Articolo pubblicato su Tempi n. 44
del 3 Novembre 2000
di Marco Respinti
Sarà un luogo comune, ma il “paese reale” statunitense è davvero diverso da quello “legale”. La conferma viene ogni quattro anni: alle elezioni presidenziali vota metà degli aventi diritto (e quest’anno, pare, anche di meno). Eppure non c’è deficit di democrazia. Anzi. Viaggio in una libera repubblica di liberi cittadini, vicini allo slancio ideale del l’io umano, lontani dal collettivista e retorico giacobinismo europeo
«Gli americani che vivono nelle aree urbane e tendono a considerare un deserto la regione delle Grandi Pianure sono sempre più numerosi, ormai oltre il settanta per cento del totale; ma ciò che intendono per deserto, in realtà, è l’assenza di esseri umani. La maggior parte dei visitatori del Dakota percorre le autostrade interstatali, che consentono loro di attraversare la regione a tutta velocità, superando le città principali per raggiungere attrattive turistiche come le Badlands e le Black Hills.
Guardando la distesa di terra che separa quei luoghi, si chiedono come mai qualcuno possa decidere di vivere in un territorio così sterile, e per giunta amarlo; ma per lo più si annoiano, alzano il volume dello stereo e contano i chilometri che li sperano dal mondo civile, distogliendo lo sguardo dal paesaggio». Kathleen Norris descrive così la “periferia” degli Stati Uniti. Dove vive.
Splendido isolamento
Considerata una delle artiste più brillanti dell’America Settentrionale contemporanea, abita a Lemmon: 1600 agricoltori “isolati” dal resto del mondo nella contea di Perkins, dove “vivono, secondo una stima recente, cinquemila antilopi e circa 3.900 persone”. È la cittadina “più grande nella parte nordoccidentale del Dakota del Sud, un’area che comprende quasi 38.900 chilometri quadrati suddivisi in sette contee, equivalenti all’incirca alla superficie del Delaware, New Jersey, Connecticut e Rhode Island messi assieme”.
Poetessa, è sposata a un poeta, David Dwyer. Stavano a New York, si sono ritirati ai bordi dell’ecumene americano. I loro migliori amici sono dei monaci benedettini che osservano la stabilitas loci con il romitaggio. Del resto, per Kathleen – affascinata da Thomas Merton – il Dakota è la Cappadocia dei padre greci del IV secolo. Con una piccola differenza. Nel Dakota, fra estate e inverno, c’è un’escursione termica di 60°. Lo chiamano “Stato del sole” e “Stato delle tormente”. Assieme.
Scrive la Norris in “Dakota. Una geografia spirituale” (trad. it. Neri Pozzi, Vicenza 1997), libro del 1993: «Le asprezze della vita nel Dakota possono causare salti generazionali: un uomo sulla quarantina ricorda ancora il tempo in cui la madre, dopo una tormenta di neve, dovette percorrere quasi quaranta chilometri a cavallo per raggiungere la scuola di campagna isolata e procurarsi libri di testo per lui e per i tre fratelli e sorelle; persone sulla cinquantina rammentano di essere nate e cresciute in case di zolle; una novantenne rievoca ancora la traversata del Dakota del Sud su un carro coperto. Si tratta di ricordi anacronistici, e ancora oggi molti abitanti del Dakota vivono in un mondo rimasto estraneo allo sviluppo del resto dell’America».
Dante fra gli orsi delle Rockies
Veste cravatte sgargianti su “tre pezzi” di foggia un po’ retrò e fatica a separarsi dalla sua paglietta. Ama l’Alighieri, vive da solitario e adora pescare nei rivi che, dalle Montagne Rocciose, scorrono verso il selvaggio Wyoming degli orsi. No, non è una riedizione cow-boy del John Wayne “irlandese” del famoso film “Un uomo tranquillo”, ma una grande penna americana (un’altra).
Autore, fra l’altro, di vibranti stoccate alla prosa verbosa e “reticente” di un “mostro sacro” come Leo Strauss, pubblica tranquillamente su periodici (talvolta ferocemente) antagonisti quali il quindicinale “National Review” (New York) e il mensile “Chronicles: A Magazine of American Culture” (Rockford, Illinois). Si chiama Chilton Williamson Jr. e conferma una sagace intuizione di Flannery O’Connor: diffidare della grandi etichette editoriali di New York, la “Grande Mela” che già nella prima metà dell’Ottocento veniva considerata una “città straniera”.
