L’intervento del cardinale Giacomo Biffi al convegno sull’invasione francese del 1796
di Giacomo Biffi
Quando il 19 giugno 1796 i soldati francesi entrano in Bologna, che cosa portano idealmente nei loro zaini? La storiografia “recepta” e dominante non ha dubbi in proposito: portano, più o meno consapevolmente, gli immortali principi dell’89, che avrebbero poi risvegliato la nostra terra dal suo lungo letargo e avrebbero dato una spinta decisiva verso una società più libera e più democratica.
Il che è incontestabile. Ma bisogna anche chiedersi: portano solo quello? E soprattutto: che cosa i bolognesi di allora pensavano che portassero i nuovi arrivati?
Dal 1789 al 1796 molti avvenimenti si erano succeduti in Francia, e se ne era avuto notizia anche nelle province italiane. C’era stato, per esempio, il tentativo di sostituire la religione tradizionale con il culto abbastanza comico della Dea Ragione, e quello ugualmente frigido di chi, come Robespierre, voleva imporre ai fedeli di Cristo, il “Dio con noi”, l’adorazione dell’Essere Supremo; un essere che appariva non solo supremo, ma anche disinteressato e lontano.
C’erano stati i ripetuti attentati alla pietà religiosa e alle memorie storiche più care, quali la distruzione del corpo di santa Genoveffa, patrona di Parigi, e la laicizzazione del tempio a lei dedicato. C’era stata la promulgazione della cosiddetta “legge dei sospetti”, che aveva consentito di imprigionare e di uccidere senza processo migliaia e migliaia di persone, che non avevano colpe se non quella di costituire con la loro esistenza un ostacolo al pieno trionfo dell’ideologia rivoluzionaria.
Cera stato il genocidio vandeano con le sue crudeltà e i suoi incredibili orrori, perpetrati non contro i nobili e i privilegiati ma contro una popolazione che non voleva rinunciare né alla fede dei padri né al prezioso e stimato ministero dei suoi sacerdoti. Può darsi che qualche torto l’abbiano avuto anche i vandeani: ce l’hanno anche gli agnelli quando si fanno mangiare dai lupi Ma c’è pur sempre qualche differenza di responsabilità tra chi sbrana e chi viene sbranato.
Agli occhi dei pacifici abitanti della nostra regione, tutte queste cose – oltre il messaggio di libertà, uguaglianza, fraternità – c’erano idealmente negli zaini di quei militari stranieri. Sicché qualche apprensione era naturale che l’avessero. Che non fossero timori immotivati, fu subito chiaro dal comportamento degli invasori.
Non è il caso di ricordare tutto quel che fece da noi l’occupazione transalpina. Basterà qualche piccolo particolare, di quelli che di solito non vengono messi in rilievo. Per esempio, ci fu una gratuita offesa alla città, che vide cancellato il proprio stemma, posto sopra la grande pala che domina l’abside di San Petronio. Si vede che la “libertas” bolognese non aveva niente a che vedere con la “liberté” che veniva sbandierata. A titolo di contribuzione di guerra, i francesi si affrettarono a infliggere il versamento di una somma enorme, in denaro, in oro, in argento e in natura; contribuzione che sconvolse l’economia della città.
Ma non se ne accontentarono: asportarono anche 31 dipinti dei più famosi maestri (il Guercino, il Carnicci, Guido Reni, Raffaello). Di questi soltanto 15 furono recuperati, una volta finita l’avventura napoleonica, dalla missione diretta da Antonio Canova. Annotazioni analoghe possono essere fatte per le altre città della regione, come Modena e Parma. La soppressione dei conventi e delle confraternite aumentò il disagio dei poveri, privandoli degli aiuti che venivano da secoli regolarmente erogati, senza che le nuove istituzioni statali di assistenza riuscissero a supplire adeguatamente alle tradizionali forme di carità.
Fu imposta la coscrizione obbligatoria, derubando così le famiglie dei contadini e degli artigiani di braccia indispensabili per il sostentamento di tutti. Senza dire che i costringeva a esporsi al rischio molto ravvicinato di perdere la vita in guerre sanguinose e, per la gente semplice, incomprensibili In questo contesto, non ci si può stupire che si verificasse un fenomeno come quello delle “insorgenze”. Ci si stupisce invece che non sia stato studiato un po’ più in profondità: vale a dire, senza ricorrere alle etichette di comodo, come quella di ritenerle manifestazioni retrive di oscurantismo o addirittura di deplorevole banditismo.
