Pubblicato su Il Tempo del 26 novembre 1983
L’inizio d’una revisione nell’opera di Batoli
di Augusto Del Noce
Rispetto al fascismo del ventennio si è passati dalla polemica al giudizio storico, che necessariamente non può essere di parte, e che perciò non è né fascista né antifascista. Ma sembra che questo passaggio si sia arrestato davanti alle due date del 25 luglio e dell’8 settembre; rispetto alla cronaca dei fatti è stato scritto il possibile, ma l’interpretazione storica sinora è mancata.
Colmare questa lacuna, attenuando perciò sino al limite del possibile le passioni per collocarsi davanti alla prospettiva della storia, è stato l’intendimento di Domenico Bartoli in questo suo libro L’Italia si arrende. La tragedia dell’8 settembre 1943 (Editoriale Nuova, Milano, L. 16.000). Difficilmente chi lo accosta, riesce a interromperne la lettura, almeno questo è accaduto a me. Naturalmente, trattandosi di un’opera che è agli inizi di una revisione storica, l’ho letta come libro stimolante piuttosto che conclusivo; e dirò degli stimoli che ne ho ricevuto e del consenso con giudizi che divergono dall’opinione corrente.
«Triste cosa è sempre la disfatta del proprio Paese anche per chi non abbia accettato le ragioni e gli scopi della guerra; ma la sconfitta diventa ancora più pesante se i vinti sono costretti a invocare la protezione dei vincitori di fronte ai propri alleati, come accadde agli italiani dell’estate del ‘43», scrive Batoli (p. 70) definendo così perfettamente il primo aspetto della tragedia. La «protezione dei vincitori» aveva trasformato l’armistizio dell’8 settembre in un rovesciamento di fronte per cui l’Italia passava dalla parte di chi già allora appariva con pressoché assoluta certezza vincente.
Cortigiano della vittoria
Nelle grandi opere della nostra letteratura, da Dante in poi, ci sono due immagini dell’italiano, quella che lo richiama all’ideale che dovrebbe incarnare, di erede della maggiore tradizione occidentale di civiltà e di cultura, e quella che lamenta la sua condizione reale di “cortigiano della vittoria” quale che sia la parte vittoriosa. Sembrava che nell’estate del ’43 la seconda immagine avesse definitivamente prevalso.
Vengono in mente i versi scritti da Malaparte nel 949, che lo stesso Batoli riporta: «L’otto settembre è giorno memorando – volta la fronte all’invasor nefando – l’Italia con l’antico suo valore – alla vittoria guidò il vincitore – l’otto settembre è memorabil data: volte le spalle all’infausta alleata – già col ginocchio a terra – corremmo a vincere coi nostri nemici – arditamente quella stessa guerra – che avevamo già perso con gli amici».
Di quel Malaparte che di parte cambiò molte volte, non però per opportunismo, ma per uno spirito di contraddizione che lo spingeva a mettere in luce la parte di verità che i giudizi prevalenti, o gli ufficiali, riuscivano a occultare. Parziale, perciò, sempre; ma quella parte di verità che il suo discorso conteneva merita di essere discussa.
L’accusa di “tradimento” deve perciò essere affrontata, ed è quel che Batoli fa. La sua risposta mi sembra però indulgere talvolta troppo al modulo tradizionale: «Col nazismo la Germania si era collocata al di fuori della civiltà moderna. Non si poteva trattare con essa come un altro Paese occidentale dei nostri tempi. Non restava che tentare di ingannarla». (p. 219).
Mi pare che con ciò si dimentichi che chi si allea con un malfattore, quando la fortuna lo favorisce, e poi contribuisce al suo arresto quando le sorti cambiano, non cessa perciò di essere un traditore. Prescindiamo dal fatto che nessuno in Italia sapeva allora delle camere a gas e dei campi di sterminio; di quel genocidio premeditato che sarebbe stato indubbiamente ragione moralmente obbligante per rompere l’alleanza.
