo due passi nel quartiere popolare, per niente sofisticato, di Tarek el Jadideh, sunnita quasi al cento per cento: donne velate e donne senza velo si equivalgono numericamente, e nessun niqab (velatura integrale che copre anche mani e volto) si intravvede all’orizzonte; un panorama ben diverso da quello del vicino Egitto. Del resto all’interno stesso del tribunale sciaraitico le cose non vanno come ci si potrebbe immaginare: nella successione delle udienze si fa notare una giovane avvocata stile pantera, tacchi alti, pantaloni e corpetto nero attillato, rossetto accentuato e capelli liberi e fluenti mesciati di biondo. E questo è un tribunale dove si applica la sharia alle cause civili… (matrimoni, eredità, successioni, ecc.).
Se lo Stato fosse laico…
«Il confessionalismo va abolito a livello politico e mantenuto a livello religioso», dice Nokkkari esprimendo il suo punto di vista. «Non ha più senso ripartire i posti di potere in base all’appartenenza religiosa, devono governare e amministrare i più capaci, solo le capacità individuali devono contare. In passato il confessionalismo politico aveva senso come soluzione per la salvaguardia delle comunità, ma oggi non più.
Deve restare il patrimonio religioso rappresentato dalle 18 diverse identità religiose, perché è la specificità del Libano. Io sono favorevole al mantenimento delle scuole e dei tribunali confessionali, ma con dei cambiamenti. Lo Stato dovrebbe farsi carico degli attuali tribunali sciaraitici e canonici, musulmani e cristiani, e affiancare al diritto di famiglia di cristiani e musulmani anche un diritto di famiglia strettamente civile per i non praticanti e per i non religiosi; le persone che intentano una causa dovrebbero essere poi libere di rivolgersi ai giudici del diritto sciaraitico o canonico, oppure a quelli del diritto civile non religioso.
Se lo Stato fosse interamente laico, ci sarebbe un pericolo di estinzione per le comunità più piccole. Io immagino un sistema intermedio fra lo Stato laico e il sistema confessionale attuale».
Sempre meno cristiani
Un’altra persona preoccupata di conservare l’identità religiosa nel mentre che si modernizza e si laicizza lo Stato, e con essa la specificità del Libano, è Fouad Abou Nader, presidente della Ong Nawraj, che ha come scopo sociale il mantenimento della presenza cristiana in Libano. Nader è stato niente meno che comandante in capo delle formazioni combattenti delle Forze Libanesi durante la guerra civile (1975-1990) fra il 1984 e il 1985; oggi si dedica anima e corpo all’obiettivo che nella sua visione solo può garantire la pace in Libano, e cioè la permanenza del più alto numero possibile di cristiani nel paese.
Mentre infatti al momento dell’indipendenza (1943) i cristiani costituivano la maggioranza assoluta della popolazione libanese (52 per cento), oggi la loro percentuale è variamente stimata fra il 30 e il 40 per cento del totale (non si tengono censimenti ufficiali delle affiliazioni religiose dal 1932!).
I cristiani vivono con tutti
«È importante – dice a Tempi – che il numero dei cristiani in Libano resti significativo perché senza cristiani non c’è Libano, cioè non ci sarebbe l’unico paese di questa parte del mondo che non ha una religione di Stato, dove cristiani e musulmani sono uguali davanti alla legge, dove non ci sono cittadini di seconda classe, l’unico al mondo dove cristiani e musulmani festeggiano insieme l’Annunciazione a Maria.
Oggi il grande problema politico del Medio Oriente è il conflitto fra sunniti e sciiti, che ricorda le guerre di religione europee. Noi cristiani siamo l’elemento di moderazione che può impedire a questo conflitto di precipitare. In Libano ci sono 1.611 villaggi, ma in nessuno di questi convivono sunniti e sciiti, oppure drusi e sciiti, oppure drusi e sunniti. Ma ci sono tanti villaggi dove i cristiani convivono coi sunniti, o con gli sciiti, o con i drusi. Noi siamo il ponte fra le diverse comunità religiose».
Per rendere convincente il suo ragionamento Nader fa l’esempio di una mediazione fra comunità religiose favorita da lui e da Nawraj. «Nel 2014 c’è stato un attacco di Daesh (lo Stato Islamico) proveniente dalla Siria nella zone di Arsal, nel nord-est del Libano, e 41 soldati libanesi sciiti sono stati presi in ostaggio dai terroristi, mentre 3 venivano uccisi immediatamente.
