Sostenevano la lotta armata. Tennero a battesimo le Br. In un saggio di Aldo Grandi gli «anni perduti» di una generazione. Alcuni antichi leader influenzano ancora i movimenti di protesta. Ma c’è chi ha preso le distanze da una stagione politica «di piombo».
di Vittorio Maciocie
Il professore ha più di settant’anni ed è una vecchia conoscenza dei movimenti di protesta. La rivoluzione è il suo sogno e viene da molto lontano, prima del ’68, prima del piombo. Lui da sempre ci ha messo le parole, gli altri qualche volta il sangue. E’ Toni Negri e di sé dice: «Sono sempre stato un estremista, nel pensiero, nel movimento operaio. Questa è stata la mia colpa. Ma non sono mai stato un terrorista». In dubio pro reo. E i dubbi ci sono. La sua maschera, in fondo, è un’altra. Toni Negri incarna, nella storia di questo Paese, l’idea del «cattivo maestro». Non è il solo. Un giorno, forse, anche per loro arriverà l’autunno. Ecco invece il sogno, marcio, della loro primavera.
Lo trovi nelle pagine di un saggio di Aldo Grandi, La generazione degli anni perduti: storie di Potere Operaio (Einaudi, pag. 351, euro 15,50). Negri è lì, in quelle pagine, e con lui ci sono Oreste Scalzone, Claudio Greppi, Franco Piperno, Alberto Magnaghi, Dario Dalmaviva, Franco Piro, Emilio Vesce, Franco (Bifo) Berardi, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Germano Maccari da Centocelle (l’ingegner Altobelli), Francesco (Panchio) Pardi, Lanfranco Pace e perfino, come defilato osservatore, Paolo Mieli. C’è Giangiacomo Feltrinelli e il gruppo del Manifesto, c’è Adriano Sofri e Lotta Continua, c’è il «mito borghese» della Classe Operaia, c’è l’ossessione della rivoluzione e all’orizzonte la stella a cinque punte delle Br.
Sembrano, visti così, personaggi di un’altra era. Negri è un docente universitario, Feltrinelli fa l’editore e salta in aria su un traliccio, Piperno lavora all’università. C’è un gruppo solido di operai di Marghera. Gli altri sono quasi tutti figli e nipoti della borghesia.
Ci trovi giovani magistrati come Francesco Misiani, Franco Marrone e Gabriele Cerminara – che dovevano «impostare politicamente i processi sui fascisti» – o avvocati da Soccorso rosso come Gaetano Pecorella. S’incontrano, per le loro riunioni, in qualche cascina toscana o a Porto Ercole.
«Eravamo – ricorda Morucci – nella casa di Luciana Castellina, perché a quell’epoca c’era una sorta di unità politica, effimera, tra Potere Operaio e il Manifesto. Fu una vacanza un po’ strampalata. Una pattuglia di giovani comunisti in un posto esclusivo. Fu in quella vacanza che vidi per la prima volta l’Eskimosa, la barca di Feltrinelli. Era ormeggiata proprio sotto il nostro balcone. Di quell’estate ricordo anche il fiorentino Panchio, simpatico e un po’ mattarello. I suoi avevano una casa alla Giannella. Andammo una volta sulla passera jugoslava del padre, una barchetta orribile, rosa e viola. C’era anche il fratello che faceva lo skipper in regate». Estate 1970: la cappa grigia del futuro appena si intravede.
Da lontano, questi ragazzi che avevano ripudiato il Pci, il sindacato, la sinistra tradizionale, sembrano affamati (di grandi imprese) e velleitari. Fino a che punto fanno sul serio? Hanno letto, negli anni ’60, i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri e Classe Operaia, e soprattutto il saggio Operai e capitale di Mario Tronti. Credono che il futuro appartenga ad un uomo nuovo, l’operaio massa di Torino o di Porto Marghera. La rivoluzione – dicono – è vicina ed è proprio lì, da quelle fabbriche che assomigliano a città post-umane, che può scoppiare la scintilla.
Eccoli allora davanti ai cancelli, come missionari di una nuova religione, a parlare e parlare con gli operai. Cosa vogliono? Tutto, il più in fretta possibile. E certe idee le trovi in giro ancora oggi. Non una lotta sindacale, ma il salario garantito per tutti, per chi lavora e per chi no, per mettere in crisi la sovrastruttura del capitalismo, per abolire il lavoro, l’unica vera schiavitù dell’uomo. Quasi un biglietto per il paradiso. Peccato che il biglietto sia alto, troppo alto. Inumano. Sono ubriachi di assoluto.
E’ una galassia di gente e di gruppi, che parla, e parlando s’inebria. Spesso litigano, di brutto. Forse si detestano ancora. Lotta Continua nasce intorno alla rivista pisana Il Potere Operaio, sono all’inizio poco più di una costola del movimento di Negri e Piperno. Poi ben presto fanno da soli e diventano più forti e numerosi. Dietro hanno la massa del movimento studentesco. E sono più goliardi, meno ingessati nell’abito del leninista ascetico di Potop.
