Non basterà tartassare per risanare i conti pubblici. Occorre ridurre la pressione fiscale sui produttori, «l’unica misura che avrebbe effetto immediato sull’economia». La ricetta di Luca Ricolfi per ridare slancio alle aziende.
Quando, nel 2010, usa la prima edizione de II sacco del Nord, la crisi sembrava in via di superamento. Oggi la situazione è cambiata. Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati, ha deciso di rieditare il libro. Pubblichiamo stralci della nuova introduzione.
di Luca Ricolfi
(…) Per i sindacati, che vorrebbero salari e pensioni più alte, la causa della crisi è chiaramente l’aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, che ha tolto quattrini dalle tasche dei lavoratori e così ha ridotto la domanda aggregata. Per la Confindustria, che vuole ridurre i costi di produzione ma non vuole litigare troppo con i sindacati, l’imputato numero uno è sempre la Pubblica amministrazione, che spende troppo, è inefficiente, paga in ritardo, sottrae risparmio al settore privato.
Per i riformisti puri e duri, di destra ma anche di sinistra, il freno fondamentale alla crescita dell’occupazione e del reddito è la rigidità del mercato del lavoro, di cui l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è divenuto il simbolo. Per gli antieuropeisti, dalla Lega ai Noglobal ai comunisti, la causa di tutto è il mercato globale, che ha distrutto posti di lavoro e compresso i salari nei paesi avanzati.
Per la sinistra, la vera palla al piede dell’Italia è l’evasione fiscale, protetta e alimentata dai condoni dei governi Berlusconi. Per la destra, tutto al contrario, sono le troppe tasse sulle famiglie che legittimano l’evasione fiscale e frenano la crescita.
Quanto al governo Monti, esso sembra fermamente convinto che una buona dose di rigore nei conti pubblici sia inevitabile, e che la vera causa del ristagno dell’Italia sia l’incapacità della sua classe dirigente di procedere con coraggio sulla via della modernizzazione delle sue istituzioni economiche.
Di qui l’adozione di una manovra economica sbilanciata dal lato delle entrate (per raddrizzare i conti pubblici), e una martellante attenzione, per ora soprattutto mediatica, alle misure di scongelamento dell’economia: liberalizzazioni dei mercati dei servizi, dei prodotti e del lavoro, promozione della concorrenza, lotta alle inefficienze e agli sprechi della Pubblica amministrazione.
Potrà bastare? E, soprattutto, permetterà di risolvere il problema – l’oppressione fiscale dei territori più produttivi – da cui l’idea federalista era nata? Spero di sbagliarmi, ma la mia impressione è che la risposta debba essere no. (…) Sui meccanismi che sostengono la crescita non siamo completamente ignoranti, qualcosa abbiamo imparato. Ci sono analisi, evidenze empiriche, indizi sia sulle economie avanzate, sia sull’Italia.
Se consideriamo le economie avanzate, ovvero i paesi aderenti all’Ocse, esiste una robusta evidenza empirica che suggerisce che la modernizzazione delle istituzioni economiche sia solo uno degli ingredienti della crescita, e forse nemmeno il più importante. Se prendiamo l’ultimo lungo periodo di crescita (1995-2007), i due fattori più influenti sembrano essere il livello effettivo di istruzione della popolazione (misurato dai test Pisa), che accelera la crescita, e la pressione fiscale sulle imprese (misurata con l’aliquota dell’imposta societaria), che viceversa la rallenta.
Nel caso della pressione fiscale, in particolare, è interessante il fatto che quel che conta non sia la pressione fiscale complessiva, bensì quella sui produttori: il che spiega perché fra i paesi con i più alti tassi di crescita vi siano la Svezia, la Norvegia e la Finlandia, che hanno sì un’elevata pressione fiscale complessiva ma hanno avuto l’accortezza di tenere bassa l’aliquota societaria, così dando ossigeno alle loro imprese e slancio alla loro economia.
Il Sud più veloce del Nord
Ma anche sull’Italia, ormai, sappiamo diverse cose. Sappiamo, ad esempio, che -contrariamente a quanto suggerisce il senso comune e hanno creduto diversi ministri ed economisti – da metà degli anni Novanta il Pil prò capite cresce più rapidamente al Sud che al Nord. E questo nonostante il fatto che tutti gli handicap strutturali dell’Italia siano più gravi al Sud che al Nord: scarsità di infrastrutture, alto costo del denaro, lentezza della giustizia civile, ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione, inefficienza dei servizi pubblici, bassa qualità dell’istruzione, forza della criminalità organizzata sono tutti fattori che zavorrano innanzitutto il Mezzogiorno d’Italia.
