L’alba di Farhad

Farhad BitaniTracce n.11 dicembre 2015

Figlio di un mujaheddin, con un passato immerso nell’odio. Di fronte agli attentati, racconta che cosa ha trasformato la sua vita.

di Alessandro Stoppa

Farhad non ha mai visto le gambe di sua madre. Solo in una vecchia foto, quando lui non era ancora nato e lei posava con una gonna corta negli anni della pace e dello sviluppo sotto il re Shah. Ma anche alle foto, concedeva solo un’occhiata veloce. Il giorno che se n’è trovata in mano una di suo fratello vestito all’occidentale, l’ha gettata in terra come se scottasse.

Farhad Bitani è nato musulmano («e lo sarò sempre», dice), in Afghanistan, classe 1986: ultimo di sei figli di un generale dei mujaheddin. Ha vissuto prima immerso nel potere e nei soprusi dei forti, poi da perseguitato sotto i talebani: ma, sempre, in guerra. L’odio per l’Occidente infedele se l’è trovato addosso come la polvere da sparo con cui giocava in giardino, sognando di diventare come quell’uomo che vedeva allontanarsi a cavallo. «Mio padre combatteva tra i guerriglieri di Ahmad Massoud, cioè lo Stato islamico», racconta Farhad: «Dopo essere stato nell’esercito di Mohamad Najibullah, l’ultimo presidente della Repubblica democratica dell’Afghanistan, era diventato fondamentalista».

Era normale respirare la crudeltà necessaria alla “guerra santa”. Era tutto normale: la gente punita per strada, le ragazzine vendute, le decapitazioni e “il ballo del morto”, quando nel corpo senza testa mettevano l’olio bollente per farlo agitare al suono della musica. Toccava le mani appese agli alberi dei colpevoli di furto per capire se fossero di giovani o vecchi.

Ogni venerdì, andava allo stadio sabbioso di Kabul, per assistere alle lapidazioni. Solo una volta, su quegli spalti, ha provato qualcosa di diverso: due bambine strappate all’abbraccio della madre, che le saluta per l’ultima volta e poi cade sotto i colpi delle pietre davanti a loro. Farhad sente una stretta al cuore. Non sa cosa sia. Vorrebbe gridare, ma non capisce da dove venga quell’urlo che non esce, mentre la folla si accanisce. E il marito della donna, che tiene per mano le figlie, le augura l’inferno.

L’inferno era lì. Quotidiano. Ma Farhad non vedeva: «Quel tempo e quello spazio mi contagiavano, non mi rendevo conto della disumanità, anche mia». Delle ingiustizie, della tensione nervosa continua, del dolore del popolo. «An­che le persone più normali diventavano animali, perdendo la capacità di giudicare». Tutto nell’impunità e nell’ipocrisia di chi si ergeva giudice e boia in nome del Corano e viveva peggio degli altri. Lui taceva, come quel giorno allo stadio, davanti alle feste di armi e hashish, le vacanze con i soldi estorti, i ragazzini costretti a prostituirsi.

Nel 1997, quando i talebani sono già al potere, suo padre finisce nel carcere di Kandahar per due anni. Riuscirà ad evadere e vivranno tutti insieme in Iran fino al 2001. Poi, di nuovo, l’Afghanistan e il potere, con i mujaheddin dell’Alleanza del Nord. Nel mezzo, avevano perso tutto. Sua madre non mangiava per lasciare quel poco che c’era ai figli. Silenziosa, gli ha insegnato tanto in mezzo al buio. Farhad non aveva capito perché gli altri fratellini che aveva portato in grembo non fossero mai venuti al mondo. Gliel’ha chiesto ormai grande: «Sarebbero nati con il kalashnikov nella culla».

Oggi Farhad ha ventinove anni: è arrivato in Italia per la prima volta nel 2004, quando il padre, diventato uomo fidato del presidente Hamid Karzai, viene mandato a Roma per lavorare in Ambasciata. «Ero convinto di essere finito tra gente che meritava solo una pioggia di fuoco. Invocavo la vendetta di Dio su voi infedeli». Poi, è successo qualcosa. Di fragilissimo, in apparenza. Ma che ha avuto la forza di cambiargli tutta la vita.

Nel 2006 era stato ammesso all’Accademia militare di Modena. Non con­cedeva a nessuno la sua conoscenza. Tanto meno la sua amicizia. Ma piano piano, senza neanche volerlo, si affeziona al suo compagno di stanza. «Passavo sempre le vacanze in Afghanistan. Finché un giorno lui non ha iniziato ad invitarmi a casa sua, perché mi vedeva triste. Impossibile anche solo pensarlo: a casa di un cristiano… Invece, durante la pausa di Pasqua, sono andato». Perché? «Per i due anni che avevamo vissuto insieme».

Piomba in una famiglia normalissima, sconosciuta e accogliente: seduto con loro a tavola, dove sono banditi vino e maiale per rispetto della sua religione, li guarda e si chiede perché gente “cattiva” sia così attenta a lui. «Quello che vedevo interrogava il mio cuore». In quei giorni, gli viene la febbre molto alta e subito si prendono cura di lui. A notte fonda, la madre dell’amico entra piano per vedere come sta, gli sente la fronte e gli rimbocca le coperte. Farhad ha gli occhi chiusi, a quel gesto il cuore sussulta. E, nel silenzio, lo invade una domanda: «Ma allora, io chi sono?».