Il discorso di Negri ha come dio unico l’operaio massa, il soggetto nuovo della storia. La base del suo discorso resta il rapporto di produzione. L’economia resta il centro dei rapporti umani. Sofri crede nella rivoluzione culturale, e nella classe operaia ci mette anche netturbini, soldati, prostitute, senza casa e casalinghe. «Eravamo meno settari e dogmatici», sintetizza. Di fatto sono due mondi che s’incrociano e non si sopportano. Potop cerca anche la fusione con il Manifesto, ma non si arriva a nulla. Gli incontri con Feltrinelli sono invece il primo virus di lotta armata. Il tono si alza: «Prendiamoci la città», «La violenza non è né buona né cattiva, la violenza è», «Democrazia è il fucile in spalla agli operai» e così via.
Lotta armata. Piperno ci sta pensando da tempo. Ha anche il nome del compagno che può mettere su un’organizzazione paramilitare: Valerio Morucci. Ma nessuno ancora ha il coraggio di dire: clandestinità. Ci pensa, a sorpresa, Pancho Pardi al congresso nazionale di Potere Operaio. E’ il settembre del 1971. Pancho, davanti ad una platea allibita, sentenzia: «Questo esecutivo deve poter garantire che Potere Operaio, da domani in poi, abbia la possibilità di dislocare delle forze ingenti, assolutamente ingenti, sul piano della clandestinità […] Bisogna cominciare a pensare materialmente, e non con i libri, la tattica e la strategia della guerriglia urbana e non». Bang. Da qui in poi comincia un’altra storia.
Il tema dell’organizzazione armata venne affrontato in riunioni ristrette. «È ingenuo – dice Negri – parlare di clandestinità ad un congresso, per di più con gli invitati. Però mi meraviglia che quando si parla in maniera infelice di clandestinità, la sala sia attraversata da un brivido che riguarda non solo gli invitati, ma anche – e questo è più grave – anche i militanti di Potere Operaio. Qui ognuno di noi deve sapere che essere militanti significa giocarsi tutto».
Ecco allora la struttura chiamata «lavoro illegale», il doppio livello. Nel 1973, a Rosolina, in Veneto, Potop smette ufficialmente di esistere. Morucci diventa uno degli autori del sequestro Moro. Maccari uno dei carcerieri. Per gli altri ci sarà il processo «7 aprile», le fughe all’estero. Restano le parole e i protagonisti di oggi. Molti vengono da lì, dal clima di quegli anni. Più vecchi, senza più sogni, ma ancora ingessati nella loro storia. Li guardi, e sai che si sono appropriati di tutta l’eredità del Novecento, ideali e sogni, e poi in dieci anni l’hanno bruciata. E si sono seduti, da signori, sulle macerie. Ai posteri hanno lasciato fumo e cenere, troppo poco forse per ricostruire. Ti chiedi da che parte ricominciare.
Due giorni fa uno scrittore friulano ormai abbastanza famoso racconta, al telefono, di essersi ritrovato ad un convegno accanto a Toni Negri. «Ero imbarazzato, anzi infastidito. L’idea non mi piaceva. Mi ricordo ancora le sue lezioni a Padova nei primi anni ’70. Ricordo come ci aveva ubriacati tutti. Ricordo le conseguenze della sbornia. So che ora negli Stati Uniti è il saggista italiano più famoso. Ho letto Impero. Lucido, come allora. E con la stessa boria, come a dire: ho capito tutto. Leggo le sue recensioni sul Manifesto. Le sue interviste. ovunque. E mi chiedo: ma non è stanco? Non pensa che sia arrivato il momento di scendere dalla cattedra? È un pensionato. È tempo, anche per lui, di bilanci. Non di nuove, tragiche, avventure». Negri, dopo aver letto il libro di Grandi, lo ha chiamato e ha chiuso la telefonata con una frase: «Ti stai occupando di cose più grandi dite».
Può darsi, magari è tempo, per tutti, di chiudere i conti con la cronaca del passato e di lasciare la parola alla storia. Non è facile, perché gran parte di chi era lì c’è ancora. Conta e fa sentire il suo peso: nelle interpretazioni, nei ricordi, nel fare opinione, politica, cultura. La libertà d’espressione, lo sappiamo, è sacra, inalienabile. Ma chi, quei giorni, non li ha vissuti, qualcosa forse può chiedere ad una generazione di vecchi, cattivi, maestri: una scelta morale, il silenzio.
Il silenzio di chi non ha più nulla da confessare. E ha la consapevolezza, umana, di aver già sbagliato. Lezioni di etica? Lasciate stare. Non siete stati né martiri né eroi. Non sono i libri che vi mancano, né la cultura, né l’intelligenza, né a qualcuno il carisma. Vi manca ciò che di solito si chiede ai vecchi, la saggezza. E allora, per favore, scendete dalla cattedra. Solo così tutto verrà archiviato: gli anni, le parole e il piombo. Buonanotte Novecento