Eppure tutto questo non ha impedito al Sud, nell’ultimo periodo di crescita (1995-2007), di procedere a una velocità che è quasi una volta e mezzo quella del Nord, senza subire alcun significativo rallentamento rispetto al periodo precedente (1983- 1995). Mentre il tasso di crescita del Pil prò capite del Nord, fra il dodicennio 1983-1995 e il dodicennio 1995-2007, è crollato dal 2,6 allo 0,9 per cento, quello del Sud è rimasto praticamente invariato: era pari all’ 1,4 per cento nel primo periodo, è dell’ 1,3 per cento nell’ultimo. Come è stato possibile?
(…) Se, come suggerisce l’evidenza empirica disponibile sulle economie avanzate, i tre ingredienti fondamentali della crescita sono il capitale umano, le istituzioni economiche e la pressione fiscale sulle imprese, sembra difficile sfuggire alla conclusione che, avendo il Mezzogiorno d’Italia un grave handicap tanto in termini di istituzioni economiche quanto in termini di capitale umano, sia al terzo fattore, la pressione fiscale, che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione.
La spiegazione più logica di questa strana inversione di ruoli è (…) che nonostante l’aumento delle aliquote abbia riguardato tutta l’Italia, il Sud – grazie al peso dell’economia sommersa – è riuscito a limitare l’impatto della maggiore pressione fiscale, mentre il Nord – proprio perché la sua economia è in gran parte emersa – non è riuscito ad autoridursi le tasse mediante l’evasione fiscale.
Mi rendo conto che questa interpretazione può apparire ardita, per non dire politicamente scorretta, ma l’evidenza statistica che la sorregge è piuttosto robusta: se si provano a spiegare le differenze fra i tassi di crescita del reddito prò capite delle 107 province italiane fra il ’95 e il ’07, nessuna variabile ci riesce meglio dell’evasione fiscale. I tenitori in cui l’evasione è intensa crescono di più, quelli in cui è minore crescono meno
Di fronte a un bivio
Torniamo al problema del declino italiano. Se la nostra ricostruzione è plausibile, non si può non essere preoccupati della piega che il governo Monti ha preso. Nei suoi primi atti il nuovo governo sembra dipendere da un’analisi della società italiana che attribuisce un peso enorme al ruolo delle istituzioni economiche, e un peso assai modesto, per non dire nullo, al problema della pressione fiscale sui produttori.
Lo testimonia non tanto il largo ricorso ad annunci di future riforme (…), quanto il contenuto dei provvedimenti economici già varati: la manovra di fine 2011 è sbilanciata dal lato delle entrate, senza molto riguardo ai suoi effetti recessivi; la lotta all’evasione fiscale si svolge senza alcun credibile impegno di riduzione delle aliquote; e anche nei rari istanti in cui di questo si parla, l’accento cade sugli sgravi alle famiglie, in perfetta continuità con le elettoralistiche promesse di tutti i governi precedenti.
Ma riforme economiche e riduzione delle aliquote non sono terapie che stanno sullo stesso piano. Le riforme economiche, specie se timide come quelle di cui si sta parlando, potranno produrre qualche effetto solo fra diversi anni. Le riduzioni delle aliquote, invece, possono – se ben congegnate – produrre effetti in un lasso di tempo molto più breve, dell’ordine di uno-due anni.
Di qui la domanda fondamentale: può un sistema economico-sociale in declino da quasi un ventennio aspettare altri cinque o dieci anni per tornare a competere con le altre economie avanzate? Possiamo permetterci di aspettare ancora, contando sul fatto che i semini gettati ora prima o poi daranno i loro frutti?
Se la risposta è sì, quel che ci resta da fare è soltanto incoraggiare l’azione del governo, aspettando che produca conseguenze tangibili. Ma se la risposta fosse no, come temo in realtà sia, allora, saremmo tornati al problema che la Lega aveva sollevato vent’anni fa e che il federalismo – non a caso sempre qualificato come federalismo fiscale – doveva risolvere: rimettere i produttori in condizione di produrre.
Con una aggravante: che allora avevamo una soluzione e un partito che la difendeva, ora quella soluzione non c’è più (…) e il ceto politico che ci governa non riconosce quel problema come il problema fondamentale dell’Italia.