Ma fino alle battaglie perdute di Alamein e di Stalingrado, fino, insomma, al nuovo corso che prendeva la guerra, il consenso c’era stato; e non è certo difficile cercare gli atti di adesione dell’Asse, e le interpretazioni storiche che cercavano darne, di intellettuali che dopo l’8 settembre si presentarono come maestri di antifascismo; ed è da osservare che si trattava di atti molte volte non richiesti, e perciò a loro modo da considerare sinceri, spiegabili, ancor più che con ragioni interessate, con il fascino indiscutibile che esercita la tentazione di unificare “causa giusta” e “vittoria”.
So bene che si parla oggi del criptoantifascismo dei GUF o della rivista Primato; ma si tratta di leggende, per non dire di favole. Vano è cercare una causa morale nel rovesciamento delle alleanze; la ragione è una sola, la guerra perdita (col che non si vuol certo negare l’esistenza di una minoranza antifascista, ferma nel restar tale anche dopo un’eventuale trionfo nazista; ma la sua azione veniva del tutto neutralizzata e paralizzata, finché si vinceva, dai successi, argomento sentito dai più come decisivo).
Risparmiare nuovi lutti
E, tuttavia, non di “tradimento” si deve parlare, ma di “tragedia”. In quei primi di settembre del ’43 erano infatti possibili due ragionamenti in nessun modo mediabili. Il primo può venire così riassunto: quando la guerra si presenta come irrimediabilmente perduta, è dovere del Sovrano cercare di risparmiare al suo popolo nuovi lutti e nuove distruzioni; e perciò non continuare la guerra fino al momento della debellatio; e non importa se l’alleato, alla cui volontà è preciso dovere non essere subordinati, sia d’altro parere; occorre perciò cercare un’uscita dalla guerra che eviti, per quanto possibile, il rovesciamento di fronte.
E’ il giudizio cui si attenne con la più scrupolosa coerenza il re Vittorio Emanuele III, a cui molti precedenti errori possono essere imputati, ma non questo atteggiamento. E Batoli, che ha il merito di chiarirlo in maniera esemplare, riferisce, condividendolo, il giudizio del generale tedesco von Senger, il difensore di Cassino, secondo cui «Vittorio Emanuele ordinando di concludere l’armistizio fece quel che avrebbe dovuto fare come nella prima guerra mondiale, dopo Caporetto, quando invece aveva energicamente impersonato la volontà di resistenza e di ripresa» (p. 43).
La tesi della «fuga ignominiosa» è calunnia priva di alcun fondamento: era proprio invece il dovere del Sovrano a esigere la «fuga a Pescara» per la salvezza della continuità dello Stato. Quel dovere che può talvolta esigere da un re la morte eroica, può talvolta richiedere di salvarsi, magari nelle vesti del fuggiasco, e nel rischio di esser giudicato tale.
Rottura delle alleanze
E’ però da aggiungere che il re, pur agendo con una coerenza che deve oggi non esser più messa in discussione, e per una sincera devozione alla causa del suo popolo, si atteneva ad una concezione tradizionale della guerra e delle alleanze, quella per cui «la pace separata» era concepibile; ma nell’impostazione della guerra comune alle due parti, come rivoluzione mondiale, la rottura dell’alleanza era destinata inevitabilmente a diventare quel rovesciamento di fronte che il re non voleva. Così che nella forma in cui coincidevano l’armistizio prima, la cobelligeranza poi, gli alleati mostravano di considerare gli italiani secondo quel giudizio deteriore che prima ho detto.
Non bisogna dimenticare che la storia dell’Italia nel ventennio era caratterizzata dal progressivo avanzare di una diarchia, di una doppia sovranità, del re e del duce, diretta, la seconda, all’erosione progressiva, sino all’estinzione, della prima così che la monarchia finiva con l’apparire come un organo mal tollerato, del regime fascista; situazione che il re aveva sopportato, molto a malincuore, per il timore di quel maggior male che sarebbe stata la guerra civile.
Ora questo regime aveva stretto un patto d’acciaio con la Germania, tale che in linea di principio non poteva essere infranto in una guerra che aveva assunto, da entrambe le parti, il carattere di guerra «di religione senza religione», quanto a dire di guerra di sterminio. La resa senza condizioni voleva dunque dire, per gli italiani, accettazione di farsi strumento per quella sorte da riservare all’alleato tedesco che i nuovi alleati avrebbero preferito; forse anche quella, e la proposta fu avanzata, di ridurre il popolo tedesco alla pastorizia.