Scusi, chi ha nascosto l’Idaho?
Se tutto il mondo è paese, tutta l’America sono Dakota e Wyoming? No di certo. Eppure sono milioni gli americani che vivono in aree urbanisticamente e sociologicamente ben distanti (non solo geograficamente) dalle grandi città-vetrina a cui siamo televisivamente abituati. Nessuna romantica dicotomia fra “provincia sana” e “urbe corrotta”, ma costatazione di una realtà estesa, importante e praticamente sconosciuta.
Se lì risieda la sanior o solo la senior pars del Paese è da valutare caso per caso senza pregiudizi, ma è un dato di fatto che le megalopoli delle coste (la fascia litoranea orientale e alcuni hautes lieux della California, a cui sopra e sotto si aggiungono almeno Chicago, Detroit e la “brutta” Atlanta, in Georgia) non esauriscono affatto gli Stati Uniti. Che restano una “nazione plurale”.
Diversi Stati dell’Unione c’entrano poco con le affollate metropoli “amerikane”. Stati che, a bruciapelo, non sapremmo nemmeno indicare su una cartina muta: Washington, Oregon, Idaho, Montana, Nevada, Utah, Iowa e quel Nebraska cantato da Bruce Springsteen in un omonimo album del 1982, tanto bello quanto incompreso. Colorado, Arizona, Nuovo Messico, Kansas, Tennessee e Oklahoma ce li hanno resi familiari i western di Hollywood; il Texas John Ford.
Dell’Arkansas si sa oramai qualcosa, se non altro perché c’è nato Bill Clinton. Forse del Minnesota, dell’Illinois, del Kentucky e del West Virginia ricordiamo almeno i nomi, ma con la Nuova Inghilterra, pullulante di Stati “piccoli” o addirittura microscopici, diamo subito forfait. Che la città di New York stia nello Stato di New York forse lo ricordiamo, ma di solito ci sfugge che la città di Washington ha un fazzoletto di terra a sé (il Distretto di Columbia) distante dall’omonimo Stato tutta la lunghezza del Paese.
In America, insomma, c’è più terra che gente: le distanze sono infinite, le comunità morfologicamente diverse dalle nostre e i rapporti umani pure (compresi quelli di parentela, con la gente che si sposta di continuo per andare al college o per stabilirsi in una nuova casa). Oltre alla vecchia linea Mason-Dixon fra Nord e Sud, ne esiste certamente un’altra sulla dorsale dei monti Appalachi; poi una seconda descritta dal corso del Missouri-Mississippi; infine una terza, il meridiano 100 che spacca in due Dakota del Nord e del Sud, Nebraska, Kansas, Oklahoma e Texas, a occidente del quale iniziano le grandi praterie (la rubrica di Chilton Williamson su “Chronicles” s’intitola “The Hundredth Meridian”).
“In tutto quell’immenso spazio che si estende fino al meridiano 107 – osserva Kathleen Norris -, nella parte orientale del Montana e del Wyoming, il numero dei capi di bestiame è superiore a quello degli esseri umani. Ci sono solo due città, Lubbock e Amarillo, che possono vantare una popolazione superiore ai centomila abitanti, ed esiste una sola grande università, il Politecnico del Texas”.
Con l’eccezione dei grossi agglomerati urbani californiani alle “colonne d’Ercole” d’America – che se contati su una mano lasciano comunque “disoccupate” diverse dita -, più si viaggia verso ovest e meno il Paese è demograficamente denso. Un paesaggio (umano) assai diverso da quello di Times Square, del Rockefeller Center e della Quinta Strada. Nemmeno la “grande” Dallas, in Texas, è poi così grande: il visitatore esaurisce i siti turistici nell’arco di una giornata (e lì si cena, di norma, non oltre le 17,30-18,00…); se è pigro, una e mezza.
I monaci del Midwest
La capitale dell’Iowa, Stato ampiamente agricolo, tradisce l’origine francese dei suoi primi abitanti, in quella che allora – prima che Napoleone la vendesse per quattro soldi a Thomas Jefferson nel 1803 – era la Louisiana (quella di oggi è solo un pezzo dell’antico vasto insediamento che, intitolato al sovrano di Francia, abbracciava tutto l’attuale Midwest statunitense, dal Canada alle calde acque della corrente più famosa del mondo).
