di Federico PunzI,
Mentre riconteggi e iniziative legali fanno il loro corso, e torneremo ad occuparcene (una seconda ordinanza favorevole a Trump, sebbene non decisiva, è arrivata ieri sera), è tempo di analisi che a prescindere dall’esito finale restano a nostro avviso valide (come il bilancio della presidenza Trump firmato da Marco Faraci).
Uno dei temi di questi giorni è il “sovranismo”: con l’uscita di Trump dalla Casa Bianca “si sgonfierà”, come ha sostenuto tra gli altri Enrico Letta? Oppure il “trumpismo” sopravviverà a Trump, come hanno osservato alcuni commentatori, considerando la straordinaria performance di voti del presidente uscente? A nostro avviso si continua a scambiare l’effetto per la causa.
Trump è l’effetto di una drammatica polarizzazione politica già in atto durante i due mandati di Obama, ha dato voce all’America dei dimenticati e degli svantaggiati dalla globalizzazione, e a chi non sopporta più di sentirsi dire come deve comportarsi, esprimersi e financo pensare, dai sacerdoti del politicamente corretto.
Certo, può darsi che abbia perso il controllo della più influente posizione di potere politico, la Casa Bianca, ma quello che in modo sprezzante viene definito “sovranismo” o “trumpismo” esce intatto dalle presidenziali 2020, le sue ragioni persistono. Biden e i Democratici non sono riusciti nemmeno a scalfirlo, nonostante tutta la potenza di fuoco politica e mediatica della sinistra. Anzi, per certi versi, la base elettorale di Trump si è persino allargata rispetto al 2016, andando oltre la working class bianca.
Ma ha senso chiamare “trumpismo” qualcosa che c’era già prima di Trump? Sì e no. Vero che Trump lo ha trasformato in un movimento politico, in una coalizione elettorale, e lo ha portato alla Casa Bianca, ma chiamandolo “trumpismo” si induce all’errore di pensare che sia nato con lui, e con lui sia destinato a sparire. Nulla nei risultati delle presidenziali 2020 autorizza a pensare che le ragioni della grande frattura emersa prepotentemente nel 2016 – con l’elezione di Trump negli Stati Uniti e Brexit nel Regno Unito – siano state riassorbite.
È la frattura sociale e culturale profonda descritta da David Goodhart, presente in tutte le società occidentali a causa delle distorsioni della globalizzazione. Quella tra Anywheres e Somewheres. Due gruppi sociali legati a valori contrapposti, che vedono il mondo da due diverse prospettive: globalista, cosmopolita il primo; più locale, comunitario, nazionale il secondo.
Più istruiti e inclini alla mobilità, i primi sono i “competenti”, esercitano professioni intellettuali, sono impiegati nel Big Tech, abitano nelle grandi metropoli, le loro reti relazionali vanno oltre i confini nazionali, la loro carriera e il loro status sociale prescindono dal territorio in cui vivono, dal benessere e dalla sicurezza della comunità che si trovano intorno ma alla quale di fatto non sentono di appartenere.
Al contrario, i Somewheres devono tutto ad essa: sono meno istruiti e le loro vite, attività e settori produttivi sono radicati in un particolare territorio. Si tratta di agricoltori, operai, piccoli imprenditori, poliziotti. Per costoro restano fondamentali i legami famigliari, locali e nazionali, i valori tradizionali, la sicurezza.
Non sorprende dunque che i primi abbiano più a cuore ideali più distanti dalla loro realtà quotidiana, come salvare il pianeta dal riscaldamento globale, lottare contro il razzismo, le discriminazioni di genere e orientamento sessuale, e che non si pongano il problema di una immigrazione incontrollata, per loro i confini non esistono o non devono esistere; mentre i secondi sono più preoccupati dei posti di lavoro e dell’ordine pubblico, ma sono meno ascoltati e rappresentati dall’establishment politico e mediatico, da cui si sentono anzi giudicati e disprezzati e covano quindi un forte risentimento.
Sentimenti rafforzati da espressioni come “il 25 aprile dell’America e del mondo”, o “ha vinto la democrazia”, che oltre a risultare piuttosto banali e intellettualmente disoneste, rivelano qualcosa di sottilmente antidemocratico in chi le pronuncia. Primo, si sta implicitamente affermando che quella metà del Paese che ha sostenuto Trump è fascista e razzista. Secondo, che se avesse vinto Trump, non avrebbe “vinto la democrazia” e quindi non sarebbe stato legittimo.
Ed infatti, è esattamente quello che è accaduto dal 2016 ad oggi, quando i Democratici e i media di sinistra hanno provato in tutti i modi di delegittimarlo alimentando la bufala del Russiagate e accusandolo di razzismo e complicità con i white supremacist. Con quale credibilità, dopo quattro anni di demonizzazione e fascistizzazione di Trump e dei suoi elettori, Biden può lanciare oggi appelli all’unità?
Carlo Pelanda, su La Verità, l’ha descritta come una sorta di nuova lotta di classe: un’alleanza tra elites globaliste e sinistra, che controllano i media, contro il ceto produttivo legato al territorio e alle produzioni tradizionali. Un conflitto non solo tra città e campagna – “rappresentazione finalizzata a demonizzare il ceto produttivo per la bassa scolarizzazione” – ma tra “due modi di accesso alla ricchezza”.
