Pubblicati gli atti del convegno che si è svolto nel 2006 presso il CNR dove sono stati discussi gli aspetti scientifici, medici, filosofici, etici del concetto di morte
di Federico Bonuccelli
Questa definizione di morte secondo criteri più permissivi ha avvantaggiato la pratica dei trapianti visto che gli organi sono impiantabili solo se sufficientemente “freschi” e quindi se espiantati da un donatore a cuore battente, quando funzionalità cardiaca e polmonare sono ancora conservate.
Certamente il fatto che il nuovo criterio sia stato pilotato dall’ intenzione di agevolare i trapianti non è di per sé una prova della sua inesattezza, ma è comunque un dato da tenere presente quando si tratta di valutare le motivazioni a supporto della definizione di morte cerebrale.
Fin da subito e poi in particolare dagli anni ottanta, molti medici, giuristi e filosofi hanno avanzato molte riserve e perplessità riguardo a questo criterio di definizione di morte e il dibattito su questo argomento è molto vivace specialmente in paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone e la Germania.
In Italia, purtroppo, la questione è ancora poco approfondita ma un importante convegno svoltosi a Roma nel dicembre 2006 presso la sede del CNR (Centro Nazionale delle Ricerche) ha dato un importante contributo perché possa essere rimessa in discussione questa nozione di morte cerebrale che, secondo le parole di uno dei relatori, “risponde più ad un approccio utilitarista determinato dalla pressione di coloro che praticano trapianti piuttosto che ad un atteggiamento precauzionistico”.
Il volume “Finis vitae – la morte cerebrale è ancora vita?” curato dal vicepresidente del CNR prof. Roberto de Mattei, raccoglie gli atti di questo congresso dove sono stati discussi gli aspetti scientifici, medici, filosofici, etici della materia in questione. Sono diciotto i contributi di altrettanti studiosi di livello internazionale e tutti di grande interesse e rigore intellettuale.
In tutti si sollevano perplessità che portano alcuni a concludere che quanto meno allo stato delle attuali conoscenze non ci siano solide basi scientifiche per fare la diagnosi della morte umana mediante i criteri clinici della cosiddetta “morte cerebrale” e quindi “in dubio pro vita”.
Secondo altri invece è del tutto evidente che l’individualità biologica di una persona si conserva anche con la morte cerebrale, che le sue funzioni vitali non risiedono nelle facoltà intellettive e che pertanto non si possa parlare di morte fino a che le funzionalità vitali sono presenti (e questo è implicitamente affermato dal fatto che di regola prima di procedere all’espianto si iniettano farmaci paralizzanti e anestetici).
Peraltro, come spiega il prof. Y.Watanabe, cardiologo giapponese, lo stato di morte cerebrale (indipendentemente dal fatto che la si consideri vita a tutti gli effetti o meno) non dovrebbe essere diagnosticato se non dopo l’applicazione della terapia di ipotermia cerebrale. Questa terapia ha evidenziato una notevole efficacia nel salvare pazienti con grave danno cerebrale e nel prevenire l’insorgere la condizione di morte cerebrale. Moltissimi pazienti sottoposti a tale terapia hanno riacquistato la loro normale vita quotidiana.
Con tutto questo i relatori non hanno voluto mettere in dubbio la liceità in linea di principio del trapianto di organi, ma hanno sottolineato come non sia legittimo perseguire un fine buono attraverso un mezzo illecito come sarebbe l’eventuale uccisione del “donatore”.
Con la fondata preoccupazione che, se passasse il principio che può essere legittimo espiantare organi da una persona in stato di “morte cerebrale” (e quindi senza la fondata certezza che questa sia la morte di fatto), la categoria dei possibili “donatori” potrebbe essere via via allargato alle persone in stato vegetativo, ai soggetti con handicap mentali e ad altri soggetti deboli della società, secondo il ben noto principio del piano inclinato.