Si chiama Des Moines – anche qui monaci, come in Kathleen Norris -, pronunciato “demòins” invece del corretto “de muàn”. Piccola, per essere una capitale. Colpisce subito l’assenza di negozi e di vetrine a livello delle strade carrozzabili. Ma, a qualche metro sopra la testa, la rete viaria, i marciapiedi e gl’incroci, corre un’intelaiatura di grossi “tubi” che collegano edificio a edificio.
Potrebbe sembrare la quintessenza dell’alienazione “amerikana” in un accesso orgiastico di tecnofilia o un colossale inno al sintetico. Invece è l’unico modo per sopravvivere in un ambiente in cui d’inverno – ben più lungo del nostro – la temperatura è polare. Dentro la gente sorride. E vive come noi. Ecco perché nei film con gl’indiani le tribù peregrinavano al seguito di mugghianti mandrie di buffalos in continuo spostamento. Chi si ferma congela. A meno che non sia un pioniere in lotta con una terra riottosa.
I ponti di una Michigan County
Il Michigan non è selvaggio come il West. Anche se ha foreste ovunque, così come l’Illinois biondeggia di grano a perdita d’occhio. Quando nevica, i michigander si spalano la neve dai vialetti. Lì il Comune non passa né a rimediare alle intemperie, né la sera a spruzzare per strada oscuri liquidi disinfettanti, per poi minacciare di multa chi parcheggia sul marciapiedi. Ho visto la moglie di un uomo di cultura di fama nazionale e internazionale intrattenersi con dei genieri occupati a rammodernare un ponte di un piccolo villaggio della regione.
La gentile signora desiderava accertarsi dell’avanzamento dei lavori e del buon andamento delle operazioni. “Il ponte è ‘nostro’ e regge la principale strada di collegamento con le località circostanti. Fa parte della vita della comunità”. Alla mia curiosità ha risposto così. Da noi succede solo nelle località di montagna, là dove – spesso un po’ retoricamente – collochiamo idealmente una vita diversa, “più genuina”. Se no ci deve pensare lo Stato, a cui abdichiamo ogni responsabilità eleggendone le Camere.
La democrazia dei boschi, delle praterie, dei canyon
Come meravigliarsi dunque se, in un Paese così, alle presidenziali vota la metà degli aventi diritto, o anche meno? Anche perché, alle urne “vicine a casa” – quelle che designano cariche “locali” – gli americani ci vanno. Pare che la Rivoluzione americana – cantata come una grande epopea ben più di quanto lo sia stata in realtà (e del resto è abbastanza giusto così) – abbia coinvolto solo due terzi della popolazione, gl’indipendentisti di qua e i legittimisti di là. Gli altri fermi. O meglio: attivi, ma diversamente.
Presi a costruire, a modo loro, quella democrazia dei fatti che è la nazione americana. Una democrazia diversa, cioè: più immediata, meno astratta, poco retorica. Non un grande gioco vuoto a cui si è iscritti d’ufficio, ma una conquista quotidiana, un modo concreto d’intendere l’esistenza, il risultato di una presenza sul territorio. Non una panacea, una formula magica; ma uno sforzo e un impegno quotidiani.
Gli americani non hanno mai smesso di essere pionieri, uomini sulle cui spalle (come su quelle dei monaci secoli fa) poggia la costruzione della società e il dissodamento, acro dopo acro, del terreno-anche umano. Quando in Italia vota meno dell’80-70% della popolazione elettorale, è scandalo e lesa democrazia. Oltreoceno sono (e si sentono) democratici anzitutto vivendo democraticamente. Il rito laico di una democrazia illuminista, cioè teorica, officiato nel segreto delle urne cede il passo a quella che Henry David Thoreau chiamava “democrazia dei boschi” di un Paese in cui (e Thoreau se ne rallegrava sin troppo), passeggiando per strada, non si scorgono rovine romane. E così, giorno dopo giorno, le selve e i deserti si popolano.
L’inquilino della Casa Bianca è certamente importante, ma gli Stati Uniti non vivono in una continua estenuante campagna elettorale permanente che condiziona o addirittura paralizza la vita reale, per poi sentirsi paraliturgicamente liberati quando la scheda votata cade nell’urna. La vita precede sempre la politica. Lo definiamo il Paese della democrazia compiuta e una ragione ci sarà.