IL LENZUOLO. Un fatto che sembra nulla ha la forza ricreatrice di un’alba, gli suscita la domanda più radicale che esista. A distanza di anni, due mesi fa quella donna gli ha detto sorpresa: «Farhad, non pensavo che un gesto così piccolo ti cambiasse la vita…». «Non hai cambiato solo me, ma centinaia di persone intorno a me. E chissà quante altre ancora», gli ha risposto lui. «Credo ci sia un punto bianco in ogni cuore. E se il bene tocca quel punto, libera la domanda sulla tua vera identità». Più forte di tutto, anche del «veleno che avevo inghiottito» fino ad allora.

«Nessuno è venuto a darmi soldi o potere, né a dirmi: cambia! No. Io ho visto una donna e altri come lei che erano cristiani e ne erano contenti. Non avevano nessuna intenzione di convincere me: sorprendente. Per la loro umanità conoscevano il mio bisogno, e condividevano con me la vita, senza pretendere nulla in cambio». È lì che si è messo a studiare il Corano in persiano: «Ce lo avevano insegnato in arabo, senza che sapessimo la lingua, trasmettendocelo come volevano, per i loro obiettivi. Io, grazie a voi cristiani occidentali, ho scoperto davvero la mia religione».

Dopo aver servito come ufficiale nell’esercito afghano durante la missione Isaf, un giorno del 2011, lungo la strada tra Lagham e Jalalabad, è vittima di un attentato talebano. Si salva, per miracolo. Da lì deciderà di deporre le armi, di chiedere asilo in Italia e dedicare la sua vita al dialogo interreligioso e inter­culturale. «Gli anni passati a Modena, avevano seminato in me un cambia­mento profondo. Ed essere sopravvissuto era il segno che Dio mi stava dando un compito». Durante i mesi di riabilitazione a Dubai, inizia a scrivere il libro: L’ultimo lenzuolo bianco. Quell’ultimo telo che avevano in casa quand’erano caduti in miseria, ma che la madre diede ad una famiglia più povera di loro per seppellire un parente: da allora, ogni notte, lei si toglieva il chador per dare un giaciglio a Farhad.

Nel libro racconta senza riserve la sua storia e il dolore di un Paese «ucciso dalla politica fatta in nome dell’islam». Mentre lo scriveva, sentiva alla tv i capi fondamentalisti, che tante volte aveva visto a casa sua, parlare di democrazia e pace: «Poi vedevo le immagini della distruzione e della povertà che loro stessi provocavano. Le guardavo con in mente i volti degli europei che avevo conosciuto». E ha iniziato a dirsi, sconvolto: «Il vero islam l’ho visto in loro». Diceva ai suoi amici di un tempo: «Siamo più peccatori noi degli altri. Moriremo un giorno: cosa diremo a Dio?». Loro ridevano. Lui si è messo a cercare in tutto «le ragioni di quella diversità che mi affascinava. Mi sembrava il fattore decisivo per rendere il mondo più umano».

UN SOLO PIANO. Oggi fa il mediatore culturale a Torino, dedica le sue gior­nate agli immigrati, per lavoro e come volontario. Non stop. È socio-fondatore del Global Afghan Forum, un’organizzazione con 200mila iscritti che si occupa di educazione in Afghanistan. La notte degli attentati di Parigi non ha dormito dal dolore e dalla rabbia: «Quella è assenza di Dio. Ce lo ha insegnato don Giussani, che io ho “conosciuto” due anni fa: quando nella vita dell’umano non c’è la realtà di Dio, quella vita impazzisce. Perché l’uomo ha bisogno di Dio. Allora combattere è far conoscere il Suo amore. C’è un’Europa che non pro­pone nulla all’uomo che cerca. Poi c’è un cristianesimo di tradizione, vuoto. E infine, c’è un cristianesimo vissuto. Sono grato a Dio di avermelo fatto incontrare, perché nient’altro avrebbe potuto cambiarmi».

È convinto che non si possa stare inermi davanti a quello che sta succedendo. E, altrettanto, che gli interventi armati equivalgono a non fare nulla. «Hanno sempre e solo portato altra violenza. La strada è la religione: lasciare spazio agli uomini religiosi, seguire chi dà la vita per amore alla verità e all’uomo. Questo deve fare anche la politica. Chiedere aiuto e rinunciare ai suoi in­teressi, che finanziano ed armano il fondamentalismo».

L’altra responsabilità dell’Occidente è «togliere Dio dalla vita pubblica, lasciando un vuoto. La libertà religiosa non si può toccare. È la libertà dell’umano». Ripete spesso una richiesta: «Aiutate il nostro mondo musulmano: la Chiesa ha superato la sua violenza, ha lavorato sull’interpre­tazione delle Sacre Scritture e ha camminato. Insegnateci come. Noi dob­biamo essere disposti ad imparare».

Farhad dorme quattro ore a notte per servire gli uomini che incontra. Tanti gli danno dell’ingenuo, lui parla di Gesù: «Avrebbero potuto dirgli: siete in dodici, cosa pensi di fare? Invece ha cambiato il mondo così. Ha cambiato me. Fino al 2008 portavo solo odio». Pensava: sono nato musulmano, tutto il mondo deve esserlo.

«Il cuore di ogni uomo è comandato da Dio», dice: «E Dio dà la verità a tutti. Ma bisogna accoglierla, sceglierla. A me Lui ha fatto vedere tutto, senza mai abbandonarmi, né costringermi. Mi ha lasciato libero. Ma il coraggio di scegliere mi viene dal cristianesimo, dal seguire il bene che ha cambiato la mia vita». Crede che abbiamo una sola cosa da fare: «L’amore di Dio è la realtà più bella che c’è: bisogna vivere e trasmettere questo. Lui risolve tutto, non noi». Scrive alla fine del libro: «Il Suo piano è troppo misterioso perché io possa comprenderlo. Io non ho altri piani che questo: vivere al cenno della Sua volontà».

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