Gli sciiti nel contesto pluriconfessionale: il caso del Libano / 2. Seconda parte dell’analisi dei principi fondanti del movimento Hezbollah, da tempo padrone incontrastato del sud del Paese. Alle radici di una militanza radicale e totale la concezione del mondo «come un semplice ponte che conduce all’eternità».
Dominique Avon (*)
È per questo che i nostri martiri sono morti ed è per questo che noi procediamo e proseguiamo il nostro lavoro e il jihad. Tu ci hai promesso una di queste due ricompense: o la vittoria o l’onore di incontrarti ornati di sangue» (1). Il martirio così inteso inverte l’ordine dei valori terreni: ciò che può apparire come una sconfitta nella vita terrena è in realtà una vittoria gloriosa per l’eternità.
I discorsi del Segretario generale del Partito, Hasan Nasrallah, sono quasi sempre basati su una lettura in due tempi della storia più recente. Il primo tempo è l’era degli affronti e dei fallimenti, a partire dalla Nàkba (“catastrofe”) del 1948, la vittoria di Israele contro gli stati arabi coalizzati, prolungatasi nel 1956 e poi soprattutto nel 1967, con la guerra dei sei giorni che, con l’eccezione del Sinai e della Striscia di Gaza, ha congelato la carta geografica della regione.
È significativo che la guerra del Kippur del 1973 sia lasciata in ombra visto che, dal punto di vista di Hezbollah, è all’origine del primo grande “tradimento” arabo, quello dell’Egitto, il primo Paese della regione a sottoscrivere un trattato di pace con Israele, nel momento stesso in cui il Libano meridionale veniva invaso.
Il secondo periodo vede protagonista il Libano: l’esercito israeliano, che nel 1982 ha spinto i suoi carri armati fino a Beirut per cacciare dal Paese i militanti OLP, inizia la sua ritirata nel 1985, alla vigilia del momento in cui Hezbollah si da a conoscere come organizzazione strutturata, dotata di un progetto politico-religioso. Risalgono a questo momento le prime gesta vittoriose dei combattenti del “Partito di Dio”: il 1985, poi il 1993 (operazione Responsabilità, secondo il nome datole dagli israeliani), 1996 (operazione Grappoli d’ira, segnata dai bombardamenti sui civili a Cana), 2000 (ritiro unilaterale dal sud del Libano), 2006 (guerra del luglio-agosto definita una “vittoria divina”, nasr ilàhi) (2).
Per via del rapporto tra le forze in campo, ognuna di queste tappe viene presentata come un successo eroico, su cui è impresso il sigillo divino. La commemorazione degli eventi politico-religiosi nella forma di “giornate” conosce una crescita esponenziale: Giornata di “al-Quds” (Gerusalemme), dei “Dannati della terra”, del “Massacro di Cana” ( 1996), del “Martirio di Hàdì Nasrallah” (1997), della “Liberazione” (2000) e della “Seconda Intifada” (2000). Il ricordo di questi momenti è associato alla politica dei siti, che mira a organizzare un turismo della “Resistenza”: un progetto che contempla la creazione di uno spazio multimediale nella dàhiya [la periferia sud di Beirut, N.d.R.], un museo all’interno della prigione di Khiyàm (distrutto nel 2006), una mostra permanente situata a lato dell’antico sito di Baalbek e dei pannelli sul castello di Beaufort che ricordano la “presa” di questo luogo strategico.
L’obiettivo militare finale è la distruzione di Israele, a causa dei mali che gli sono imputati e perché «luoghi santi cristiani e musulmani» – l’aggettivo “ebraici” è volontariamente omesso in relazione a Gerusalemme nella Carta del 2009 (3) – e «terre islamiche» sono indebitamente occupate. Ancora nell’autunno del 2009 Nasrallah annunciava che, grazie alla determinazione di Hezbollah, agli avvenimenti recenti, ai cambiamenti demografici e ai possibili rovesci della politica statunitense, la sua generazione avrà l’onore di veder scomparire Israele.
In vista dell’ultimo giorno
II jihad è di natura religiosa ed è collocato in una prospettiva escatologica (4). Gli imam concepiscono il mondo «come un semplice ponte che conduce verso l’eternità». Dunque è necessario procedere per gradi. Gli sforzi devono essere quotidiani (cortesia, generosità e disciplina). La preghiera, «la migliore attività benefica», è obbligatoria ed è consigliabile compiere anche azioni supererogatorie. La pietà, che libera dalle «passioni limitate del mondo», è una condizione necessaria ma non sufficiente, come del resto le «prescrizioni della Legge religiosa».