Per rappresaglia gli sciiti della regione hanno rapito un numero equivalente di sunniti, e hanno minacciato di trucidarli se succedeva qualcosa agli ostaggi sciiti. Noi abbiamo mobilitato il sindaco cristiano di Ras Baalbek, che ha contattato il sindaco sunnita di Arsal e il sindaco sciita della cittadina di Hermel e si è offerto di mediare uno scambio di prigionieri. La mediazione è andata a buon fine, e gli ostaggi delle due confessioni islamiche sono stati scambiati a Ras Baalbek e sono tornati a casa sani e salvi».
«Questa città sta perdendo la sua anima»
Un’altra personalità originale che vuole preservare la specificità libanese, su un piano diverso ma complementare a quelli di uomini come Mohamed Nokkari e Fouad Abou Nader, è Suheil Mneimneh, presidente della Beirut Heritage Society, una fondazione che ha per obiettivo la conservazione del patrimonio architettonico e culturale in senso lato della città di Beirut, con particolare attenzione alla musica e alla letteratura popolare, ai paesaggi urbani, agli edifici storici.
Organizzata in comitati, l’associazione organizza visite guidate di scolaresche nella città vecchia, allestisce mostre fotografiche, celebra anniversari, premia personalità viventi, commemora grandi figure trapassate, stampa libri come uno recentissimo, fotografico, sulle decine di sale cinematografiche di Beirut (ma anche di altre località libanesi) che hanno chiuso da tempo i battenti.
«Questa città sta perdendo la sua anima», spiega sconsolato. «La ricostruzione dopo la fine della guerra civile in gran parte non è stata rispettosa dell’identità di questa città, e non parlo di storia, ma di tessuto sociale.
Quando gli appartenenti alla generazione che ha vissuto la guerra civile visitano i quartieri ricostruiti da Solidere (la grande impresa edilizia legata al primo ministro Rafic Hariri – ndr) dove loro abitavano, dicono tutti: “Questa non è Beirut, questa è un’altra cosa, e noi non possiamo adattarci”. Non possiamo fermare la modernizzazione, ma questo non può avvenire a spese del tessuto sociale, a spese degli “heritages sites”, luoghi che meritano di essere trasmessi da una generazione all’altra.
Ci sono leggi che dovrebbero proteggere questo patrimonio, ma sono ritagliate su misura per gli interessi degli speculatori edilizi e dei loro protettori politici, oppure semplicemente non vengono applicate. Contro tutto questo noi ci battiamo, e la gente ci appoggia, come dimostra il successo dei video che pubblichiamo sul nostro canale Youtube. Perché senza eredità non c’è identità».
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Tempi 2 Novembre 2022
La tragedia del Libano, dove ormai si muore per malattie curabili
Il crollo del valore della moneta ha impoverito tutti, e tanti non hanno soldi neppure per il paracetamolo. Giudici fermi, medici in fuga, e un progetto di Pro Terra Sancta che prova a costruire qualcosa. Reportage
di Rodolfo Casadei
Cinque anni. Amir è morto a cinque anni per una questione che si poteva risolvere con 4 o 5 euro. Quattro o cinque euro, il costo di una confezione di tachipirina…
Ma quei soldi la sua famiglia non ce li aveva, e in Libano al giorno d’oggi non c’è pietà per nessuno. Stephanie ti guarda dritto negli occhi e la sua voce è un crescendo: «Gli è venuta la febbre, altissima. Hanno fatto il giro delle farmacie della loro zona, ma sono talmente mal ridotte che nessuna aveva il paracetamolo. Allora sono corsi all’ospedale.
Gli hanno detto: “Se non avete da pagare non possiamo darvi niente”. Il bambino ha avuto le convulsioni, è andato in coma e in poco tempo è morto. Come lui sono morte altre tre persone che erano nostri assistiti: non a causa della gravità della malattia, ma perché non si sono potute curare o perché non si sono potute ospedalizzare. Deve credermi: la gente in Libano sta morendo per malattie curabilissime!».
La goccia nel mare di Pro Terra Sancta in Libano
Stephanie, laurea in Farmacia, fa parte dell’équipe di Pro Terra Sancta (la Ong legata ai Francescani di Terra Santa) che da quasi un anno fornisce assistenza medica alle famiglie indigenti di Tripoli, la più povera fra le grandi città libanesi. Sono più di 1.500 gli adulti e i bambini che fino a oggi hanno ricevuto assistenza gratuita. Ma è una goccia nel mare.
