L’uscita dal comunismo è costata un prezzo troppo alto
di Piero Sinatti
Lo scultore dissidente Ernst Neizvestnyj scolpì il monumento funebre di Khrusciov usando marmo bianco per una metà, marmo nero per l’altra. Luce ed ombra. Bene e male. Bianco e nero potrebbe essere anche il monumento funebre di Eltsin, come Khrusciov personaggio di ombre e di luci. Forse più le prime.
Del resto fu lo stesso primo presidente della Russia a esserne consapevole, rivelandolo nel suo messaggio di dimissioni letto alla fine del 1999. In esso rivendicò il merito di aver aperto alla Russia un corso irreversibile. «La Russia – disse – non ritornerà mai al passato». Ma chiese perdono ai suoi concittadini, con un’umiltà sincera, per aver suscitato «speranze che non si erano realizzate». Come quella di poter «saltare d’un colpo da un passato di grigiore, stagnazione e totalitarismo a un futuro luminoso, ricco, civile». E con un minimo di pene e di sofferenza. Non era andata così.
Contro Gorbaciov.
Indubbiamente Eltsin con il suo intuito, la sua audacia e la sua a volte spietata determinazione ha impresso al processo storico una direzione decisa e decisiva, muovendo dai caotici progetti con cui Mikhajl Gorbaciov tentava di tenere in vita un sistema in agonia. Eltsin lo voleva smantellare al più presto, con tipico radicalismo russo, perché il comunismo non rinascesse e la Russia diventasse «un Paese normale». Ha liquidato l’ultimo degli imperi, annullando il Patto di Federazione del 1923, con un atto concertato nel dicembre 1991 con i soli presidenti di Ucraina e di Bielorussia.
Molti, a cominciare da Gorbaciov, contestano la legittimità di quell’accordo a tre. Era un impero plurisecolare, coagulatosi in quella nuova formazione storico-politica che è stata l’Urss La fine dell’Unione Sovietica se ha significato indipendenza da Mosca, ha portato rovina economica, miseria ed emigrazione di massa, perdita di una patria e di un’appartenenza, formazione di regimi “familisti”, mafiosi, autocratici.
Eltsin, inoltre, creando nuovi rapporti di cooperazione politico militare con l’Occidente, ha realizzato una smilitarizzazione senza precedenti (iniziata da Gorbaciov), ridotto il budget militare di cinque volte. Ma al tempo stesso ha minato efficienza e capacità di combattimento delle forze armate russe (si vedano le guerre di Cecenia) e ha messo in crisi l’Apparato militare-industriale (Vpk), un settore economico dominante in epoca sovietica.
Scalata al potere.
Eltsin si era formato nella dura lotta per il potere intrapresa dal 1987 con il suo arcirivale Gorbaciov, che lo aveva portato a Mosca e al vertice del Pcus. Eltsin, da ossequiente burocrate provinciale, si era trasformato in ardente sostenitore della perestrojka al punto di accusare Gorbaciov di frenare il processo di riforma, invece di accelerarlo. E di essere succube dei conservatori. Mai, prima, si era osato attaccare in pubblico il segretario generale del Partito. In questa occasione Eltsin manifesta la sua attrazione per lo scontro e il rischio.
La «perestrojka» produce da una parte libertà di parola, di stampa, trasparenza («glasnost»), scioperi e manifestazioni operaie, le prime forme di democrazia rappresentativa e di libere elezioni, colma i vuoti della storia ufficiale. Non è poco in un Paese vissuto per 70 anni sotto la cappa totalitaria. Dall’altra, tuttavia, non riempie i negozi di generi di consumo, anzi li svuota. Accende cruenti scontri etnico nazionali. Tramonta la stella di Gorbaciov.
È in questo periodo (1988-89) che Eltsin lascia il Pcus e spregiudicatamente cavalca l’onda dello scontento popolare e di un risorto nazionalismo dei russi. Vuole scalzare il presidente dell’Urss, mentre all’Est crolla il muro di Berlino e implode l’impero esterno. Ricorre a parole d’ordine democratiche e rivendicazioni populiste. Si fa eleggere dal popolo presidente della Federazione russa nelle presidenziali del giugno 1991, come leader di un grande movimento per la democrazia. Dichiara prevalente la sovranità della Russia rispetto a quella dell’Urss, travolta da movimenti centrifughi nazionalisti. È una mossa di grande abilità, ma anche un colpo all’Unione.
