Dato per spacciato a causa di una malformazione rarissima, ha lottato per mesi con una pancia di Gore-tex e un paio di organi a spasso. Fino a una guarigione impensabile. La saggezza dei medici, la fede dei genitori, la pazienza di osservare
Laura Borselli
Pancia contro pancia. Si dice che sia questo il modo migliore per tenere i bambini appena nati. Così sentono l’odore della mamma e del latte. I filmati per promuovere l’allattamento materno mostrano bambini che appoggiati a pancia sotto sulla mamma arrivano spontaneamente al seno. Pietro a pancia in giù non si è mai messo. Ha guardato subito il mondo. E anche il mondo lo ha guardato. Il 2 gennaio 2014, quando è nato con cesareo programmato alla clinica Mangiagalli di Milano «ha pianto subito fortissimo. Respirava. Era vivo».
A 12 settimane di gestazione Elisa ed Emmanuele, 33 e 35 anni, sono pronti a festeggiare la fine del periodo critico, quello in cui per pudore e timore ci si vota al silenzio. Dopo due gravidanze interrotte spontaneamente in epoca molto precoce non gli sembra vero. Poi durante l’ecografia notano la faccia scura della ginecologa che consiglia un esame più approfondito. L’accertamento conferma quello che si vedeva fin troppo bene da subito: onfalocele gigante.
In quel magma in cui il bimbo è piccolo come una virgola e vitale come un girino, Elisa vede un puntino di fronte alla sagoma di suo figlio. È la pancia di Pietro. Un bel pezzo della sua pancia, nella fattispecie una porzione di intestino, il fegato, la cistifellea e un pezzo di stomaco non sono posizionati nella cavità addominale ma fuoriescono, come un’ernia, racchiusi da una membrana sottile. «Una sorta di ombelico, ma molto più grande, con dentro degli organi», spiega Antonio Di Cesare, chirurgo pediatrico al Policlinico di Milano. In un centro con circa seimila parti all’anno come la Mangiagalli l’ultimo caso che si ricorda simile a quello di Pietro risale a circa sette anni fa. Di gravità inferiore se ne operano non più di due o tre all’anno.
«Ci avevano spiegato che la membrana poteva rompersi da un momento all’altro e che questa patologia si associa spesso a delle anomalie genetiche». Non è detto che nasca, non è detto che respiri, non è detto che sia un bambino sano. Quando il medico ha ancora la sonda sulla sua pancia Elisa è tramortita e infuriata. Emmanuele invece fissa lo schermo con un sorriso.
«Mi sono girata e ho visto che aveva gli occhi da pesce lesso, la faccia da innamorato». Stava guardando una cosa bellissima, suo figlio. Elisa ha bisogno degli occhi di suo marito per vederlo. Ogni giorno di gestazione è un giorno in cui Pietro cresce e inaspettatamente vive. Esattamente la stessa cosa che accade ai suoi genitori, che in testa hanno le parole su cui stanno lavorando con la comunità di Comunione e liberazione: le circostanze, dicono, ci sono date per la nostra maturazione.
Su consiglio di un’amica medico decidono di chiedere un secondo parere e così dal Sant’Orsola di Bologna arrivano al Policlinico di Milano, dove incontrano il dottor Di Cesare. La diagnosi è la stessa, i protocolli di intervento non sono univoci. Soprattutto perché i piccoli con malformazioni così gravi che arrivano a nascere, per circostanza casuale o per scelta dei genitori, sono davvero pochi. Emmanuele ed Elisa sono orientati a stare a Bologna, dove vivono e dove la logistica sarebbe più semplice. È ancora la stessa amica a fargli cambiare idea, poche settimane prima del parto. A Milano cercano una casa. Non si sa per quanto tempo, non si sa se potranno mai portarci il loro bambino. Bisogna aspettare e stare a vedere, di nuovo.
Dopo un Capodanno in ospedale, nasce Pietro: 3,5 kg. Nei due giorni in cui Elisa non può alzarsi dal letto, Emmanuele è un padre con telefono strapieno di fotografie e filmati. Ha l’attenuante di doverli mostrare a una moglie che non può muoversi, lo stupore di chi si aspettava di tutto e si scopre padre di un bambino bellissimo. E poi deve mostrare le prove allo stuolo di persone a cui lui ed Elisa hanno chiesto di pregare.
