Dal blog di Costanza Miriano 16 marzo 2015
di Costanza Miriano
C’è un’infinità di argomenti contro l’aborto, ma io, visto che mi piace perdere facile, scelgo il più opinabile, il più attaccabile, il meno spendibile in un dibattito pubblico: l’aborto rende le donne infelici. Si potrebbe affrontare il tema sul piano filosofico, come Bobbio (o la Paola Belletti, la mia filosofa preferita, di certo la più gnocca), culturale, come Pasolini, di fede, come fa la Chiesa, o ancora economico, come fa chi elenca nomi dei finanziatori dei prochoice e cifre (fiumi di denaro: perché?). Si potrebbero contestare i numeri falsi che hanno alimentato falsi miti e portato all’approvazione delle leggi sulla base di bufale (come la sentenza Roe – Wade negli Usa o la campagna radicale in Italia), e mostrare come l’aborto ha risparmiato pochissime vite di donne evitando l’aborto clandestino ma ha sterminato schiere infinite di bambini che senza la 194 sarebbero nati.
Si potrebbe raccontare la storia delle leggi e delle bugie, come Socci nell’imperdibile Il genocidio censurato, o raccogliere le voci di medici che dopo migliaia di corpi straziati non ce la fanno più, a volte neanche gli abortisti più convinti, perché loro lo sanno che stanno tradendo il giuramento di Ippocrate, per cui hanno promesso di curare e non di procurare morte.
Invece a me l’argomento che mi infiamma – lo so, “a me mi” non si dice, ma serve a sottolineare -, quello che mi fa arrabbiare, che mi toglie anche il sonno quando incontro qualche storia di donna alle prese con LA decisione della sua vita (e non solo della sua), è che le donne sono infelici se abortiscono, e a me dispiace tanto per loro, e mi arrabbio per le bugie che hanno ascoltato. Non credo che sia neanche un fatto di bontà, o di sensibilità o nobiltà d’animo.
Le donne soffrono perché le nostre viscere più profonde e ancestrali fremono quando uccidono la vita che pulsa dentro di loro, e che chiede di essere accolta, chiede sangue e cellule e carne e fiato per resistere. È una questione prima di tutto animale. Una donna lo sa che sta facendo una cosa contraria a quello a cui tutto il suo essere tende. Lo sa che il suo corpo e il suo cervello sono programmati per questo. Lo sa che sta uccidendo il suo bambino, e non sta raschiando via il frutto del concepimento. Lo sa che poi per tutta la vita si chiederà chi sarebbe stato quel bambino, che gusto di gelato avrebbe preferito, se avrebbe avuto paura dell’acqua o del buio o dei ragni. Si tormenterà per questo piccolo che lei ha lasciato andare via da solo, nel freddo, tra i rifiuti, tradito dalla sua mamma.
Certo, se la potrà raccontare per un po’. Per un bel po’, anche. Io le conosco direttamente, di persona, nomi e facce. Alcune sono arrivate alla fine della vita senza riuscire ad ammettere a se stesse quello che avevano fatto. Perché era troppo doloroso e faticoso e complicato ammettere di avere sbagliato tutto. Poi sul letto di morte invocavano quel bambino. Le ho viste coi miei occhi. Donne che a 80 anni non riuscivano a perdonarsi di un aborto clandestino fatto magari 60 anni prima.
Donne che si erano indurite e sono rimaste sole. Donne che avevano portato la nevrosi nella loro famiglia, facendone pagare il prezzo anche ad altri figli. Donne dipendenti dall’alcol, dagli psicofarmaci. Donne che non potevano più guardarsi allo specchio. Donne che avevano perso tutta la stima di sé, e che quindi non si facevano stimare dagli uomini. Donne che non denunciavano gli stupratori perché a causa di un aborto fatto anni prima pensavano di meritarsi quel male.
Eppure nessuna di quelle donne si meritava nessun male, tanto meno una violenza. Quelle donne si meritavano di essere prese per mano, abbracciate, contenute in un abbraccio più grande del dubbio, della paura, dell’incertezza. Andava detto loro che non sarebbero state sole: a una mamma non serve tanto per dire sì. Serve solo una spinta, perché poi una mamma trova dentro di sé delle energie che neanche sospettava di avere. Una mamma prende a spallate i muri, solleva le montagne, dorme tre ore a notte e ne ha ancora sempre per tutti, per leggere I viaggi di Giovannino Perdigiorno e preparare la cena e ascoltare un racconto di supereroi anche se non si siede da diciannove ore.
E le mamme che hanno abortito, sempre mamme sono, oggi si meritano un abbraccio, qualcuno che le lasci piangere fino a che gli occhi si secchino e la mente si svuoti, qualcuno che permetta loro di guardare il male fatto, di perdonarsi e di ricominciare, ricordando loro che tutti siamo peccatori perdonati infinite volte al giorno. Ma per avere perdono serve chiederlo, guardare una volta, una sola, quello che si è fatto, perché neanche i regali si possono ricevere se noi non li si accolgono.
Non è che solo le donne che abortiscono abbiano qualcosa da farsi perdonare, basta essere uomini per essere poveri uomini, come diceva Mazzolari. Il punto è che sono loro che non si perdonano, perché continuano a dirsi di avere esercitato un diritto, quando sanno benissimo, da qualche parte nelle viscere, che non è così. Non voglio assolutamente in nessun modo alimentare la mistica della madre santa eroica perfetta. Non è che essere mamma sia niente di straordinario, né ci rende particolarmente speciali in sé il fatto di partorire (lo fanno anche gli animali, volevo dire).