Tutto viene contabilizzato in vista dell’ultimo giorno e per alcuni la pena sarà pesante (sono qui denunciati «la debolezza», il «lassismo» e l’«intemperanza» di molti musulmani), leggera per altri. «Il mujàhid sulla via di Dio, che abbandona i piaceri della vita per combattere il nemico, non può essere uguale, dal punto di vista della giustizia divina, a chi resta inerte. Si situa su un grado superiore nella vita di questo mondo e dell’altro. Ha in questa vita luce e purezza di cuore […] e nell’aldilà la gioia eterna.
Accede al paradiso in compagnia dei profeti e dei santi». Ai “martiri” è promessa una «dimora straordinaria» presso Dio. I piaceri del paradiso, ricompensa di quanti meritano di entrarvi – senza specificazione precisa per il mujàhid – sono morali (5) («parlare con Dio», «accompagnare il profeta»…) e fisici: il cibo, la bevande, le relazioni sessuali con le Hùr al ‘ayn, la vita nei castelli del paradiso, la contemplazione di bei paesaggi.
Nel Corano la “vita futura” non è oggetto di sviluppi particolari al di fuori di questi rapidi accenni, in cui riecheggiano rappresentazioni fatte proprie dalla maggior parte dei musulmani, sciiti e sunniti. D’altra parte è uno shaykh sunnita libanese, Soubhi el-Saleh, ad aver tentato una messa a punto sui “dati del paradiso” e i “dati dell’inferno” (6).
Secondo le testimonianze raccolte fra gli sciiti che hanno ricevuto tale formazione, non c’è alcuna insistenza né sulla «visione di Dio e del suo Trono», né sul piacere che la contemplazione della «bellezza divina» deve procurare. Gli insegnanti mettono invece in risalto la gerarchia degli eletti: i chierici possiederanno i castelli; i migliori tra gli uomini frequenteranno i profeti e gli imam, le migliori tra le donne frequenteranno le più illustri personalità femminili a cominciare da Zaynab.
Viene anche chiarito che alcuni potranno accedere a questo paradiso dopo un passaggio all’inferno, la cui descrizione è altrettanto precisa: capelli strappati da un ragno per le donne; preghiera continua su un tappeto di braci per i cattivi credenti; pelli costantemente squamate per quanti avranno commesso peccati corporali.
La “fine dei tempi” – àkhir al-zamàn – è considerata prossima. Il discorso escatologico è sicuramente meno presente in Libano che in Iraq – in particolare in quello che è stato l’ “esercito del Mahdi” dello shaykh Bàqir al-Sadr – o in Iran (in alcuni ambienti, almeno). Ma la sua circolazione è molto rapida e supera le frontiere.
A titolo di esempio, nel periodo 2009-2010 si è sparsa la voce che il progetto nucleare del Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad faceva parte dell’avvento dello “Stato del Mahdi”, al-dawla al-mahdawiyya. A volte si azzardano delle date, «6 anni» o più, ma la regola è la prudenza e i dotti preferiscono eludere le domande dei giovani che osano interrogarli su questo punto.
Secondo i termini tradizionalmente trasmessi in ambito sciita – ma anche all’esterno – s’insegna ai militanti di Hezbollah che questo periodo sarà caratterizzato dal ritorno di tre figure. La prima è quella del Mahdi, il dodicesimo Imam, che è sopravvissuto al suo “occultamento” e il cui regno dovrà durare quarant’anni prima della sua morte. La seconda è quella di ‘ìsà – identificato in Gesù – nato da una vergine ma non crocefisso.
La terza è quella di al-Khidr, il cui nome non compare nel Corano. Secondo i dati desunti dalla Tradizione musulmana, al-Khidr è identificato con la “scienza assoluta” (al-‘ilm al-ladhunì). Quasi sempre è associato a Mùsà-Mosè, ed è presentato come l’ispiratore di tale figura considerata profetica. Gli specialisti del Corano, come Jacqueline Chabbi, lo collegano alla figura mitologica di Adonis, che simboleggia la sovrabbondanza e la scienza (7)
Nel tempo apocalittico segnato da questo ritorno, le tre religioni dette “del Libro” saranno unificate sotto l’egida del solo Islam e un unico governo prevarrà su tutta l’umanità così sottomessa a Dio. Un intermezzo di quattro o cinque anni dovrà separare la morte del Mahdi e il Giorno del giudizio, yawm al-qiyàma.