Quando degli uomini, senza avere una divisa riconosciuta e senza appartenere a un esercito regolare, impugnano le armi e le usano contro un potere organizzato, riesce difficile alla storiografia stabilire se essi – entro l’immancabile groviglio delle passioni e degli accadimenti – siano briganti o patrioti, sovvertitori malintenzionati dell’ordine vigente, quale che sia, o eroi generosi in lotta per i loro ideali
La cosa più sicura – e più frequente purtroppo – per la storiografia prevalente è quella di badare a chi trionfa alla fine e di far dipendere la classificazione dei buoni e dei cattivi da quella dei vincitori e dei vinti. Ma qualche volta può essere utile tornare a mettere tutto in discussione con un po’ di spregiudicatezza, senza lasciarsi troppo condizionare dall’ideologia che alla fine è riuscita a sovrastare. Perché il quadro sia meno incompleto, suggerirei di non dimenticare che ci furono delle “insorgenze” di natura morale da parte di singoli cittadini
È il caso di quei docenti della nostra università che si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica Cispadana, soprattutto perché conteneva l’impegno di “odio eterno al governo dei re, degli aristocratici e degli oligarchici”. Essi giudicavano che la loro coerenza cristiana li obbligava a non odiare nessuno. Furono una quindicina, che per questo motivo persero la cattedra e si condannarono a una vita di povertà.
Uno di essi fu il professor Luigi Galvani, già famoso nel mondo per i suoi studi sull’elettricità animale. Furono molte le pressioni e le lusinghe che si esercitarono su di lui per farlo recedere dalla sua decisione. Ma egli ai compromessi con la sua coscienza preferì l’isolamento e la miseria, da cui lo liberò ben presto la morte, avvenuta nel 1798. Di lui un suo collega, il professor Giuseppe Venturoli, potè scrivere: «Non ostentò fierezza, non s’abbassò alle querele, e serbò imperturbabile nell’avversa fortuna quel modesto e dignitoso contegno che aveva tenuto in mezzo alla prosperità e alla gloria».
In quel gruppo di irriducibili c’era anche una donna, la professoressa Clotilde Tambroni. Il che mi dà modo di formulare un’annotazione solo apparentemente fuori tema. Finché l’Università di Bologna, lungo il secolo XVIII rimase sotto l’influenza determinante della Chiesa, non mancò di annoverare delle donne nel suo corpo docente. Basterà ricordare, oltre la Tambroni la fisica sperimentale Laura Bassi Veratti (morta nel 1776) e la mia concittadina Maria Gaetana Agnesi (morta nel 1799), insigne nell’analisi algebrica e nel calcolo infinitesimale. A lei, già aggregata alla nostra Accademia delle scienze, Benedetto XIV ha offerto invano la cattedra di matematica del nostro Ateneo. La presenza femminile scomparirà invece del tutto con l’avvento della laicizzazione ottocentesca. .
Senza dubbio, come si diceva, l’invasione napoleonica avviò bruscamente ma efficacemente la nostra penisola verso una più moderna visione dello Stato, mettendo in moto il processo risorgimentale. Ma ci sia consentito di osservare – pur se restiamo consapevoli che la storia non si fa coi futuribili -che i Paesi anglosassoni, senza l’incursione francese e senza il verbo rivoluzionario, sono arrivati in modo meno traumatico, più stabile e più sostanziale agli stessi traguardi La loro democrazia -maturata non contro i convincimenti religiosi delle popolazioni ma in loro perfetta armonia – non ha conosciuto le oscillazioni e i periodici malanni di quella che da noi si è instaurata in conflitto con l’anima più intima e vera della nazione italiana. Molti dei nostri guai trovano qui la loro origine prima.
Vorrei concludere confessando che mi affascina sempre più la propensione del Centro Culturale Manfredini per le cause perse, il mio augurio è che continui su questa strada: è la strada del nonconformismo, della vera laicità e, in definitiva, della ragione non inceppata dai pregiudizi e dai vari luoghi comuni