di Andrea Crespi Bel’skij
Negli ultimi mesi, a dispetto della crisi che chiunque può percepire empiricamente, le autorità politiche ed economiche hanno evitato di utilizzare il termine «recessione», quasi a voler scaramanticamente evitare di invocare questo spettro. I media, invece, hanno utilizzato con grande frequenza questo vocabolo – talora anche impropriamente – spesso accostato ad altre parole che indicavano un malessere più o meno grave dell’economia nazionale o mondiale, quali per esempio, stagflazione, deflazione, recessione ecc. Ma che cosa indica esattamente questo termine?
Di solito gli economisti usano il termine recessione quando il calo del Pii viene registrato per almeno due trimestri consecutivi. Normalmente se il decremento del Prodotto interno lordo è inferiore all’uno per cento si parla solamente di crisi economica; per esempio, la variazione del Pii in Germania nel 2002 è stato di -0,1% (quindi si è trattata di una crisi economica), mentre nel 2003 è stato di -2% (recessione). Durante un periodo di recessione si può osservare l’aumento della disoccupazione, il calo dei prezzi dei beni immobiliari e dei titoli trattati in borsa; le aziende tagliano tutti i programmi di investimento e sviluppo e i privati riducono i loro acquisti.
I fattori scatenanti
Quali sono le cause di una situazione del genere? Uno shock sociopolitico spesso causa recessione: guerre, cambiamenti drastici nella situazione e nel tessuto sociale (per esempio nell’Africa meridionale la perdita del potere da parte dei bianchi). Altre cause possono essere connesse con shock relativi alle materie prime, quali per esempio crisi petrolifere come nel caso della recessione degli anni Settanta
Un ulteriore fattore scatenante può derivare dalla politica monetaria condotta dalle autorità economiche. Le banche centrali (per esempio in Europa la Bce e negli Stati Uniti la Federal Reserve) si preoccupano di creare un equilibrio tra la moneta in circolazione, l’inflazione e i tassi di interesse.
Quando le banche centrali sbagliano e non riescono a garantire l’equilibrio, l’economia da sola cerca di ricrearlo e la strada solitamente è una crisi. Se le autorità tengono i tassi di interesse troppo elevati, la quantità di moneta in circolazione si riduce, è più costoso prendere a prestito del denaro e quindi la domanda cala. Con il calo della domanda, le aziende sono spinte a produrre di meno, a investire di meno e a licenziare dipendenti i quali – senza più reddito – diminuiscono i loro consumi.
Anche l’errore opposto da parte delle banche centrali porta al medesimo problema. L’eccesso di offerta di moneta connesso con i tassi bassi in un momento in cui il sistema economico non può rapidamente incrementare l’offerta di beni e servizi comporta il rialzo dei prezzi che continuano a correre fino a quando non ci si accorge che le valutazioni sono diventate troppo alte, momento in cui privati e aziende iniziano a tagliare pesantemente e rapidamente le spese divenute ormai fuori controllo.
Questo è sostanzialmente l’errore che ha commesso la Federal Reserve, la banca centrale americana. I bassi tassi hanno spinto gli americani a investire pesantemente in immobili, facendo crescere esponenzialmente i prezzi, finché a un certo punto la bolla speculativa è scoppiata con conseguenze su famiglie e banche che le avevano finanziate, cosa che ha comportato la successiva drastica riduzione dei consumi.
La diminuzione dell’inflazione è l’unica positiva conseguenza di una recessione.
Quando una recessione risulta temporalmente prolungata si parla invece di depressione. Gli Stati Uniti, la maggiore economia del mondo e quella per cui sono disponibili serie storielle più affidabili, hanno visto 32 cicli di espansione e contrazione, con una media di 17 mesi di contrazione e 38 di espansione. Le recessioni verificatesi sono indicate nella tabella di p. 197.
«Poveri contanti soldi in tasca»
Altra grave «malattia» dell’economia reale è l’inflazione, ovverosia l’aumento dei prezzi di beni e servizi connesso con l’eccesso di domanda da parte di consumatori e imprese. Ipotizziamo un sistema economico in cui si è raggiunto il pieno impiego di tutti i fattori produttivi (aziende, macchinari, disoccupazione a zero): in questo caso non è possibile aumentare ulteriormente la produzione dei beni.
Se vi fosse in circolazione più moneta di quella che potrebbe servire per acquistare tutti i beni prodotti gli acquirenti inizierebbero a farsi concorrenza fra di loro accettando, pur di ottenere nuovi beni, a pagare di più. In sostanza, come diceva Ugo Tognazzi, «inflazione significa essere povero con tanti soldi in tasca».
