La questione antropologica è ormai il nodo centrale di tutto il dibattito contemporaneo poiché l’uomo ha acquisito un potere così smisurato che è capace di ridefinire e manipolare la sua umanità. Su questo problema l’incontro della ragione e della fede non è solo possibile, ma auspicabile come superiore garanzia della dignità dell’uomo
Carlo Caffarra
La prima è che la “quaestio de homine” costituisce ormai il nodo centrale di tutto il dibattito contemporaneo. Una centralità non ultimamente dovuta al fatto che l’uomo oggi ha acquisito un potere tale di ri-definire l’humanum, quale lungo la sua storia non aveva mai avuto. In tale situazione sarebbe un errore che potrebbe avere conseguenze devastanti, porre subito al centro il problema delle “regole” che devono limitare o non quel potere. Queste infatti trovano – devono trovare – la loro ultima giustificazione, nella risposta che noi diamo alla domanda “che cosa è l’uomo?”.
La seconda ragione della mia scelta è quella di proporre una base di incontro fra ragione e fede, fra chi non va oltre all’uso della ragione nella ricerca della verità sull’uomo e chi accoglie anche la luce della Rivelazione divina. Sono infatti ogni giorno sempre più convinto che una tale base esista e sia costituita da una visione dell’uomo che proposta storicamente dalla Rivelazione cristiana, è tuttavia capace di esibire una ragionevolezza tale da essere assentita anche da chi non è cristiano.
Che la costituzione teoretica di questa base sia oggi un’esigenza urgente e prioritaria è mostrato dal pericolo in cui versa l’uomo oggi, pericolo cosi grave da meritare la vigilanza di tutti, credenti e non.
La mia riflessione seguente pertanto non è un riflessione teologica in senso stretto, e pertanto la visione dell’uomo che presenterò è dal punto di vista teologico sostanzialmente incompleta: non è un corso di antropologia teologica. Si tratta di una riflessione sull’uomo che è certamente desunta dalla fede cristiana, ma che può essere esibita anche come ragionevolmente condivisibile perché razionalmente dimostrabile. Insomma, ci muoveremo in un terreno in cui coabitano e ragione e fede […] senza eccessivi liti di condominio. E ciò per evitare “separazioni in casa”: separazioni nella comune dimora che è il vissuto umano, che è l’esperienza umana, la vita dell’uomo.
Le tesi fondamentali
Prima di addentrarmi nel tema, a modo di proemio vorrei indicarvi che esiste come una sorta di “magna charta humanitatis“, una pagina cioè che lungo i secoli ha ispirato e come nutrito la riflessione dell’uomo sull’uomo. È il capitolo secondo del libro della Genesi: più precisamente dal v. 15 alla fine.
Ad una lettura attenta della pagina biblica noi possiamo verificare che la visione dell’uomo in essa presentata sussiste in tre convinzioni di fondo: l’uomo è posto in un rapporto dialogico col Signore Iddio; l’uomo è diverso dagli animali ed è più che gli animali; l’uomo è costitutivamente sociale. A modo di proemio cercherò di chiarire brevemente il contenuto essenziale di ciascuna di queste tre convinzioni.
La prima denota un rapporto fra l’uomo e Dio istituito da un atto sovrano del Signore, ma che chiede all’uomo una risposta libera. È abbozzata cosi la dimensione religiosa della persona come dimensione originaria, costitutiva dell’umanità dell’uomo. La seconda convinzione denota un rapporto fra l’uomo e la “natura” tale che l’uomo non è pienamente riducibile alla natura medesima.
La persona umana appare nell’universo della natura in una solitudine originaria, dovuta al ratto di non trovare nulla di simile a lui. L’uomo è qualcosa di unico! La terza convinzione afferma che questa condizione di originaria solitudine non è una condizione buona. Da essa l’uomo esce originariamente nell’incontro con l’altro [alius e non aliud]. Per brevità e chiarezza espongo subito le due idee centrali corrispondenti: l’uomo è persona, prima idea; l’uomo è comunione interpersonale, seconda idea.
L’uomo è persona
Sono almeno cinque le ragioni che oggi rendono particolarmente urgente e non più rinviabile una rigorosa riflessione sul concetto di persona.