Il putsch di agosto.
Nell’agosto 1991 Eltsin si oppone con audace risolutezza al golpe della restaurazione, maldestramente tentato da un pugno di dirigenti del Pcus e dai responsabili dei ministeri sovietici “della forza” (Difesa, Interni, Kgb). I tre giorni di resistenza vittoriosa ai putschisti sono il momento più alto della sua vicenda politica e umana. È la sua più grande e limpida vittoria e insieme la fine politica di un Gorbaciov che umilia platealmente. Un momento irrepetibile, per consenso e sostegno popolare.
Dopo il putsch Eltsin ha tutto il tempo, il sostegno popolare e parlamentare per realizzare le riforme: istituzioni democratiche ed economia di mercato. Ha l’appoggio della comunità internazionale, delle grandi capitali occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionali (Fmi, Banca mondiale, Banca europea di ricostruzione e sviluppo).
Riforme economiche.
Gorbaciov voleva creare un’economia mista (come prima di lui Andrei Sakharov, il grande fisico dissidente). Eltsin vuole distruggere il sistema preesistente. Non ama gli economisti (gli Abalkin, gli Aganbegjan, i Petrakov, gli Shatalin, gli Javlinskij) che da tempo prospettano piani di riforma graduale. Sono, per lui, “gorbacioviani”.
Dà ascolto invece a giovani economisti poco conosciuti, poco più che trentenni, neo-Chicago boys leningradesi, maturati nel chiuso di dipartimenti universitari o di redazioni di giornali o riviste di partito. I leader sono Egor Gajdar e Anatolij Chubais. Essi ricevono da Eltsin, digiuno di cultura economica, compiti e posti chiave, con i loro gruppi e i loro consiglieri (non sempre disinteressati): tra cui anche economisti occidentali (dell’Fmi e di Harvard) come Jeffrey Sachs.
Con un decreto presidenziale, in vigore dal 2 gennaio 1992, Eltsin e Gajdar si propongono con meccanismi virtuosi a portare la Russia all’economia di mercato. Non ascoltano moniti e critiche di quanti sostengono che prima si sarebbe dovuto demonopolizzare le produzioni industriali, creare nuove istituzioni finanziarie, infrastrutture di mercato, ridurre il deficit del bilancio.
Al tempo stesso, però, per la pressione delle nomenklature delle materie prime, i prezzi di greggio, gas e metalli restano congelati, a regime controllato, bassi (il che permette grosse speculazioni sull’export). Al contrario delle aspettative, l’inflazione fa balzi tremendi arrivando a tre e poi a quattro cifre. Con colossale distruzione di risparmi dei cittadini e crisi di una serie di settori industriali.
Le grandi privatizzazioni.
La privatizzazione della proprietà statale porta il nome di Anatolij Chubais (adesso Ceo del potente monopolio elettrico Ees). Anch’egli sceglie la via radicale: il bolscevismo di mercato. In teoria, cerca di creare un diffuso azionariato popolare, grazie alla distribuzione gratuita di voucher a tutti i cittadini della Federazione russa, che servirà loro acquistare titoli di società “azionarizzate”.
Ma dei voucher si impadroniscono, rastrellandoli a basso prezzo, broker e società finanziarie. Al tempo stesso una importante quota di azioni è riservata a manager e maestranze delle aziende, gli insider. Ne fanno incetta i “direttori rossi” (come l’attuale re dell’acciaio Mordashov) e i loro collaboratori e compari. Le comprano persino dai loro stessi dipendenti, tenuti per mesi senza salario o pagati in natura.
In un primo tempo, sono gli insider delle fasce alte delle aziende a essere i beneficiari della privatizzazione. Poi nel 1995-96 sarà la volta dei “nuovi ricchi”, fondatori, manager, grandi azionisti e Ceo di nuovi gruppi finanziari (come le “sette banche”): essi si impadroniscono delle aziende dei settori più redditizi della proprietà statale (energia, siderurgia, materie prime).
Si applica lo schema “prestiti per azioni” creato da Chubais e dall’oligarca Potanin, ora tra i fedelissimi di Putin. Cioè: prestando denaro liquido allo Stato in perenne deficit si ricevono in pegno azioni a prezzi di favore. Le azioni restano nelle mani dei “banchieri” creditori. E le successive aste di privatizzazione sono truccate per favorire i nuovi “oligarchi”.