«Quando abbiamo saputo della malattia di Pietro un amico ci ha consigliato di chiedere a chiunque di pregare. Lo abbiamo fatto senza pensare a che potenza potesse avere tutto questo», raccontano. A poco a poco i mille tubicini a cui Pietro è attaccato scompaiono. Mangia, va di corpo. «Penso di essere stata l’unica mamma contenta di essere in terapia intensiva, era un traguardo pazzesco».
Elisa ed Emmanuele imparano a tenerlo in braccio senza urtare la sua pancia, una sorta di pallone protetto da una garza e costantemente medicato per evitare infezioni. Lui fa ogni giorno la spola in treno da Bologna dove lavora, lei vive praticamente in reparto, sempre aperto per i genitori. Dà il biberon a Pietro, impara a partecipare alle cure e alle medicazioni con l’aiuto degli infermieri. È una situazione limite, ma stabile. Al punto che vengono rimandati a casa in dimissione protetta dopo circa due mesi.
Il battesimo d’urgenza
«La scelta dei nostri chirurghi – spiega Gloria Cristofori, pediatra della terapia intensiva neonatale del Policlinico – era di non fare nulla nell’immediato, ma di cercare di mantenere stabile la situazione fino a che non si fossero create le condizioni per operare». «Sul piatto – interviene Di Cesare – avevamo due elementi. Da un lato la pancia di Pietro, che ovviamente era a costante rischio infezione.
Dall’altra parte il fatto che un’operazione troppo precoce poteva essere pericolosa e soprattutto rischiavamo di non poter richiudere l’addome perché non c’era spazio. Abbiamo scelto di proteggere gli organi isolandoli con medicazioni sterili, avere cura di questa pancia delicata fino a che non si fossero create le condizioni per richiuderla». Mesi? Anni? Impossibile dirlo, bisogna aspettare e stare a vedere.
A casa passano tre giorni bellissimi, fino a che Elisa si accorge che qualcosa non va. Pietro viene ricoverato di nuovo. La notte Emmanuele ed Elisa vengono richiamati d’urgenza: l’intestino si è perforato e la situazione sta precipitando. È la notte tra il 28 febbraio e il primo marzo e la pediatra di turno in terapia intensiva pediatrica è Gloria Cristofori. Il giorno dopo un amico prete doveva venire a battezzare Pietro ma non c’è tempo: è la dottoressa a farlo. «In un reparto come il nostro capita spesso, abbiamo l’acqua benedetta e chiunque può farlo in situazione di pericolo di vita».
Di turno quella notte c’è anche il dottor Di Cesare, che conosce bene il caso di Pietro. È lui a riuscire ad applicare un drenaggio temporaneo per poter andare in sala operatoria con una situazione più stabile il prima possibile. Il primario di chirurgia pediatrica, Ernesto Leva, si precipita. Torna di corsa dalle vacanze anche il professor Giorgio Rossi, responsabile della chirurgia del fegato e dei trapianti e il giorno dopo Pietro va sotto i ferri.
Del delicatissimo passaggio dell’anestesia si occupa la dottoressa Susanna Terracciano. La membrana naturale dell’onfalocele non esiste più e viene sostituita con una placca di Gore-tex. Una parte degli organi viene riposizionata nell’addome, ma Pietro sviluppa una insufficienza multi organo che sembra la parola fine sulla sua avventura. Quando, dopo due giorni di riposo, la dottoressa Cristofori torna in servizio e chiede notizie di Pietro i colleghi le rispondono che non c’è niente da dire, «si può solo aspettare».
Oggi nella cartella immagini del computer di Emmanuele c’è un buco di dieci giorni. Sono i giorni in cui lui ed Elisa vivono attaccati all’astronave che custodisce il loro bambino, attraverso un oblò gli parlano e gli tengono la mano. Ogni medico del reparto li prende da parte e li prepara al peggio, loro recitano il rosario e pregano il beato Rolando Rivi, seminarista emiliano 14enne ucciso in odio alla fede dai partigiani nel 1945. Al cappezzale del figlio, Emmanuele ed Elisa conoscono i genitori di Mohammed, uno dei compagni di stanza di Pietro. «Vedo che pregate, pregate anche per mio figlio, noi preghiamo per il vostro».
I giorni passano e Pietro non peggiora. Emmanuele incontra la dottoressa Cristofori: «Dottoressa, lei ha battezzato mio figlio, dobbiamo conoscerci». È un momento spartiacque. Un reparto come quello è un posto difficile, violento, dove i genitori naufragano stremati, magari dopo aver inseguito per anni un figlio con ogni mezzo. Si resta inchiodati magari per mesi, anni, a un dolore misterioso e alla vertigine della morte.