Date queste circostanze, non stupisce che molti, in nome dell’onore e della fedeltà, giudicassero che la guerra , anche se quasi certamente perduta, dovesse essere combattuta sino alla morte. E Bartoli riconosce che dalla partesi Salò si schierò «gente in buona fede, illusa dal mito della fedeltà all’alleato»; anche se ritrovò in compagnia di avventurieri senza scrupoli e di fanatici ottusi, ma questi non mancano mai, da una parte e dall’altra, in ogni guerra civile.
Egli deve riconoscere a questo punto la singolarità di un fatto su cui non si è portata sinora sufficientemente l’attenzione. Il 25 luglio, il fascismo era crollato senza resistenza; dopo l’8 settembre la Repubblica Sociale trovò un numero consistente di aderenti. Continuazione, per usare una distinzione che si è fatta ormai consueta, del fascismo movimento, dopo che il fascismo regime si era spento?
Non direi; non era tanto il mito del duce ad animare questo nuovo fascismo , quanto quello appunto dell’«onore della fedeltà», dei pacta sunt servanda, e la preoccupazione di allontanare dall’Italia la taccia del costante tradimento. Nella situazione nuova che si era venuta a creare dopo l’armistizio coesistevano questi due opporti giudizi; e la tragedia italiana stava appunto nella lacerazione interiore che tale compresenza determinava.
Crolla il mito della grande potenza
Possiamo cercare di definire in una frase il significato dell’8 settembre? Direi che fu la tragedia che in cui doveva finire la diarchia che aveva a condizione del suo funzionamento il successo. Il 25 luglio sembrava che la monarchia avesse in qualche modo riassorbito la crisi diarchia attraverso l’autoliquidazione del regime fascista sancita dal Gran Consiglio; ma la crisi scoppiò dopo l’8 settembre, dando luogo alla guerra civile.
Se è regola di ogni monarca temere la guerra civile più di qualsiasi guerra esterna, è forse la fedeltà a essa il filo che permette di intendere l’intera politica che Vittorio Emanuele praticò durante tutto il suo regno, incluso l’intervento nella prima guerra mondiale. Presago probabilmente che la guerra civile avrebbe determinato le condizioni per la fine della monarchia, come avvenne. Prende infatti inizio con l’8 settembre il processo che per la monarchia si conclude il 2 giugno, punto che Batoli mette giustamente in rilievo.
Nell’epilogo egli scrive che l’8 settembre fu il crollo del mito dell’Italia grande potenza; mito non nato col fascismo, ma già presente nel Risorgimento, e poi alimentato dal contributo che l’Italia nella prima guerra mondiale aveva dato all’abbattimento dell’impero asburgico (lasciamo da parte il discorso, oggi facile ma pronunziato con quanto ritardo, sulle disastrose conseguenze di questo evento), e poi portato alle estreme conseguenze dal fascismo. Sotto questo riguardo si può forse dire che l’8 settembre fu la conclusione di un’avventura iniziata con l’intervento nella prima guerra mondiale; in quella che mi si permetterà di giudicare «suicidio di Europa» e «inutile strage».
Ma l’idea di una grande potenza ha due aspetti, il materiale e il morale. Ora, l’aspetto morale avrebbe potuto essere meglio custodito, se anziché cedere, negli onesti, ai miti dell’autoredenzione rispetto all’uno o all’altro degli alleati, o alle varie volontà rivoluzionarie, azioniste o comuniste o anche repubblicane di Salò, oppure negli opportunisti all’ambizione di inserirsi nel nuovo ordine o alla ricerca di far dimenticare i trascorsi fascisti, accendendo così l’esca della guerra civile, gli italiani si fossero uniti in una volontà di pace. E’ mia convinzione che se si fosse seguita questa linea, non soltanto si sarebbero evitati molti lutti, ma si sarebbero stabilite migliori condizioni per i decenni seguiti alla guerra.