Riflessioni sulla «Dignitas personae»
di Maurizio Faggioni
Professore di teologia morale Accademia Alfonsiana, Roma
Negli ultimi anni le percentuali di successo delle diverse tecniche di fecondazione in vitro sono migliorate, ma si aggirano sempre intorno a circa il 30 per cento dei tentativi, con differenze – anche piuttosto significative – in base al tipo di tecnica adottata e all’età della donna.
Ciò significa che, su cento cicli tentati, solo un terzo giunge al risultato desiderato che viene definito, con un’espressione di per sé delicata, come “bambino in braccio”. Considerando che a ogni tentativo vengono trasferiti almeno due embrioni, il numero degli embrioni persi per averne uno impiantato diventa molto alto.
È noto che neppure la riproduzione naturale è un processo perfetto e che un gran numero di embrioni concepiti non giungono ad annidarsi o, comunque, vengono spontaneamente perduti molto precocemente; ma si sa anche che gli embrioni perduti nella procreazione naturale sono per lo più embrioni con gravi difetti genetici, incompatibili con la vita e con il prosieguo della gravidanza, mentre gli embrioni concepiti in vitro e persi dopo il transfer nel corpo materno sono quelli cosiddetti di alta qualità, cioè embrioni che presentano caratteristiche biologiche ottimali. Sono, insomma, fragili creature umane che avrebbero tutte le potenzialità naturali per poter vivere, impiantarsi e svilupparsi normalmente.
Nessuna persona di buon senso, nessun medico di buona coscienza, nessuna legislazione civile permetterebbero che si praticassero ordinariamente interventi medici o chirurgici che comportassero – anche quando eseguiti ai massimi livelli di efficienza e di sicurezza – la perdita dell’80 per cento dei soggetti coinvolti. Questo è, invece, l’ordine di grandezza delle perdite di embrioni trasferiti nel corpo materno durante le tecniche di fecondazione in vitro.
Tali perdite – si dirà – non sono per niente volute e, anzi, si cerca – proprio per la riuscita dei tentativi – di evitarle, ma resta il fatto che questa è l’entità del rischio statisticamente prevedibile per gli embrioni trasferiti. Quale madre accetterebbe che il suo bambino corresse un rischio così serio nell’ambito di una terapia medico-chirurgica, a meno che non fosse l’unica via per salvarlo da morte sicura?
Nella fecondazione artificiale si fanno sorgere alla vita creature umane, per la maggior parte delle quali non siamo in grado di garantire la sopravvivenza, non per cause accidentali o per una loro incapacità naturale, ma proprio a motivo dei limiti intrinseci delle tecniche con le quali esse sono state concepite.
“In realtà – commenta a tal proposito la Dignitas personae al n. 14 – è assai preoccupante che la ricerca in questo campo miri principalmente a ottenere migliori risultati in termini di percentuale di bambini nati rispetto alle donne che iniziano il trattamento, ma non sembra avere un effettivo interesse per il diritto alla vita di ogni singolo embrione”.
Ciò che è ancora più sconcertante e grave, rispetto a questa perdita non direttamente voluta di embrioni, è l’eliminazione volontaria di embrioni, che accompagna le tecniche di procreazione in vitro come un corteggio ritenuto praticamente necessario. Di per sé le tecniche di fecondazione artificiale non comporterebbero distruzione volontaria di embrioni, ma pare insito nella logica tecnologica ed efficientistica che presiede a queste tecniche eliminare gli embrioni sia prima sia dopo l’impianto, se la loro sussistenza può essere per qualche ragione non desiderabile ai fini della riuscita ottimale del processo.
La maggior parte delle legislazioni vigenti ammette la produzione di un numero di embrioni superiore a quello che può essere trasferito con sicurezza nel corso di un singolo tentativo. Il motivo è duplice: da una parte, essendo le percentuali di successo assai limitate, spesso è necessario ripetere il tentativo di transfer e, per evitare di sottoporre la donna a ripetute e rischiose stimolazioni ormonali, si preferisce produrre più embrioni trasferendone alcuni subito, e congelandone altri per eventuali tentativi successivi; d’altra parte, non essendo tutti gli embrioni concepiti rispondenti agli standard desiderati, la formazione di più embrioni permette di scegliere quelli di migliore qualità biologica.