Una vera filosofia della persona è la sola via per non naufragare dentro a quel riduzionismo materialista che oggi sembra dominare la visione occidentale dell’uomo.
Solo una visione chiara dell’essere personale consente all’uomo di vedere il vertice dell’universo dell’essere, il suo punto più alto; non si può essere più che persona, ma si può essere solamente meno che persona. Tommaso scrive: “persona significat id quod est perfectissimum in tota natura” [1, q.29,a.3]. Insomma, chi non ha il concetto di persona si preclude la visione della parte più bella dell’universo.
Una visione ed una filosofia della persona è il fondamento dell’etica, Il primum anthropologicum [l’uomo è una persona] è anche il primum ethicum, secondo l’enunciazione kantiana dell’imperativo categorico: la persona non deve mai essere trattata solo come un mezzo, ma anche come fine in se stesso. Etica e bioetica senza il concetto di persona sono costruzioni molto fragili.
In quarto luogo è l’idea di persona che alla fine scrimina una religione ragionevole da una religione perennemente insidiata dalla superstizione. Un Dio non personale denota piuttosto “il divino”, col quale seriamente è impossibile istituire un rapporto vero e proprio. Ancora Tommaso dice: “conveniens est ut hoc nomen persona de Deo dicatur […] excellentiori modo” [ibid.]. Dio è persona in grado eminente.
Infine se l’uomo non fosse persona tutta la serietà del cristianesimo sarebbe distrutta. Su questo Kierkegaard aveva visto bene: se dal discorso cristiano scompare la categoria del “singolo”, è tutto il discorso cristiano che perde senso. Scomparsa l’idea di persona, il cristianesimo diventa un mito, e neanche dei migliori.
Una seconda premessa di carattere storico. È pacificamente ammesso da tutti gli storici delle idee che la nozione di persona, e la definizione di uomo in termini personalistici è stata opera del cristianesimo. Ed è inoltre ben noto che anche oggi quella nozione e definizione è assente dalle culture che non hanno ancora avuto un incontro profondo colla proposta cristiana.
Il pensiero cristiano è stato costretto ad una fatica teoretica immane in quanto solo l’idea di persona in relazione all’idea di natura o essenza poteva consentire una confessione cristiana ortodossa dei due principali misteri della sua fede, il mistero trinitario ed il mistero cristologia).
Non è questo il luogo, né rientra nei nostri obiettivi, ripercorrere questo affascinante cammino teoretico, esposto per altro oggi anche nei manuali di teologia. A me preme di fare una riflessione rigorosamente teoretica, dividendola in due parti, nella prima cercherò di elaborare il concetto di persona; nella seconda cercherò di riflettere su una nozione fondamentale per capire l’essere personale, quella di dignità.
Elaborazione del concetto di persona
Anziché partire da una definizione di persona e poi deduttivamente mostrarne le implicazioni, preferisco percorrere un cammino più fenomenologico, iniziando da ciò che caratterizza l’essere-persona. Percorreremo questo cammino in due tappe, corrispondenti alla risposta a due domande: che cosa vivo quando dico “io”? che cosa denoto quando dico “tu”? percorrendo queste due tappe giungeremo dentro all’essere personale.
Il proprio io si manifesta a se stessi in grado eminente nell’atto libero di scelta. Ne abbiamo lungamente parlato lo scorso anno. Nel presente contesto lo facciamo più brevemente ed in una prospettiva un poco diversa.
Non è difficile prendere coscienza della propria libertà come della facoltà mediante la quale l’uomo determina se stesso ad agire in vista del raggiungimento di scopi che si è prefisso. Nell’atto libero, nell’esercizio della propria libertà l’io diventa consapevole di se stesso come causa in senso vero e proprio delle proprie azioni. S. Tommaso usa una formula filosoficamente assai audace quando insegna che l’uomo libero è causa sui, non nel senso che uno è causa del suo esserci, ma nel senso che mediante i propri atti configura se stesso.