E’ avvenuto svariati miliardi di volte e avverrà ancora, mentre le piogge continueranno a cadere e i tram ad andare e le patatine a essere fritte, non è che il mondo si fermerà perché una fa un figlio. Perché c’è anche l’esagerazione opposta, a volte, almeno tra noi occidentali. Abbiamo talmente tanto perso il senso della naturalezza della maternità che poi quando capita a una, pare la fine del mondo. Si mobilitano schiere di nonni, si fanno i party coi regali delle amiche, gli album fotografici, si comprano attrezzature atte allo sbarco di un commando di piccole dimensioni in Vietnam, si fanno analisi e controlli che manco alla NASA prima di una missione su Marte.
Essere mamme è fisiologico, è normale. Siamo nate per questo, così come camminiamo perché abbiamo due gambe. Poi si può camminare con eleganza come una modella, magari danzare come una étoile, o marciare verso l’oro olimpico, oppure si può camminare arrancando con le buste della spesa, come la maggior parte di noi, cioè essendo mamme normali, che a volte sbagliano a volte fanno bene. Non c’è nessun merito a essere mamme, è nor-ma-le.
Né voglio al contrario alimentare la mistica della maternità tutta delizie e angeli che svolazzano intorno al focolare. Credo che nessuna di noi tragga particolare soddisfazione dal pulire vomiti alle tre di notte o dallo spazzare da terra pezzi di patata lessa spalmata. Non è questo il punto. E poi si può essere mamme in molti modi, anche orribili (io mi accontenterei di essere una madre decente). Anzi, credo che quasi tutte noi proiettiamo il nostro mondo interiore ferito – mai totalmente riconciliato, sempre memore del peccato originale – nel rapporto più viscerale che abbiamo.
Possiamo essere insopportabili, possessive, invadenti, fanatiche. Possiamo anche essere affette da una sorta di delirio di onnipotenza nei confronti dei nostri figli, dei quali dimentichiamo troppo spesso che non sono nostri (noi diamo una mano a Dio, gli permettiamo di usarci, ma i figli sono i suoi). Rischiamo spesso di essere così madri da dimenticare di essere prima spose, ed estromettere i padri dal rapporto, privandoli del ruolo fondamentale: tagliare il cordone, non solo quello di carne, mandare i figli fuori di casa, proteggerli dalla madre, rappresentare il principio di realtà.
Siamo tutte un po’ quella mamma dell’esercizio di grammatica che racconta spesso Franco Nembrini (compito: analizza la mia mamma mi vuole bene. La=articolo determinativo mia= aggettivo ossessivo). Spesso non ci accontentiamo di essere mamme, vogliamo essere mamme al cubo, e questo non è certo un bene. Ma è in qualche modo anche per questo che dico che sono certa che una donna abortendo faccia una cosa contro la sua più profonda natura.
Mi si obietterà che non è vero niente, che ridurre le donne a corpi da fattrici è da Medio Evo e da cattonazista-fascista-islamica (cattoislamica ora che ci penso è da Nobel dell’ignoranza)bla bla bla, e che comunque le donne devono essere libere di rovinarsi la vita, se lo desiderano. Ci sarebbero molte cose da rispondere, prima di tutto che c’è anche un’altra vita in gioco, e potrei andare avanti per ore.
Ma il punto che fa fremere le mie viscere come dicevo è che c’è un bombardamento culturale su queste donne che non le rende pienamente consapevoli di quello che stanno facendo. Non è vero che siamo liberi. Siamo tutti anche culturalmente condizionati nelle nostre scelte. Paola Bonzi, tanto per dirne una, solo abbracciando, contenendo, offrendo aiuto economico è riuscita a far nascere 18mila mamme e altrettanti bambini.
Nessuna mamma deve essere lasciata sola. Mai più. Una donna ha solo bisogno di qualcuno che le dica quanto è bella e forte, che non è sola, che qualcuno la aiuterà a provvedere al suo bambino, che la aiuti a vedere la felicità pazza e strabordante alla quale è stata miracolosamente chiamata. Io ne sono testimone. Ci può essere, molto spesso c’è, un momento di sgomento di fronte alla chiamata: non è il momento, il lavoro, non ci sono i soldi, la casa è piccola, lui non mi ama, non lo amo, sarà la persona giusta, ma i fratelli come la prenderanno, li trascurerò, adesso che ero tornata magra, ho la tiroide sfasata, è il quarto cesareo, il cuore fa i capricci, è il sesto figlio, era la prima sera che uscivo con quest’uomo, proprio adesso che mi hanno offerto il posto in America/all’università/nello studio, sono grande e il bimbo potrebbe avere problemi.
Lo sgomento arriva, spesso, ma la morte non è mai la soluzione. Chiedete a una mamma che ha già figli di uccidere quello di sette anni, visto che non c’è posto in casa. Vi guarderà come se le aveste chiesto di strapparsi via il cuore a morsi. Ecco, si tratta solo di dire a tutte le donne che stanno abortendo che si stanno strappando via il cuore a morsi, solo che non ha sette anni ma qualche giorno di vita.