Quel giorno, tutti gli uomini e tutte le donne saranno riuniti, portando un angelo su ciascuna spalla. Questi angeli, verso i quali i musulmani e le musulmane rivolgono la testa al momento delle preghiere quotidiane, hanno il compito di registrare tutti i gesti, le parole, i pensieri e i sentimenti di ciascuno: se uno di loro rischiasse di dimenticare qualcosa, l’altro è là per correggere l’omissione. Uno scritto riunirà questi elementi per l’ultimo giorno. Prima ancora del giudizio divino, ogni persona conoscerà il suo destino futuro: il paradiso, se sarà l’angelo del lato destro a consegnare lo scritto; l’inferno, se toccherà all’angelo del lato sinistro.
Non esiste un credo fuori dal tempo. Il credo è fatto proprio da uomini e donne ed è associato a una cultura e a un impegno, è collocato nello spazio. Così ciò che esso implica può avere significati variabili. Per circoscrivere le possibilità d’interpretazione, Hezbollah ha fissato un quadro istituzionale e dogmatico. Forma i suoi futuri militanti in scuole proprie (ciò che non impedisce che vengano accolti sciiti con un diverso cursus studiorum) ed elabora e pubblica i suoi manuali d’insegnamento dottrinale.
Forma il suo clero all’interno di strutture specifiche (hawza) ed esige, sotto pena d’invalidità della preghiera, il riferimento ad una “fonte d’imitazione” (marja’iyya), limitando però tale riferimento a due personalità, Ali Khamenei, la Guida suprema iraniana, e Ali Sistànì, la più grande autorità sciita in Iraq. Così facendo, Hezbollah esclude uno dei membri che hanno partecipato alla sua nascita, lo shaykh Mohammad Hussein Fadlallah, deceduto nell’estate del 2010.
Il fatto di omettere Fadlallah mette in luce divergenze di fondo apparse all’indomani della guerra civile e manifesta una connessione tra politica e religione tanto più rilevante perché iscritta in prospettiva escatologica. Ma ciò non risolve tutte le difficoltà, tanto significative possono risultare le divergenze tra Khamenei e Sistànì.
Se sembra possibile superarle, è perché queste divergenze sono passate sotto silenzio, in particolare nei luoghi di formazione dei militanti, dove ciò che prevale non è uno scambio tra insegnante e allievo, sulla base di un corpus complesso e di diverse esperienze personali o collettive, ma un insieme di verità in cui credere e di gesti da compiere (8).
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(*) Dominique Avon è Professore di Storia contemporanea all’Università du Moine e docente a Sciences Po (Parigi). Diplomato in arabo all’lNALCO, si è specializzato nello studio comparato delle religioni. Membro del CERHIO (laboratorio del CNRS), coordina la rete di ricerca interdisciplinare “Dinamiche della cittadinanza in Europa”. Ha pubblicato Les religions monothéistes (2009) e Le Hezbollah (2010) con A.-T. Khatchadourian
1) Traduzione integrale e inedita in Dominique Avon e Anak-Trissa Khatchadourian, Le Hezbollah. De la doctrine a l’action: une histoire du «Parti de Dieu», Seuil, Paris 2010, 200-201.
2) Molti riferimenti sul sito http://www.almanar.com.lb
3) Dominique Avon e Anaìs-Trissa Khatchadourian, Le Hezbollah, 195.
4) Per una prospettiva storica, Anaì’s-Trissa Khatchadourian, Maux collectifs dans la pensée de Moussa Sadr, in Dominique Avon e Karamrizk (a cura di), Delafaute etdu solut dans l’histoire des monothéismes, artes de colloques en histoire comparée (Università de Kaslik, Lìban, décembre 2005 – Université du Maine, France, novembre 2008), Karthala, Paris 2010, 221-233.
5) Durùs Fi usul al-‘aqìda al-islàmiyya [Lezioni sui principi del dogma islamico], Jama’iyya al-ma’àrif al-islàmiyya al-thaqàfiyya, Beyrouth 1999,176,182.
6) Soubhul-Saleh, La vie future selon – le Coran, Vrin, Paris 1986, 42
7) Jacqueline Ch’abbi [corso di preparazione alla agrégation di arabo – anno 1989 – Rif. BMooo/7To1].