La consapevolezza che l’uomo ha di essere causa dei suoi atti genera l’esperienza della responsabilità, dell’imputabilità morale e giuridica dell’atto a chi lo ha compiuto, di esperienze spirituali come il rimorso ed il pentimento. Se riflettiamo seriamente su questo fatto, noi vediamo che causalità dei propri atti, responsabilità, imputabilità, pentimento e rimorso sono come linee che convergono tutte su un punto; sono come tanti sentieri che conducono allo stesso luogo: la soggettività o meglio la sostanzialità della persona. Mi spiego, poiché questo è il punto centrale.
Riflettiamo sul concetto di imputabilità. Esso connota un rapporto di appartenenza dell’atto a chi lo ha compiuto, senza possibilità di “procedere ulteriormente”. Se infatti la persona in questione potesse dire: “io ho compiuto questa azione perché sono stato costretto a farlo da x o y”, l’atto non sarebbe più imputabile in senso pieno a chi lo ha effettivamente compiuto. Si dovrebbe “procedere oltre” l’agente ed attribuire l’azione precisamente a x o y.
Ma che cosa significa veramente il dire che l’esperienza dell’imputabilità ci fa arrivare ad un “punto” oltre il quale non si può procedere? Rispondo partendo da un esempio semplice. Non esistono i colori, esistono sempre superfici colorate. Il colore cioè può esistere solo inerendo ad una superficie estesa.
L’imputabilità dell’atto ci manifesta che esso non … è sospeso per aria ma è radicato e come inerente alla persona che lo ha compiuto: “le loro [degli uomini] opere li seguono”, dice la Scrittura. Dunque, l’azione inerisce alla persona. E la persona a che cosa inerisce? A niente altro che a se stessa. Essa cioè è in sé. Per indicare questa modalità di esistere [in sé e non in un altro] il vocabolario filosofia) cristiano ha usato la parola “sussistenza”.
Essere sussistente
Siamo arrivati ad una prima fondamentale determinazione dell’essere-persona: è un essere sussistente. Si potrebbe mostrare come percorrendo anche gli altri raggi giungeremmo alla stessa conclusione, all’io come essere che è in se stesso, cioè sussistente.
Non possiamo prolungare oltre il discorso. Dobbiamo ora chiederci di che natura è questo essere sussistente che è il nostro io. La risposta possiamo trovarla approfondendo l’esperienza della nostra libertà; prolungando con più attenzione la riflessione precedente. La tesi che ora cercherò di dimostrare è la seguente: dall’esistenza della libertà si deve indurre con certezza che l’io è di natura spirituale.
Se prendiamo coscienza profonda di ciò che accade in ciascuno di noi quando diciamo “io scelgo – io agisco”, ci rendiamo conto che l’atto libero implica un auto-possesso tale, un auto-determinazione all’agire tale da contraddire la dipendenza causale dell’agire, meglio dell’io che agisce, dalle leggi e dai fatti del mondo materiale.
L’atto implica un’auto-possesso ed un auto-determinazione tale da contraddire la dipendenza causale [si noti bene: causale] dai processi cerebrali, da contraddire una causazione estrema all’io sia nel senso di causazione proveniente dalla natura sia di causazione proveniente dai processi cerebrali. L’io dunque non è né semplicemente “la serie ben legata delle sue manifestazioni, né semplicemente identico ai suoi processi cerebrali”.
“Nella libertà non solo la natura immateriale ma anche l’essere spirituale autonomo, autosufficiente e sostanziale della persona [dell’anima] rivela se stesso. Un semplice accidente di una sostanza non potrebbe mai compiere atti liberi” [J. Seifert, Anima, morie e immortalità, in Anima, A. Mondadori editore, Milano 2004, pag. 164],
Siamo così arrivati alla definizione fondamentale di persona: la persona è una sostanza spirituale; oppure equivalentemente: è una sostanza individuale sussistente in una natura spirituale. Ho usato la parola “sostanza”. Ne do la descrizione con le parole di J. Maritain; “La sostanza è la prima radice ontologica di qualcosa, nella sua permanente attualità.