Nel primo caso potrebbe sembrare giusto – a prima vista – confrontare i rischi per la salute della madre, esposta all’iperstimolazione ovarica, con i rischi dell’embrione, esposto ai danni del congelamento. Ma non possiamo dimenticare che siamo noi a produrre artificiosamente una situazione di conflitto fra il diritto all’integrità fisica della madre e l’analogo diritto dell’embrione, e non è irrilevante considerare che la donna, a differenza dell’embrione, affronta liberamente i rischi della fecondazione artificiale.
Se, quindi, può essere ragionevole ridurre al minimo i rischi per la madre – ferma restando l’illiceità delle tecniche in vitro – non sarà giusto, però, ridurli solo a svantaggio degli embrioni, come se le loro esistenze avessero meno valore. Nel secondo caso si svela chiaramente la vena eugenetica che percorre l’applicazione delle tecniche di fecondazione artificiale e che si esprime, appunto, con la selezione degli embrioni nella fase del preimpianto e la distruzione diretta degli embrioni per qualche ragione indesiderati, non di rado avviandoli a fini strumentali o praticando l’aborto selettivo o “riduzione embrionale” in caso di gravidanza multipla (cfr. Dignitas personae, n. 21).
In questo contesto, una particolare rilevanza sta assumendo la diagnosi pre-impiantatoria che consente d’individuare, tra l’altro, embrioni portatori di difetti cromosomici o genetici e di selezionare embrioni del sesso desiderato o con particolari qualità geneticamente determinate (cfr. Dignitas personae, n. 22). La pratica della diagnosi prenatale già da tempo si è inserita quale strumento imprescindibile in progetti personali o generali, come nei programmi di screening delle gestanti oltre i 35 anni di età per la ricerca dei feti affetti da sindrome di Down, attraverso tecniche più o meno invasive.
La pratica della diagnosi pre-impiantatoria consente, per esempio, non solo di verificare l’assenza di difetti genetici in embrioni concepiti per via artificiale da coppie con scarsa fertilità, ma anche di selezionare embrioni privi di un certo difetto genetico concepiti artificialmente da coppie che sono fertili, ma portatrici d’un qualche difetto genetico e che vogliono selezionare gli embrioni immuni da tale difetto.
Ogni selezione dei concepiti in base al loro stato di salute presente o futuro rivela una mentalità discriminatoria, che contraddice la naturale uguaglianza degli esseri umani e mina le basi della convivenza civile e pacifica. Esistono purtroppo creature che vivono in condizioni di vita non desiderabili, ma la non desiderabilità e la bassa “qualità” di una condizione di vita non può trasformarsi in una destituzione di valore per quella vita umana.
Tanto nella procreazione naturale quanto in quella artificiale il valore e la dignità di una vita umana sono del tutto indipendenti dalle “qualità” che essa accidentalmente presenta e dalle prestazioni che essa potrà offrire. Questo vale per i concepiti in vitro e in utero, vale prima e dopo la nascita, vale all’inizio e alla fine della vita, vale per ogni uomo e per ogni donna.
“La realtà dell’essere umano, infatti – insegna la Dignitas personae – per tutto il corso della vita, prima e dopo la nascita, non consente di affermare né un cambiamento di natura né una gradualità di valore morale, poiché possiede una piena qualificazione antropologica ed etica” (n. 5). “Il rispetto di tale dignità – continua – compete ad ogni essere umano, perché esso porta impressi in sé in maniera indelebile la propria dignità e il proprio valore” (n. 6).