«Lì eravamo tutti genitori, persone, un pozzo di desiderio per noi e per i nostri figli che nessun uomo può risolvere. Abbiamo conosciuto tanta gente diversa da noi, si è creato un legame forte. Dal mangiare insieme, al prendere un caffè. Un giorno ci siamo resi conto che eravamo nel posto giusto perché il Signore ci chiedeva di stare lì. Ci siamo scoperti ad abbracciare quello che succedeva. E questo ha fatto la differenza a prescindere dalla guarigione di Pietro».
Emmanuele e le certezze suine
Passano le settimane e il «super eroe», così lo chiama oggi la dottoressa Cristofori, ha ancora la sua pancia di Gore-tex e il fegato a spasso. I chirurghi studiano soluzioni e soprattutto materiali da utilizzare come protesi. Il fatto che a un certo punto entri in campo un prodotto derivato dal maiale fa la felicità di Emmanuele, figlio di un’Emilia di solide certezze suine. Sul piatto c’è anche l’ipotesi di tagliare un pezzo di fegato per farlo rientrare nella cavità addominale.
Intanto Pietro si è incredibilmente ripreso. Cresce, mangia, ride, esce ogni tanto dall’ospedale. Due volte a settimana viene medicato per oltre un’ora dai chirurghi. Per il primo luglio è fissata l’operazione decisiva. Il week-end precedente Emmanuele ed Elisa, insieme alla dottoressa Cristofori, portano Pietro sul lago di Como. La mattina dell’intervento, a pre ricovero già fatto e bimbo già a digiuno, il primario Leva ha l’intuizione di fermare tutto.
Non è convinto, Pietro sta bene, il rischio di destabilizzare una situazione comunque in equilibrio non va corso. Si rimanda tutto. A quando? Chi può dirlo. Bisogna aspettare e stare a vedere. Passa l’estate e Pietro viene operato in ottobre. I medici avevano notato che l’onfalocele si rimpiccioliva man mano che Pietro cresceva. Con tutte le ipotesi e le protesi possibili sul piatto si entra in sala operatoria. L’equipe dei chirurghi pediatrici chiede l’assistenza anche del chirurgo epatico e del chirurgo plastico. Escono dopo meno di due ore con l’artiglieria pesante inutilizzata. Il chirurgo plastico è deluso: «Noioso signora, noioso e banale».
L’intuizione e l’umiltà del chirurgo
La scelta di aspettare si è rivelata giusta, il bambino è cresciuto e gli organi hanno trovato posto. Oggi la sua pancia è normale. «Ha solo un’ernia inguinale congenita che non c’entra nulla con l’onfalocele. In un certo senso quell’ernia – osserva Di Cesare – ci ha aiutato, ha fornito uno “sfogo” in quegli spazi ristretti».
La settimana scorsi i genitori di Pietro e i due medici hanno raccontato la storia di Pietro durante un incontro organizzato dalla comunità di Cl di Modena. «Fino alla notte della perforazione intestinale – ha detto la dottoressa Cristofori – io sapevo che erano in reparto, erano forti, avevano diversi amici che venivano a trovarli. Mi sembravano a posto. Quando hanno chiesto la mia amicizia ero in un periodo difficile. Rimproveravo a Dio di essersi dimenticato di darmi la vocazione.
Loro invece che stavano vivendo una sofferenza fisica vera erano illuminati, erano vicini a Dio. Stando con loro ho imparato a leggere i segni di Dio nella mia vita. “Perché sono così ricche queste persone?” mi chiedevo. Allora mi sono messa a leggere la Vita di don Giussani e ho scoperto che avete ricevuto una grande ricchezza all’origine. La ricchezza che avete voi è la compagnia che vi fate. Pietro a me ha cambiato la vita, la prima miracolata sono io che ho avuto una compagnia nel mio deserto».
All’età di dieci mesi Pietro ha potuto fare il suo primo bagnetto. La prossima estate, insieme al suo fratellino che è in arrivo, andrà al mare. Lì potrà mostrare a tutti la sua cicatrice lunga tutta la pancia, come quella del lupo di Cappuccetto Rosso. Ma prima dovrà presenziare a una cerimonia importante, perché la dottoressa Cristofori e il dottor Di Cesare si sposeranno a maggio.