Lasciate stare Gramsci

Antonio GramsciIl Borghese anno XVII n. 6 giugno 2017

A Ottant’anni dalla morte

di Giuseppe Brienza

Ottant’anni fa, il 27 aprile 1937, moriva a Roma il filosofo, politico, giornalista e critico letterario Antonio Gramsci (1891-1937), cofondatore a Livorno nel 1921, con Amedeo Bordiga, del Partito Comunista Italiano. L’anniversario della scomparsa ha dato luogo, come sempre, a cerimonie e rievocazioni ivi compresa la visita di personaggi e politici della sinistra italiana al “cimitero acattolico” di Roma, dove riposano le spoglie dell’intellettuale sardo.

La novità di quest’anno è stata la contestazione al presidente del Pd Matteo Orfini che, dinanzi alla tomba di Gramsci, si è visto così apostrofare da un gruppo di studenti: «Lasciate in pace Gramsci, lasciatelo in pace». «Lei crede alla lotta di classe, lei è comunista?», ha strillato poi uno dei ragazzi rivolgendosi a Orfini, invitandolo nuovamente ad andare via. Al che, il leader renziano, ha sbottato (giustamente): «Non si strilla sulle tombe, porti rispetto ai morti, sta facendo uno show in un cimitero. Ognuno di noi onora come crede, poi possiamo andare fuori e parlare» (cit. in Orfini visita la tomba di Gramsci, studente lo contesta, Il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2017).

“Chi di contestazione ferisce, di contestazione ferisce”, verrebbe subito da dire commentando questa cronaca, nella quale vediamo per la prima volta (o quasi) nella politica italiana contemporanea un leader della sinistra aggredito verbalmente dopo aver letto o assistito, durante e dopo il Sessantotto, a innumerevoli sceneggiate e umiliazioni che hanno dovuto subire onesti professionisti, magistrati, politici o dirigenti, talvolta anche davanti alle loro famiglie, solo perché coerenti con le loro idee o attività anti-comuniste.

GramsciVenendo invece ad aspetti della “narrazione gramsciana” non toccati neanche in occasione di quest’ultimo anniversario dalla cultura e dai grandi media nazionali, ci pare utile riproporre quello del suo rapporto con Dio. Secondo alcune testimonianze, infatti, nel periodo di degenza trascorso nella clinica “Quisisana” di Roma l’intellettuale sardo avrebbe intrapreso un percorso di auto-coscienza che lo indusse scoprire che «il senso di qualcosa che manca» poteva essere riempito non da un ingannevole “oppio” bensì da un amore trascendente.

Così scriveva venticinquenne nella rubrica Sotto la Mole dell’edizione torinese dell’Avanti! il 4 marzo 1916. Su questo tema, centrale nella riflessione dell’uomo di tutti i tempi, Gramsci non poté non ritornare quando, a partire dal 24 agosto 1935, a motivo dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, fu trasferito nella famosa clinica romana nella quale passerà “recluso” (tranne alcuni periodi di libertà) gli ultimi tre anni della vita, prima di morire a soli 46 anni a causa di un’emorragia cerebrale.

Nello stesso citato articolo torinese, scritto dal fondatore del Pci quando ancora militava nel Partito Socialista, leggiamo: «La religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo».

Nella non conforme (per l’atmosfera politico-culturale dell’epoca) osservazione antropologico-filosofica dello studente Gramsci registriamo, come ha notato il filosofo dell’università di Palermo Franco Lo Piparo «che la religione non è né l’oppio dei popoli e nemmeno una sovrastruttura destinata a collassare una volta cambiato l’assetto socio-economico su cui si regge». È, piuttosto, un bisogno dello spirito, che «ha a che fare con la natura dell’uomo indipendentemente dai modi in cui quel bisogno nella storia si declina. Le numerose annotazioni, disseminate nei Quaderni, sulle religioni e sulla fede che le sorregge non mettono mai in discussione il principio» (Franco Lo Piparo, Per Gramsci la religione è necessaria, L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 6).

GramsciDel resto nel 2008 alcune rivelazioni hanno riportato la notizia di una apparente conversione in punto di morte del fondatore del Pci. La conferenza stampa per presentare un catalogo di santini e immagini sacre per collezionisti, fu la circostanza della quale approfittò il Pro-Penitenziere emerito della Santa Sede di origine sarda mons. Luigi De Magistris per rivelare: «Il mio conterraneo Gramsci aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: “Perché non me l’avete portato?”. Gli portarono allora l’immagine di Gesù Bambino e Gramsci la baciò». E ancora, come aggiunto affermò dallo stesso prelato vaticano nella medesima circostanza: «Gramsci è morto con i sacramenti, è tornato alla fede della sua infanzia. La misericordia di Dio santamente ci “perseguita”. Il Signore non si rassegna a perderci» (cit. in Federico Cenci, Gli ultimi anni di Antonio Gramsci: dal comunismo a Gesù?, in Zenit.org, 23 agosto 2014).

Una suora fu la fonte del prelato che per anni si è occupato in quanto penitenziere di indulgenze, peccati e assoluzioni. Anche lei sarda, la religiosa è la sorella di mons. Giovanni Maria Pinna, segretario della Segnatura apostolica. Suor Pinna, in occasione di una Messa in suffragio di suo fratello scomparso, raccontò ad alcuni ecclesiastici presenti l’inedito particolare relativo all’ultimo periodo di vita di Gramsci. Aggiunse che il fondatore del Pci, una volta riavuta la statuetta del Gesù Bambino, «la baciò con evidenti segni di commozione».

La testimonianza di suor Pinna s’incontra con quella, circolata per anni benché mai confermata da altre fonti, di un’altra religiosa in servizio a “Quisisana” durante la degenza di Gramsci. Si tratta di suor Gertrude, di origini svizzere, la quale confermò che nella stanza numero 26, dove egli trascorse l’ultimo periodo della sua vita, c’era una statuetta di Santa Teresa del Bambino Gesù «verso la quale lui sembrava nutrire una simpatia umana, tanto da non volere che fosse tolta e nemmeno spostata» (cit. in ibidem).

Si trova accenno alle ultime ore di vita di Gramsci, morto nella notte tra il 26 e il 27 aprile 1937, in una lettera che la cognata Tatiana Schucht scrisse il 12 maggio di quello stesso anno: «Il medico fece capire alla suora che le condizioni del malato erano disperate. Venne il prete, altre suore, ho dovuto protestare nel modo più veemente perché lasciassero tranquillo Antonio, mentre questi hanno voluto proseguire nel rivolgersi a lui per chiedergli se voleva questo, quell’altro…».

Solo Dio sa cosa è seguito a quei puntini di sospensione ma, dal rapporto di Gramsci con la verità, almeno quella umana con la “v” minuscola, possiamo anche noi intuire qualcosa. Dal carcere, per esempio, così scriveva Gramsci a Tania il 12 ottobre del 1931: «Io non sono mai stato un giornalista che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella sua qualifica professionale. Sono stato giornalista liberissimo, sempre di una sola opinione, e non ho mai dovuto nascondere le mie convinzioni per fare piacere a dei padroni».

Da questa citazione potrebbe, con diritto, ripartire l’anima pensante (se ancora esiste) della sinistra italiana per ritrovare un’anima e, magari, intraprendere una reazione contro le pratiche di mercificazione della dignità umana e del corpo femminile che, asservita ai Poteri Forti, sta ormai quasi esclusivamente promuovendo. Per questo, e non altro, l’attuale sinistra arcobaleno meriterebbe la contestazione di cui sopra: «Lasciate in pace Gramsci, lasciatelo in pace»!