«In Libano gli ospedali pubblici si occupano di chi non ha una copertura sanitaria, gli ospedali privati di chi ce l’ha. I primi sono un disastro, i secondi funzionano. Ma da quando è cominciata la crisi respingono anche i pazienti coperti dalla previdenza sociale, e chiedono il pagamento in dollari: 8 mila per un parto senza complicazioni, 20 mila per un’operazione al cuore. E li esigono in contanti!».
Padre Michel Abboud, carmelitano presidente della Caritas nazionale, conferma: «Ogni settimana ci arrivano notizie credibili di persone decedute soltanto perché non avevano i soldi per acquistare farmaci salvavita o perché gli ospedali li respingevano in quanto non potevano pagare ricovero e intervento. Nel recente passato i libanesi in posizione di lavoro dipendente andavano nelle cliniche private convenzionate, e la previdenza sociale a cui erano stati fatti i versamenti attraverso i prelievi in busta paga saldava il costo della prestazione.
Col crollo del 95 per cento del valore della lira libanese l’importo dei versamenti è diventato risibile, e di conseguenza la previdenza non è più in grado di rimborsare nulla. Allora gli ospedali esigono di essere pagati direttamente e anticipatamente da chi chiede la prestazione, ma costoro non hanno più soldi, perché il valore degli stipendi è crollato insieme a quello dei versamenti previdenziali! Gente che prima guadagnava l’equivalente di 1.500 dollari al mese, adesso in busta paga ne trova l’equivalente di 50. E deve affrontare le stesse spese di prima…».
È crollato anche il sistema giudiziario
Trovare riscontro a queste affermazioni è facilissimo: «Mio padre è un militare, ed è esattamente una di quelle persone che prima del crollo della lira guadagnavano 1.500 dollari: oggi si sono ridotti a 50 appena!», racconta Sally, una bella ragazza di 27 anni laureata in Legge che sta per sposarsi. «Io lavoro da due anni in uno studio di avvocati, e le nostre parcelle si sono disintegrate, perché ormai non si celebrano più processi.
I giudici erano persone che prima del tracollo finanziario guadagnavano 6 mila dollari al mese, e adesso ne vedono 200! Perciò non convocano più le udienze, perché si dedicano ad altre attività per poter sopravvivere. Lasciamo stare i soldi, pensi alle conseguenze giudiziarie e umane: i detenuti in attesa di giudizio restano in carcere, i permessi per le visite dei familiari ai detenuti o i provvedimenti per la concessione degli arresti domiciliari non vengono più disposti. E naturalmente gli avvocati non vengono più pagati».
Jimmy il geniaccio e i medici in fuga
I giudici non sono i soli pubblici ufficiali che hanno preso l’abitudine di marcar visita: a Beirut come nel resto del paese la polizia municipale è diventata quasi invisibile. Impegnati in doppi o tripli lavori per portare a casa l’indispensabile, i vigili urbani non si presentano al lavoro più di un giorno o due alla settimana. Nella capitale del Libano non si staccano più multe per divieto di sosta: dopo le proteste dell’ottobre 2019, i parchimetri sono stati divelti o manomessi e mai più aggiustati, i vigili sono quasi scomparsi dalle strade, gli abitanti di Beirut parcheggiano ovunque gratis e senza subire mai alcuna sanzione.
Jimmy è un geniaccio. A 27 anni lavora nella polizia militare e ha già preso o sta per prendere una serie impressionante di lauree e diplomi di alta qualificazione: patologia clinica forense, management dei grandi disastri, gestione degli esplosivi, psicologia clinica. Faceva parte di una delle équipes che hanno eseguito i rilievi dell’esplosione del porto di Beirut dell’agosto 2019, ma è stato allontanato perché considerato un ficcanaso (l’inchiesta è stata ostacolata e virtualmente insabbiata per le pressioni del partito Hezbollah).
«Mia madre ha una bottega di frutta e verdura che faceva profitti per 1.000 dollari al mese, adesso è tanto se arriva a 30. Io avevo uno stipendio da 1.300 dollari, che sono diventati 50. Abbiamo dovuto lasciare la casa nella capitale, che avevamo restaurato dopo i danni per l’esplosione del porto, e trasferirci in campagna. Io vorrei emigrare perché con le mie qualifiche potrei trovare lavoro all’estero, ma essendo militare non mi lasciano andare!». Chi invece se ne va dal paese sono medici e infermieri: lo scorso anno 5 mila dei 16 mila dottori iscritti all’Ordine sono emigrati, e le cifre che riguardano gli infermieri sembrano non essere molto diverse.
Il dilemma dei giovani: partire o restare in Libano?