Le elites finanziarie e Big Tech “puntano a posizioni monopolistiche o di cartello per le quali hanno bisogno di complicità politiche”. Complicità che trovano a sinistra, dove “prevale un concetto passivo di accesso alla ricchezza per diritto” (sussidi e salario minimo). Quella che Pelanda descrive è una manovra a tenaglia contro “il ceto produttivo incline a trovare accesso alla ricchezza in modi attivi, accettandone rischi e fatiche”, che viene sfidato da una parte dalla globalizzazione, dalla green e new economy, dalla delocalizzazione; dall’altra “da una crescente massa di passivi, sia non poveri sia impoveriti, organizzata politicamente dalla sinistra sostenuta strumentalmente da oligarchie economiche”, sia per loro vantaggio sia “per non esporsi a dissensi”.
L’oligarca “aiuta” la sinistra assistenzialista a vincere, “affinché il meno abbiente non gli rompa le scatole”, e “recita banalità buoniste e ambientaliste”. Da un punto di vista più ideologico, la frattura è tra tecnocrazia cosmopolita progressista e democrazia nazionale.
Da una parte, si punta ad una governance globale dei processi economici e sociali, sempre più sottratti al controllo democratico dei territori, ricompensati con una promessa di redistribuzione della ricchezza e di “nuovi diritti”; dall’altra, la difesa della sovranità e delle prerogative delle istituzioni democratiche espressione dei territori, dei loro interessi e della loro identità.
Ma il “mondo nuovo” globalizzato richiede anche un “uomo nuovo”, rimodellato dal politicamente corretto e dalla cancel culture, alienato dalla propria cultura d’origine, “bianca” e occidentale, quindi razzista, e dai vecchi vincoli di solidarietà nazionale. I globalisti sono fiduciosi che il mondo globalizzato abbraccerà i principi liberaldemocratici, ma l’esempio cinese li ha smentiti e la storia – che si vorrebbe cancellare – dimostra che democrazia e liberalismo si sono affermati e sono evoluti all’interno della cornice dello stato-nazione. E nel frattempo, le loro politiche producono esiti illiberali (dirigismo economico, ingegneria sociale, assistenzialismo).
Trump è stato fino ad oggi il leader più capace, grazie anche al sistema elettorale Usa, di rappresentare le istanze dei Somewheres e dei Forgotten Man, e farsi loro portabandiera. L’establishment politico ed economico che ha guidato i Paesi occidentali nella globalizzazione non ha ancora indicato una via credibile per una ricomposizione di questa frattura, ammesso che sia questa l’intenzione.
Mentre destra e sinistra tradizionali sono state assorbite piuttosto facilmente, ha invece puntato sulla demonizzazione e delegittimazione di Trump, aumentando la pressione sociale, rendendo sempre più alto per il cittadino americano il “costo reputazionale” di sostenere il presidente, nella convinzione che quella del 2016 fosse una fiammata, un ultimo colpo di coda. Le presidenziali del 2020 mostrano che non è così. Non c’è stato alcun rigetto di Trump. La “sua” America c’è. Forte, orgogliosa, mobilitata.
La preannunciata “onda blu” non si è sollevata, al contrario Trump è stato inaspettatamente in partita, fino all’ultimo, e ha davvero sfiorato l’impresa, la Mission Impossible 2. La sua presidenza è stata promossa, non bocciata, dal suo blocco elettorale.
Ha mantenuto molte promesse: una radicale deregulation, il più grande taglio di tasse dell’epoca della globalizzazione, la piena occupazione, indipendenza energetica, nuovi accordi commerciali, confronto con la Cina. La Trumponomics ha funzionato ed è andata a beneficio dell’intera nazione, è stato il periodo più prospero per le “minoranze”, come mostrano i livelli record di occupazione di donne, afroamericani e ispanici, elettori tradizionalmente Democratici.
Come ha osservato Marco Faraci, la strada intrapresa, rendere evidente che le idee conservatrici funzionano per tutti e non solo per la vecchia “America bianca”, è quella giusta per ampliare la base politica del Gop. Dunque, Trump non è stato affatto una sciagura per il Gop. Questo dovrebbe essere ormai un dato acquisito. Infatti è in partita per salvare la sua maggioranza al Senato e ha conquistato diversi seggi alla Camera, dove secondo tutte le previsioni avrebbe dovuto sfondare il Partito democratico.
Una delle ragioni per cui influenti pezzi dell’establishment repubbicano hanno combattuto Trump era la convinzione che con lui il Gop sarebbe diventato il partito degli uomini, bianchi ed eterosessuali, facendo affondare i consensi tra le donne e le minoranze. Non è accaduto. Al contrario, la notizia è la considerevole crescita di consensi tra afroamericani, ispanici e altre minoranze.
Un’altra notizia ancora più emblematica, è che tutti o quasi i candidati Repubblicani che hanno strappato seggi della Camera (una decina) ai Democratici sono donne e/o appartengono a minoranze. Anche se dovesse essere confermata l’elezione di Biden, Trump ha condotto il partito nella direzione da molti auspicata.
La sensazione è che più dei cambiamenti demografici, il Gop debba temere il vero e proprio assedio culturale e mediatico e la propria accondiscendenza. C’è un esito paradossale però della pandemia causata dal virus venuto dalla Cina: da una parte, ha intaccato la fiducia nelle sorti magnifiche e progressive della globalizzazione, mostrando limiti e rischi dell’interdipendenza economica e commerciale con regimi inaffidabili e totalitari come quello di Pechino, tanto da introdurre il dibattito sul decoupling delle catene di fornitura; dall’altra, pare aver fatto fuori il leader mondiale che più di ogni altro aveva esposto quei limiti e sfidato l’ascesa della Cina, e ha colpito ancor più pesantemente proprio i ceti produttivi già malconci per gli effetti della globalizzazione.
Dunque, la pandemia potrebbe accelerare il processo di deglobalizzazione o la correzione delle distorsioni, ma avendo indebolito politicamente le forze che spingono in quella direzione, potremmo anche assistere, al contrario, ad un tentativo di rilancio della globalizzazione.