Sono stati giustamente criticati gli esiti inaccettabili della cosiddetta eugenetica liberale, tutta protesa al sogno di una umanità nuova, plasmata a immagine e somiglianza dei desideri delle persone. Scegliere per il proprio figlio il sesso o un certo corredo genico che lo predisponga a ottenere prestazioni eccezionali in questo o quel campo, significa predeterminare le condizioni in cui si svolgerà la sua esistenza e pone il figlio in una posizione gravemente asimmetrica rispetto ai genitori che operano, al suo posto, scelte irrevocabili. In sostanza la genetica positiva, espressione dei desideri di alcuni proiettati su altri, limita in radice la libertà d’una esistenza rendendola, almeno in parte, prefabbricata e programmata.
A maggior ragione eliminare intenzionalmente un essere umano perché non risponde agli standard di salute e di normalità è una grave ingiustizia perché va contro il nativo diritto alla vita di ogni essere umano. L’istruzione Donum vitae, sulla base della comprensione cristiana del mistero della generazione umana e del suo rapporto con l’amore coniugale, aveva escluso la praticabilità morale anche della fecondazione in vitro omologa, realizzata, cioè, in contesto matrimoniale.
Ogni persona ragionevole può intuire facilmente come il concepimento in vitro abbia un valore antropologico diverso dal concepimento nel seno materno e nessuna persona sensibile potrà ritenere equivalente una provetta al seno materno, quale spazio interiore della persona e luogo antropologico dell’accoglienza.
Ma anche chi non riuscisse a cogliere la ferita che viene portata alla dignità della persona quando è costretta a essere concepita in vitro, non può non restare turbato di fronte all’assurda crudeltà di chiamare creature all’esistenza e di dare poi a esse la morte se non rispondono ai requisiti desiderati.
È vero che la selezione degli embrioni non è di per sé un momento necessario allo svolgimento delle tecniche di procreazione artificiale, ma nei Paesi dove questa selezione è proibita o sottoposta a limitazioni severe, i medici si lamentano che non è loro permesso applicare procedure scientificamente ottimali: è una prova indiretta di come, nonostante le migliori intenzioni, la mentalità selettiva ed eugenetica si insinua nella fecondazione in vitro e nelle tecniche analoghe.
La Chiesa non gode certo delle malattie che possono colpire gli esseri umani, né pensa che abbandonarsi al capriccio del caso o a un fatalismo rinunciatario sia un comportamento degno dell’intelligenza umana e, comunque, raccomandabile. “La Chiesa pertanto – si legge nell’introduzione di Dignitas personae – guarda con speranza alla ricerca scientifica, augurando che siano molti i cristiani a dedicarsi al progresso della biomedicina e a testimoniare la propria fede in tale ambito”.
La Chiesa, amante della vita, incoraggia la diagnosi e la cura delle patologie umane, genetiche e non, e promuove, per quanto le compete, tutte le vie lecite per evitare che nascano bambini gravati da infermità attuali o potenziali; ma il legittimo sforzo di promuovere la salute e la “qualità” di vita delle persone, a partire dal grembo materno, non può mai giustificare l’esercizio di un dominio sui figli nati o non ancora nati, e ancor meno una diretta soppressione degli esseri umani non rispondenti a standard di efficienza e di qualità o ad arbitrari criteri di dignità.
“La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di un fìglio, e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti da problemi di infertilità. Tale desiderio non può però venir anteposto alla dignità di ogni vita umana fino al punto di assumerne il dominio. Il desiderio di un figlio non può giustificarne la “produzione”, così come il desiderio di un figlio già concepito non può giustificarne l’abbandono o la distruzione” (Dignitas personae, n. 16).
“L’amore di Dio – ha detto Benedetto XVI – non fa differenza fra il neoconcepito ancora nel grembo di sua madre, e il bambino, o il giovane, o l’uomo maturo o l’anziano. Non fa differenza perché in ognuno di essi vede l’impronta della propria immagine e somiglianza” (Discorso ai partecipanti all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita e al Congresso Internazionale sul tema “L’embrione umano nella fase del preimpianto”, 27 febbraio 2006).