Un fenomeno analogo, tuttavia, avviene anche se non si è raggiunta la massima produzione e la piena occupazione dei lavoratori. Nel breve termine, in caso di aumento della domanda, le aziende hanno un certo ritardo fisiologico ad attivare nuove linee di produzione, a comprare e mettere in servizio nuovi macchinari e ad assumere altri lavoratori, quindi si genera inflazione anche in quel caso.
Se dunque le banche centrali immettono nei loro Paesi più moneta del necessario, o consentono con bassi tassi di interesse ai consumatori di indebitarsi in modo poco costoso, la domanda cresce troppo e si crea inflazione: è il problema inverso a quello della recessione.
La cura per questo malanno è ridurre la moneta in circolazione, operazione effettuata dalle banche centrali alzando i tassi di interesse. Con i tassi più alti diventa infatti più costoso indebitarsi per finanziare le proprie spese. Inoltre, chi ha liquidità in eccesso, invece che spenderla immediatamente, preferisce posticipare i consumi e tenerla sul conto corrente per ottenere un rendimento che – se gli interessi sono alti – diventa interessante rispetto al consumo immediato.
In entrambi i modi la domanda aggregata cala verso l’equilibrio rispetto all’offerta. L’inflazione, comunque, non è un male solo delle economie moderne. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) tra Atene e Sparta, artigiani e agricoltori venivano sottratti al lavoro e al commercio per essere mandati in combattimento. La produzione si contrasse e si verificò quindi un periodo di grave inflazione a causa del perdurare della guerra.
La prima crisi inflattiva connessa all’eccesso di moneta in circolazione che la storia riporti risale al terzo secolo avanti Cristo, quando le conquiste di Alessandro Magno portarono in Grecia e in Macedonia enormi quantità di oro e argento sottratte ai persiani vinti.
Il costo della vita aumenta anche in caso di svalutazione della moneta nazionale, quando gli operatori economici ritengono – a torto o a ragione – che la moneta abbia un valore inferiore e quindi ne richiedono di più per scambiare beni e servizi. Un primo esempio nella storia si ebbe durante il tardo periodo repubblicano nell’antica Roma, quando lo Stato, per finanziare le numerose guerre, abbassò il titolo delle monete, cioè la quantità di metallo prezioso nelle leghe di conio.
Aumentano i costi di produzione
Le ultime possibili cause di inflazione sono gli aumenti dei costi di produzione per le aziende (connessi solitamente con materie prime e salari). Negli ultimi anni l’effetto negativo delle rivendicazioni salariali è stato molto mitigato dalla globalizzazione: se in un Paese il costo del lavoro cresce troppo, le aziende cercano, ove possibile, di spostare la produzione in Paesi i cui lavoratori accettano salari minori.
L’aver sottovalutato questo a-spetto è stata la causa delle eccessive riduzioni dei tassi di interesse operati dalla Federai Reserve dal 2002. Le autorità monetarie vedevano che i prezzi erano sotto controllo, ma questo non avveniva perché l’inflazione era domata e la domanda in equilibrio, ma piuttosto perché il mercato era invaso, come mai prima, da prodotti cinesi e indiani a basso costo.
E la politica di lasciare bassi i tassi è la prima causa della bolla speculativa il cui scoppio ha condotto gli Usa e il resto del mondo all’attuale crisi. Storicamente l’inflazione è stata un grave problema per l’Italia, problema che ha eroso non poco la ricchezza delle famiglie del nostro Paese. Una lira coniata nel 1861 (data di proclamazione del Regno d’Italia) equivale a circa 4.10 euro (circa 7.947 lire) nel gennaio 2009.
La politica monetaria, quindi, può curare o creare crisi. Ma anche l’eccesso di cura può portare alla crisi.
Le banche centrali e i governi di mezzo mondo si stanno chiedendo ora se il problema da combattere sia l’inflazione (con il rialzo dei tassi di interesse) o la recessione (abbassando invece il costo del denaro). Nell’ultimo trimestre dell’anno scorso il carovita si è fatto sentire non poco. Tuttavia tale rialzo dei prezzi non era dovuto a un eccesso di domanda – la crisi era già da tempo scoppiata e faceva sentire i suoi effetti – ma piuttosto alla corsa all’insù delle quotazioni della materia prima più importante, il petrolio.
Nell’immediato la vera priorità ci sembra essere la recessione, da combattere con massicce iniezioni di denaro nei sistemi economici, per evitare la trasformazione in depressione. Questo prima o poi creerà inflazione, ma verosimilmente si tratterà di un problema – peraltro meno grave – da affrontare nei primi anni della prossima decade.