Una virata autoritaria ha segnato gli ultimi anni di Governo Erdogan. Tanti i campanelli d’allarme, finché l’insofferenza della gente non è esplosa nelle strade, svelando un’ampia «opposizione» fuori dal Parlamento, E, insieme, la debolezza del potere. In un Paese che non sarà più come prima
di Marta Ottavini
Per tre settimane decine di migliaia di persone sono scese per le strade spontaneamente, senza temere una repressione della polizia che è stata brutale e che ha attirato le attenzioni degli osservatori internazionali per il grado di ferocia a cui è arrivata.
La protesta nell’unico Paese della Mezzaluna a vocazione europea, anche se non si sa ancora per quanto, ha stupito il mondo soprattutto per un motivo. Da tempo Ankara ambiva a porsi come un punto di riferimento per il Mediterraneo orientale e meridionale, dove la stabilità politica data da elezioni regolari e la crescita economica erano i due fiori all’occhiello.
Un’immagine crollata come un castello di carte nel giro di tre settimane, con il premier Erdogan costretto a usare la forza e una democrazia che è apparsa in tutta la sua fragilità. Sarebbe un grosso errore pensare che il Primo ministro sia stato colto di sorpresa dalle manifestazioni. I germi del malcontento maturavano da tempo, l’errore da parte sua è stato non ascoltarli.
Nei mesi scorsi Erdogan era stato contestato più volte in diverse università del Paese. In tutti i casi la reazione della polizia era stata molto violenta e alcuni studenti sono finiti sotto processo e rischiano fino a tre anni di carcere.
Ma c’è stata anche un’azione più strisciante, registrata solo a tratti dalla stampa straniera e ben riconoscibile a partire dal giugno 2011, quando Erdogan ha vinto per la terza volta consecutiva le elezioni, superando il 50% dei consensi. Da quel momento è iniziata la virata autoritaria del Premier che ha portato allo scoppio della protesta lo scorso 31 maggio.
Sono diverse le tappe che hanno alimentato l’insofferenza della gente. Il primo campanello d’allarme è sicuramente suonato con la riforma dell’istruzione, che ha visto la luce subito dopo la vittoria elettorale e che consente di mandare i propri figli alle scuole coraniche dall’età di 10 anni. Il provvedimento non è stato bene accolto soprattutto in alcune grandi città turche, dove numerose famiglie hanno visto i propri figli iscritti d’ufficio alle scuole vocazionali.
Poi sono arrivati i ripetuti appelli di Erdogan perché le donne facessero almeno tre figli, invito che è stato preso come una diretta interferenza nella vita privata della popolazione. In ultimo, proprio nei giorni prima dell’inizio della protesta, il Parlamento ha approvato la nuova normativa sulla vendita di alcol, secondo la quale non sarà più possibile bere birra e affini dalle 22 alle 6 del mattino, nonché a 100 metri da scuole e moschee. Un giro di vite motivato con l’impegno a salvare le giovani generazioni dalla piaga dell’alcolismo, in un Paese dove l’85% della popolazione dice di non aver mai bevuto alcolici.
LA GOCCIA, I lavori in piazza Taksim, il cuore della Istanbul che vive alla occidentale, per costruire un centro commerciale e una moschea, sono stati la goccia che ha fatto traboccare un vaso pieno da tempo, portando in piazza migliaia di persone di estrazione politica e storie diverse, tutte pronte a dire un no al Primo ministro. Con conseguenze che sul lungo termine potrebbero essere molto pesanti.
«Erdogan ha perso», spiega a Tracce Cengiz Aktar, docente della facoltà di Scienze politiche dell’università Bahcesehir di Istanbul: «Ha tentato la prova di forza contro la popolazione, ma in realtà il suo Governo si è rivelato in tutta la sua debolezza. Lui ha voluto tenere un atteggiamento intransigente a tutti i costi. Non si è accorto che c’era una parte della nazione che non era più disposta a sopportare la sua condotta. Fra la gente scesa in piazza ci sono anche molte persone che Erdogan lo hanno votato e che ora o sono rimaste deluse dal suo operato, o non sono più intenzionate a rinnovargli la fiducia».
Critiche, sebbene più sfumate, sono comparse anche sulla stampa più filo-governativa. «La verità è che Erdogan si è sparato sul piede da solo», ha scritto il quotidiano Zaman: «È riuscito a crearsi un’opposizione fuori dal Parlamento quando nell’assemblea era chiaro che nessuno sarebbe stato in grado di contrastarlo. Ha sottovalutato la situazione e non ha tenuto conto delle tensioni che potranno derivare da questa gestione della protesta».
Per il Premier si tratta sicuramente del momento più difficile da quando ha preso il potere nel 2002. Erdogan nei prossimi mesi che portano alle elezioni amministrative e alle presidenziali, previste entrambe per il 2014, dovrà tenere conto delle tensioni interne ed esterne al suo partito. In casa Akp, il Partito islamico-moderato per la giustizia e lo sviluppo fondato dal Premier, l’aria è tesa e nelle scorse settimane per la prima volta c’è chi ha osato metterne in discussione la leadership.
Poi, c’è la piazza. Per le strade di Istanbul e delle principali città della Turchia moderna hanno manifestato in migliaia. Si è trattato del primo grande movimento spontaneo e di massa degli ultimi decenni, sicuramente qualcosa di inedito per Erdogan e destinato a lasciare un segno. Se fino a questo momento il Premier era abituato a vedere come unico oppositore una minoranza parlamentare ben poco efficace, quando non connivente con il suo partito, adesso sa che una parte del Paese è pronta a tornare in piazza ogni volta, per ricordargli che qualcuno non è più disposto a tacere.
PIATTAFORMA COMUNE. Nonostante lo sgombero e la repressione violenta, la protesta in Turchia non si è fermata. E adesso, oltre a organizzarsi in nuove forme, potrebbe assumere anche un connotato politico. Che per il Premier sarebbe il rischio più alto. Alcuni gruppi ambientalisti misti a movimenti politici legati a ideologie socialiste stanno seriamente pensando di formare un partito sul modello dei Verdi tedeschi del Bündnis 90/Die Grünen.
In queste settimane sono in corso incontri fra le diverse anime che dovrebbero comporre la formazione politica. Le riunioni avvengono segretamente, per evitare sospetti da parte della polizia, che continua a presidiare le strade di Istanbul. Al dibattito stanno dando impulso anche alcuni fra i punti di riferimento culturale della città, come l’Università Bilgi e Bahcesehir.
«Dobbiamo vedere se riusciamo a stabilire una piattaforma comune», spiega un responsabile di uno dei movimenti ambientalisti che chiede di mantenere l’anonimato: «In questo momento abbiamo una rete di intellettuali pronti a sostenerci, ma la vera sfida è capire come ci si possa organizzare sul territorio. Ci vuole tempo».
«Non confondiamo la piazza di Istanbul o Ankara con quelle più periferiche, più in mano ai partiti politici tradizionali e che risente meno del clima di rinnovamento», avvisa Cigdem Toker sul quotidiano Aksam. Di certo c’è che Erdogan non riesce più a calamitare i consensi che vantava una volta. La conseguenza può essere una radicalizzazione del suo partito, ma anche la creazione di nuove identità politiche. In ogni caso, la Turchia non sarà più come prima.