La sostanza non è né vuota né inerte, ma al contrario, grazie alla sua essenziale unità, alla sua irriducibile realtà e alla sua originalità specifica ed individuale, essa è la sorgente di tutte le facoltà, di tutte le operazioni, di tutta l’attività e la causalità del soggetto”. La persona è una sostanza individuale spirituale che è capace di pensiero, libertà, consapevolezza, autocoscienza.
Sembra tuttavia che la nostra riflessione ci abbia condotto ad una conclusione un po’ strana… Se l’io è una sostanza spirituale, allora il mio corpo non entra nella costituzione della mia persona. Io non sono, ma semplicemente ho il mio corpo. Fra persone e corpo non esiste una relazione di essere, ma di avere.
Come sappiamo questo modo di pensare ha accompagnato per secoli l’uomo occidentale, né lo ha abbandonato neppure oggi. Su questo punto la fede cristiana ha generato una visione del corpo umano in rapporto alla persona umana di grande novità ed attualità, che posso esprimere nel modo seguente: lo spirito non è l’intera sostanza della persona umana, la quale è anche il suo corpo.
Lo spirito non è il soggetto umano completo. Perché ci sia l’intera persona umana, l’intero soggetto umano, si richiede anche il corpo. Il corpo entra nella costituzione della persona umana: l’io è anche il suo corpo. Chi nel pensiero cristiano ha espresso con maggior rigore teoretico questa tesi è stato Tommaso d’Aquino.
Egli l’ha formulata nel modo seguente: “principium quo primum intelligimus, sive dicatur intellectus sive anima intellectiva, est forma corporis” [l,q.76, a.l]. La formulazione è molto tecnica ed esige di essere spiegata. Significa che “l’io che si coglie come corporeo negli stati affettivi (in certi stati affettivi) è lo stesso io che, riflettendo, ha coscienza di conoscere, di contemplare la bellezza, di fare metafisica… L’uomo si coglie come uno”. Scrive Tommaso: “ipse idem homo est qui percepit se et intelligere et sentire” [ibid.]. Dunque, la tesi dell’unità sostanziale intende descrivere in primo luogo un’esperienza fondamentale dell’uomo: l’esperienza dell’unità del proprio io nella pluralità specifica delle sue operazioni.
Quell’affermazione non è banale. “Significa infatti che, anche partendo dal punto di vista dell’ “io”, ossia del “soggetto pensante” consapevole di sé proprio in quanto “pensante”, dobbiamo concludere che l’oggetto di questa consapevolezza non è solo l’anima. Comprende anima e corpo insieme”. Ma la tesi non ha solo un carattere descrittivo, ma anche e soprattutto fondativo-esplicativo: essa cioè è l’unica spiegazione vera – secondo Tommaso – del fatto che “ipse idem homo est qui percipit se et intelligere et sentire”, in quanto è l’unità sostanziale della persona che causa quel fatto.
È necessario a questo punto che passiamo dal significato “fenomenologico” al significato “ontologico” della tesi, per capire che cosa essa dice dell’essere della persona umana. Il testo più rigoroso dal punto di vista concettuale mi sembra il seguente: “anima illud esse in quo ipsa subsistìt, communicat materiae corporali, ex qua et anima intellectiva fit unum, ita quod illud esse quod est totius compositi, est etiam ipsius animae”.
L’anima spirituale dell’uomo è sostanza; sussiste in se stessa. Non nel senso che sia completa nella sua natura specifica o che esista come singolo individuo. E neppure nel senso che esista come completa natura specifica [= quale quid, dice Tommaso] non in se stessa ma in singoli individui molteplici [come l’umanità esiste nei singoli uomini].
È sostanza, qualcosa di determinato [hoc aliquid], capace di sussistere in se stessa, “non quasi habens in se completam speciem, sed quasi perficiens speciem humanam ut forma corporis” [Q. disp. De Anima, a. 1e.].
Unicità di corpo e anima
L’essere della persona è dunque uno perché è lo stesso essere dell’anima partecipato anche al corpo a livello di causalità formale ovviamente, non efficiente [cfr ibid. ad 1 um]. “L’anima perciò esiste nella persona come parte autonoma dotata di un proprio essere ed operare, ma esiste anche come forma sostanziale (principio che da unità formale e determinazione alla materia di una sostanza fisica) della sostanza personale “prima” del singolo individuo umano” [G Basti, Filosofia dell’uomo, ESD, Bologna 1995, pag. 355].