E’ “l’affare” o “il furto del secolo”. Un esempio: la società Menatep (di Khodorkovskij) compra un‘azienda petrolifera, la Yukos, che vale oltre 2 miliardi di dollari, pagando solo 350 milioni. In questo schema rientra anche l’appoggio finanziario e mediatico che Eltsin riceve da queste nuove figure sociali – gli oligarchi – nelle elezioni presidenziali del 1996, che vince battendo il candidato comunista. Comunque, la privatizzazione ha i suoi lati positivi. Dà vita a gestioni dinamiche ed efficienti, crea nei servizi e nel commercio, milioni di posti di lavoro. Si forma una fascia di media borghesia, che dovrebbe costituire il nerbo sociale della nuova Russia.
Più ombre che luci. Le ombre sono molte: non solo “le speranze non realizzate”, di cui ha chiesto perdono nel messaggio di congedo. Sono lo scioglimento per decreto del Parlamento e il suo bombardamento (ottobre 1993) per vincerne la resistenza, armata. Si opponeva alle riforme economiche Gajdar-Chubais (ora gli uomini più odiati di Russia) e aveva una sorta di contropotere. Intollerabile per Eltsin, intimamente autoritario. Le versioni ufficiali indicano in 100-150 i morti tra i difensori della Casa Bianca. Secondo fonti non governative sarebbero stati più di mille.
La repressione del Parlamento, interpretata da molti di noi in Occidente come una risposta inevitabile ai pericoli di una ripresa sovietista e/o di un blocco del processo di riforma, ferisce un sistema democratico che si stava appena formando. Crea pericolosi riflessi di paura (atavici in Russia), passività e apatia, anche se Eltsin proclamò poco dopo un’amnistia generale e reinserì nella vita politica molti dei suoi più accaniti avversari.
Altra ombra pesantissima è la prima guerra russo-cecena (1994-96) nata sul terreno ambiguo di un federalismo opportunista sospeso tra rovinoso lassismo e repressione brutale. Ha pesantissimi costi materiali e umani e si conclude con una (temporanea) sconfitta russa e la creazione di un regime semicriminale in Cecenia.
Ricchi e poveri.
Una quota altissima di popolazione ha visto crollare in pochi anni le proprie condizioni di vita, restringersi radicalmente il welfare sovietico. C’è un crollo forte e continuo, finora, del tasso di natalità e una crescita di quello di mortalità (alcolismo, suicidi, criminalità). Il numero dei poveri alla fine degli anni 90 arriva a comprendere il 40% della popolazione. E la grave crisi finanziaria nel 1998 – con ampie speculazioni sui titoli di stato – porta la Russia al default. Alla rovina di altri risparmi, all’arresto dell’espansione della nuova classe media per la chiusura a catena di banche e nuovi esercizi commerciali e finanziari. La grande ricchezza si concentra nelle mani di poche decine di oligarchi e nuovi ricchi.
Questo è il bilancio degli anni eltsiniani. La grave malattia cardiaca e l’alcol accelerano, dopo la grave operazione del 1996, il lento declino fisico (e a volte mentale) del primo Presidente russo. Si forma attorno a lui un clan di politici e oligarchi in lotta tra loro (la guerra delle sette banche) per dividersi la grande torta statale. È legato ad alcuni familiari di Eltsin (soprattutto la figlia Tatjana): la cosiddetta “famiglia”. Regna un clima diffuso di corruzione e di intrighi attorno a un presidente stanco e marasmatico che in tre anni cambia cinque premier. L’eredità di Eltsin è duplice, al di là delle enfatiche parole di condoglianza ed elogio del suo successore.
Da una parte ha reso irreversibile la fuoriuscita dal comunismo. Ha dato al Paese una costituzione presidenzialista alla francese, che garantisce stabilità. Ha creato un’economia oligarchica, ma in cui operano ora e si rafforzano relazioni di mercato. Dall’altra, il prezzo pagato è stato troppo alto in termini sociali e umani. Ha creato laceranti disuguaglianze sociali. Aree diffuse di criminalità organizzata.
Corruzione onnipervasiva. Un’eredità pesante che Eltsin lasciò quasi sette anni fa al suo delfino, impegnato dal 2000 in un’opera difficile e ambiguamente condotta di risanamento. Che impone nuovi alti prezzi, in termini questa volta di controllo della politica e dei fondamentali diritti civili.