«I giovani si trovano di fronte a un dilemma morale: partire e aiutare le loro famiglie dall’estero, col rischio di perdere le proprie radici, oppure restare e cercare di costruire qui qualcosa di nuovo, col rischio di fallire e di non potere più assicurare le condizioni della vita materiale a sé e ai propri cari», spiega mons. Mounir Khairallah, vescovo maronita di Batroun.
«Mio nipote ora ha 39 anni, è un ingegnere informatico. Otto anni fa è emigrato in Nigeria dove fra mille difficoltà ambientali ha messo da parte un tesoretto che ha trasferito sul suo conto corrente in una banca libanese, cambiando i dollari in lire per ottenere interessi migliori.
Quando è tornato, ha scoperto che il deposito aveva perso il 95 per cento del suo valore, e che in aggiunta c’erano problemi per i prelievi, a causa delle limitazioni che le banche di loro iniziativa hanno imposto. I sacrifici di un decennio di vita sono andati perduti, deve ripartire da zero. Doveva decidere se ripartire da zero in Libano o se ripartire da zero all’estero».
«Ci siamo parlati a lungo, e alla fine mi ha detto: “Zio, io voglio vivere e costruire qualcosa qui in Libano, le cose devono cambiare”. Il paese è pieno di giovani come lui, più giovani di lui, che stanno comportandosi in modo commovente: mentre prima erano i genitori ad aiutarli economicamente, ora sono loro che cercano di rendere meno dura la vita di loro padre e di loro madre.
Fanno sacrifici eroici per non pesare sui genitori. Alcuni di loro emigrano, con l’obiettivo di garantire un futuro migliore a se stessi e ai loro cari che restano in Libano, ai quali invieranno rimesse come emigranti. Io dico loro: “Andate, non esitate. Ma tornate, un giorno! Grazie al vostro aiuto da fuori qui comincerà una società nuova, con un sistema politico diverso e uno Stato più efficiente. Insieme, voi all’estero e noi qui, ce la faremo”».
Il progetto “Work in Progress” di Pro Terra Sancta
Intenzionati a restare sono i giovani e meno giovani che hanno preso parte al progetto in tre tappe per la microimprenditoria in Libano “Work in Progress”, promosso da Pro Terra Sancta.
Si sono presentati 100 candidati, ai quali è stata data la possibilità di frequentare un corso di sei settimane sui fondamentali del business e del management. Fra loro ne sono stati poi selezionati 30 che hanno dimostrato le migliori capacità imprenditoriali e che hanno avuto diritto al “coaching” indispensabile per mettere a punto il loro business plan (idea, piano finanziario e analisi di mercato) da parte di un gruppo di esperti italiani e libanesi.
Fra questi 30 verranno infine scelti i 5 progetti mertitevoli di diventare realtà da un comitato di imprenditori e accademici universitari di facoltà economico-finanziarie: i loro promotori riceveranno 5 mila euro a testa per avviare la loro startup.
Ma che ne sarà dei 25 perdenti, chiediamo a Peter Hayek, un giovane dirigente del team di Pro Terra Sancta, che ha lasciato un lavoro ben remunerato nell’ambito del merchandising per operare nel settore dell’umanitario?
«A causa della crisi tanti giovani e meno giovani sono caduti in depressione, si sono chiusi in casa, alcuni si sono suicidati: hanno visto il loro mondo quotidiano scomparire nel giro di poco tempo, il loro stile di vita normale diventare impossibile, amici e parenti che partivano per l’estero e li lasciavano soli. Il nostro progetto ha tirato fuori da casa e dal pozzo della depressione tanti che avevano perduto la fiducia in se stessi e nel prossimo.
Anche chi non vincerà il premio di 5 mila euro potrà cercare di realizzare il progetto che è stato aiutato a formulare in termini corretti; avrà comunque scoperto che esiste ancora la possibilità di relazionarsi ad altri e di fare leva sulle proprie personali qualità».
«Come definirei quello che stiamo facendo in questo periodo noi che partecipiamo a “Work in Progress”?», risponde Jimmy il geniaccio, il cui progetto per la creazione di orti urbani su balconi e terrazze è stato selezionato fra i 30 dell’ultima scrematura.
«Lo spettacolo delle fenici che risorgono dalla cenere». Non si fa in tempo a chiedere a Jimmy se ha letto Erodoto o Ovidio, perché sta già parlando col professor Paolo Fumagalli che insegna scienze bancarie, finanziarie e assicurative all’Università Cattolica di Milano. La fenice ha preso il volo (3.fine).
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Per conoscere il Libano