Il principio intellettivo o anima possiede l’atto ai essere in proprio rispetto al corpo ma non in assoluto, in quanto non l’intelletto è, ma la persona che sussiste nell’unità dell’anima e del corpo.
Sulla base di che cosa Tommaso afferma che l’atto d’essere dell’anima è atto d’essere della persona più che e prima che atto di essere dell’anima? S. Tommaso rimanda sempre al seguente fatto: “experitur […] unusquisque seipsum esse qui intelligit” [I, q.57, a. 1 ]. So, cioè, che sono io che penso ed esisto.
“Dunque il fondamento d’essere, lo è che precede e rende possibile il mio atto di pensare, in realtà precede e rende possibile il mio atto di esistere come persona. E io so che continuo ad esistere e a essere io, persona, anche quando non penso. Dunque l’atto d’essere, prima che fondamento de! mio pensiero, è fondamento del mio esistere proprio come persona” [P.P. Ruffinengo, Outonoesis. Introduzione alla metafìsica, Genova 2002]. Poiché infine l’io è mediante la forma [cfr. 1, q.76, a.4] e alla “forma umana” [cioè all’anima umana] pertiene l’essere come la rotondità al cerchio, l’io o la persona umana è incorruttibile o eterna: eterna per partecipazione.
Ho cercato di spiegare il significato ontologico della tesi dell’unità sostanziale della persona umana. Ora dobbiamo esplicitare alcune fondamentali implicazioni di quel significato. La prima è l’affermazione dell’assoluta spiritualità della forma sostanziale, o anima, della persona umana.
L’unica composizione presente in essa (forma sostanziale) è quella fra essenza ed atto di essere, non fra materia e forma [cfr. 1, q.75, a.3. ad 4; Q. disp. De anima, a.6]. La spiritualità della forma sostanziale umana non esclude la necessità del corpo per l’attuazione delle sue attività proprie, il pensare ed il deliberare. Ha però bisogno del corpo “non tamen sicut instrumento, sed sicut obiecto tantum” [in De Anima I, 2, 19-20].
La seconda è l’affermazione che per l’anima spirituale l’unione al corpo è naturale e benefica. Lo spirito umano si distingue nel mondo degli spiriti perché dice ordine ad un corpo, cosi come la persona umana nell’universo delle persone si distingue per essere propriamente una persona-corpo; e reciprocamente, nell’universo materiale il corpo umano si distingue da ogni corpo per essere un corpo-persona.
Dato che questa è la persona umana, “anima corpori unita plus assimilatur Deo quam a corpore separata, quia perfectius habet suam naturam” [Qd de potentia, q.5, a.10, ad 5um]. È una unione benefica: “proptcr melius animae est ut corpori uniatur et intelligat per conversionem ad phantasmata” [1, q.89, a.I].
La terza e più importante implicazione è l’unicità della forma sostanziale. Questa tesi è decisiva in ordine all’affermazione dell’unicità della persona umana. [Cfr. 1, q.76, a.3: “si […] homo ab alia forma haberet quod sit vivum, scilicet ab anima vegetabili; et ab alia quod si animal, scilicet ab anima sensibili; et ab alia quod sit homo, scilicet ab anima rationali: sequeretur quod homo non esset unum simpliciter”].
Secondo la suggestiva tesi tommasiana, la forma sostanziale spirituale è virtualmente sensibile e vegetativa: “sicut […] superficies quae habet figuram pentagonam […] non per aliam figuram est tetragona et per aliam pentagona ” [cfr. la più elaborata esposizione in Quodl. IX, q.5]. L’unità della persona umana fa si che niente nell’uomo sia puramente animale o puramente spirituale: è semplicemente umano.
Abbiamo concluso il nostro primo percorso. Alla domanda che cosa è la persona umana rispondiamo: è una sostanza che sussiste in una natura spirituale-corporale – è soggetto sussistente in una natura spirituale-corporale: è l’io spirituale-corporeo.