L’aggressione a Benedetto XVI è sempre più incalzante, grossolana, astiosa, ben orchestrata mediaticamente e male argomentata razionalmente.
di Giuliano Ferrara
Parliamo di burocrazie, naturalmente, non di popoli.Burocrazie e diplomazie che si mettono al servizio di piccole ma insidiose crociate ultrasecolariste contro un Papa che ha avuto la sfacciataggine, come il suo predecessore, di impugnare la ragione per affermare nello spazio pubblico europeo e mondiale il contenuto e il significato della fede cristiana, una fede che assume alcuni principi liberali del tempo moderno senza sottomettersi alla sua deriva nullista.
E contro un Papa che ha avuto là sapienza di impugnare la ragione occidentale ovvero il deposito laico del migliore illuminismo cristiano nel momento in cui un postmodernismo banale delegittima la nozione di verità ed esorcizza la realtà anteponendole una falsa coscienza del soggetto, un’ideologia settaria è al fondo estremamente intollerante.
Stavolta è in nome della difesa della vita che muovono all’attacco i portavoce istituzionali di una cultura i cui pilastri etici globali sono gli spermicidi, l’aborto moralmente indifferente, la pianificazione familiare coatta del sesso dei nascituri, la selezione eugenetica della vita e la sua riproduzione artificiale come mezzo a scopo di ricerca, fino all’eutanasia.
Si lamentano perché Benedetto XVI ha riaffermato, nel corso del viaggio in Africa, la sua convinzione: non è con i profilattici che si combatte la pandemia dell’Aids. Questa convinzione, che alla luce del senso comune regge ogni possibile prova e verifica, dal momento che il preservativo suale di massa alla quale risale la responsabilità del contagio, è notoriamente condivisa in Africa dalla grande maggioranza degli operatori sanitari e sociali, non solo nella vasta rete missionaria cattolica o cristiana di altre denominazioni, ma anche tra i laici.
Tutti sanno quel che molti non si azzardano a ripetere in pubblico per timore di essere sanzionati e ostracizzati come eretici del pensiero unico dominante: tutti sanno, come ripreso in un lancio della Bbc appena due giorni fa, che il tasso di infezione di Washington D.C., la capitale americana che ospita quei lumaconi del Fondo monetario che avrebbero ben altro di cui occuparsi, è pari a quello dell’Uganda (il 3 per cento della popolazione sopra i dodici anni), dimostrazione palese che la differenza la fanno i comportamenti a rischio e non la disponibilità dei profilattici (disponibilità universale nella città di Washington).
Tutti sanno o dovrebbero sapere che tra i neri maschi il tasso di infezione è tré volte quello dei maschi bianchi e due volte quello degli ispanici, e che il vettore di contagio ancora di gran lunga più potente è il sesso promiscuo tra maschi. La cultura politicamente corretta ha fatto dell’Aids un’epopea angelica, ha creato la malattia da adorare idolatricamente e da esorcizzare nella mistica della solidarietà, e tutto per nascondere il fatto che la sindrome da immunodeficienza acquisita è soltanto la conseguenza di comportamenti sociali nuovi e libertari, in cui una sessualità spregiudicata e avalutativa soppianta i vecchi condizionamenti “oscurantisti” della continenza e dell’amore-eros come basamento dell’agape familiare.
Chiunque la pensi diversamente viene non già messo in discussione ma irriso e censurato come retrogrado, e figuriamoci il capo di una chiesa che alla difesa della vita umana dedica il massimo delle sue energie; figuriamoci un Papa che, scandalo e follia per il pansessualismo del neopaganesimo contemporaneo, crede nell’educazione, nella sobrietà dei costumi, in una sessualità umana orientata alla costruzione di significati vitali e non alla distruzione dell’amore nella caricatura del piacere.
Con grandissima boria, con infinita presunzione, con un linguaggio moralmente ricattatorio, le burocrazie che stanno al vertice delle potenze civili della vecchia Europa e le nomenclature globaliste mettono sotto accusa il Papa, dall’alto della oscena pratica di un miliardo di aborti in trent’anni, per “at tentato alla vita in Africa”. Un disgustoso paradosso.