Se ne è discusso al Consiglio Nazionale delle Ricerche
di Luca Marcolivio
Alla conferenza erano presenti alcuni medici, neurologi e accademici di fama internazionale, insieme al curatore del libro, il professor Roberto de Mattei, già Vicepresidente del CNR e docente di Storia del Cristianesimo all’Università Europea di Roma. L’intervento del professor Paul A. Byrne, neonatologo del S.Vincent’s Medical Center di Bridgeport (Connecticut), ha subito messo in luce numerosi casi clinici sorprendenti. Quanto emerge dall’esperienza diretta del professor Byrne testimonia che spesso molti pazienti nati con danni cerebrali alla nascita, oggi conducono una vita sostanzialmente normale e, soprattutto, sono felici di vivere.
“Parliamo di morte – ha affermato Byrne – solo ed esclusivamente quando vengono a mancare tutte e tre, le funzioni vitali della persona: l’apparato circolatorio, l’apparato respiratorio e l’apparato cerebrale. Non è il cervello che conferisce la vita ad un corpo, bensì l’anima”.
“Il comitato di Harvard del 1968 – ha proseguito – identificò convenzionalmente il concetto di morte con la cessazione delle funzioni cerebrali, ovvero con il determinarsi di quello stato, definito di ‘coma irreversibile’. Da allora sono stati pronunciati almeno un’altra trentina di criteri per definire la soglia della morte”.
“La vita, in definitiva (e qui mi rifaccio al magistero di Papa Giovanni Paolo II) va tutelata dall’inizio alla fine, e non è accettabile che un medico possa contribuire alla morte di un proprio paziente, né che un uomo venga soppresso per salvarfe un altro uomo”, ha poi concluso. “Il titolo del libro – ha affermato de Mattei – Finis vitae, allude non soltanto alla conclusione della vita, ma anche al significato della vita stessa. Il problema che abbiamo posto è di carattere giuridico-morale: è lecito asportare un organo vitale da una persona cerebralmente morta? La maggior parte dei sistemi giuridici occidentali risponde affermativamente”.
“Sul piano strettamente etico e filosofico – ha aggiunto de Mattei – si registra, al contrario, una comunità accademica divisa. La nostra posizione, in linea con il magistero della Chiesa, sostiene il rispetto della legge naturale, ovvero l’illiceità della soppressione di una vita, finanche per uno scopo nobile come salvarne un’altra”.
“La svolta di Harvard del ’68 fu condizionata dall’evento epocale del primo trapianto di cuore effettuato da Christian Barnard, alcuni mesi prima. Ciò poneva il dilemma morale delle modalità di espianto, visto il rapido deterioramento degli organi non vitali”.
“Ci si trovò dunque ad un bivio: modificare la morale o, in alternativa, cambiare il criterio di classificazione ed accertamento della morte – ha continuato –. La prima strada è la neoetica di impostazione laicista che si arroga il diritto di dire chi ha diritto o meno di vivere. È il sistema caro agli utilitaristi e ai sostenitori dell’aborto”.
“La seconda strada è scientifica e intende riformulare il momento della conclusione fisica della vita umana. Il punto è che non sta agli scienziati ma ai filosofi definire il significato profondo della vita”.
“Nessuno può affermare – ha proseguito de Mattei – che l’individualità biologica di una persona cessa con la morte cerebrale. Il cervello integra alcune funzioni dell’intero corpo umano ma non può essere l’integratore generale di tutte le funzioni vitali”.
“Un teologo come Vito Mancuso, citando a sproposito San Tommaso d’Aquino, arriva ad affermare che un neonato o un cerebroleso non sono da considerarsi persone, non avendo sviluppato le funzioni cerebrali – ha commentato lo storico –. In realtà la loro funzione vitale non risiede nelle facoltà intellettive, delle quali essi non sono privi, sebbene non possano esercitarle”.
Sul concetto di morte cerebrale è intervenuto anche il professor Josef Seifert, membro dell’Accademia Internazionale delle Scienze del Liechtenstein. “Se identificassimo la morte con la morte cerebrale – ha affermato Seifert – dovremmo ammettere che la distruzione dell’encefalo comporterebbe la dissoluzione dell’intero organismo umano”.
“La vita umana scaturisce, invece, dall’integrazione di corpo e anima – ha proseguito il filosofo – laddove l’intelletto è una funzione fondamentale ma non superiore alle altre, né può essere la sede dell’anima. Il collegamento tra anima e corpo è qualcosa che va ben al di là delle funzioni cerebrali”. Di seguito il professor Cicero Galli Coimbra, neurologo dell’Università di San Paolo del Brasile, ha illustrato alcuni interessanti dati riguardanti la morte cerebrale e, in particolare i danni che possono scaturire ai pazienti dal test di apnea.
“C’è una vastissima percentuale (circa il 50^) di pazienti – ha detto Coimbra – in coma profondo che sono stati in grado di riprendersi (in alcuni casi fino al ritorno ad una vita normale) se sottoposti in tempo ad ipotermia, invece che al test di apnea”. L’ultima relazione è stata quella di Mercedes Wilson, membro della Fondazione “Family of the Americas”, le cui considerazioni sono state essenzialmente di carattere etico.
“Il concetto di morte cerebrale – ha affermato la dottoressa Wilson – è stato ‘inventato’ per avvantaggiare gli interessi di una certa classe medica. È una falsità che viene utilizzata, spesso con la scusa di voler fermare il traffico di organi”.
“Il nostro punto di riferimento è la dottrina sociale della Chiesa che ha sempre ribadito la sacralità della vita, dal concepimento fino alla separazione totale dell’anima dal corpo: la morte si consuma solo in quell’istante e non è necessario essere medici per comprenderlo”.
“Dobbiamo accettare questa sfida, altrimenti saremmo condannati al silenzio”, ha poi concluso.