”Lavoro oggi in Italia”

Giancarlo_Cesana

Giancarlo Cesana

Intervento di Giancarlo Cesana

ad un seminario organizzato  dalla Compagnia delle Opere

Dico solo una cosa prima di entrare direttamente nel merito della questione che mi è stata posta. Proprio la fine della settimana scorsa sono stato in Svezia a un convegno per la fondazione di una società di psicologia del lavoro a livello europeo, e quello che ho riscontrato è che la struttura del lavoro e i problemi connessi (salute, esigenze esistenziali) stanno profondamente mutando.

Per esempio, l’orario medio di lavoro in Inghilterra e negli Stati Uniti è di 49 ore alla settimana, la stabilità sul posto del lavoro, cioè quanto una persona permane nel posto di lavoro è diminuita di 7-8 anni, quindi sono aumentate molto l’insicurezza e la conflittualità. Come ha detto anche Martini, stiamo entrando in un mondo profondamente diverso: nella storia dell’uomo il lavoro – cioè quello agricolo – è stato per secoli uguale per tutti, mentre negli ultimi 100 anni è profondamente cambiato e adesso sta cambiando ancora più rapidamente, come contenuti, tipo di organizzazione, problematiche.

Mi sembra che l’osservazione più elementare sia che il lavoro nasce come necessità di rendere la realtà più corrispondente all’esigenza dell’uomo, cioè di umanizzare la realtà, riempire la realtà di senso, di un fattore di corrispondenza a sé; e dall’altra parte il lavoro implica anche una necessità dell’uomo di adeguarsi alla realtà.

Questa perché nel rapporto con la realtà, l’uomo cambia la realtà, ma è a sua volta cambiato dal rapporto con essa, perché l’uomo non l’ha fatta, e quindi per rapportarsi alla realtà deve vivere un cambiamento. Il fattore che descrive questo cambiamento si chiama fatica, perché la fatica discende dal fatto che la realtà, non essendo stata fatta da noi, implica un nostro impegno di energia per cambiarla, e per cambiare noi.

Da questo punto di vista faccio una precisazione incidentale derivante dai miei studi, e cioè che la fatica del lavoro oggi non è da attribuirsi al fatto che il lavoro è troppo, quanto al fatto che è troppo poco, cioè è troppo povero. In un’indagine fatta sulla popolazione della Brianza, nel 43% degli occupati la percezione del lavoro è la percezione di un luogo passivo, e dal punto di vista della difficoltà esistenziale il rapporto che esiste tra lavoro e difficoltà non è una linea retta, ma una curva a U, cioè le cose vanno male sia quando il lavoro è troppo sia quando il lavoro è troppo poco, e in genere si ha la percezione è che il lavoro sia troppo poco.

Il lavoro richiede quindi fatica: il problema, secondo me, da porsi non è tanto che il lavoro non comporti fatica, ma che il lavoro, e quindi la fatica che vi è implicata, abbia uno scopo, perché è lo scopo che ne definisce i contenuti e i metodi.

Da questo punto di vista, anche se noi non ce ne accorgiamo, vivendo in una società occidentale viviamo un’esperienza lavorativa che ha come suo fondamento il bene per la persona: è un esperienza lavorativa costruita sull’esperienza cristiana ,tanto è vero che in altre società e culture questo tipo di percezione del lavoro non esiste: per esempio in Giappone il lavoro è concepito come asservimento, come integrazione totale nella società in quanto espressione del paese, e la realizzazione della personalità è il proprio annullamento nella realizzazione del destino del paese.

Oggi i giapponesi hanno enormi problemi dovuti al sorgere di una dimensione personale del lavoro: per esempio, stanno aumentando le assenze per malattia.

Quindi il problema non è fare in modo che il lavoro non comporti fatica, il problema è lo scopo; allora, esemplificativamente, se noi diciamo che lo scopo del lavoro è la gloria umana di Cristo, questo significa che lo scopo del lavoro, per il significato che ha Cristo nell’esistenza umana, è la scoperta della verità avendo Cristo come via a questa scoperta.

Una impostazione di questo genere determina contenuto e metodo: se lo scopo del lavoro è questa conquista di una umanità più vera, più corrispondente alla verità, è possibile accettare da una parte che la realtà non è fatta da noi, da un ‘altra parte che esiste una verità a cui corrispondere attraverso il lavoro. Accettare questo non è semplicemente un’intenzione, ma è un paragone con un luogo in cui questa verità sia in qualche modo presente.

Questo confronto, che ha come scopo il realizzarsi di un umanità più vera, è per la persona: la realizzazione di un umanità più vera attraverso il lavoro è per la persona e solo così può essere anche per la collettività.

La nostra impostazione cristiana è questa: in questo senso noi ci differenziamo dal liberalismo classico, che vede il perseguimento dell’interesse individuale fondamentalmente contrapposto a quello sociale, come anche dal marxismo, che dà prevalenza all’interesse generale. Per noi invece le due cose stanno insieme e questo costituisce la sfida culturale e organizzativa che ha dato vita a una realtà come la Compagnia delle Opere! che non è un sindacato ma appunto una compagnia! È un aiuto a un viaggio verso il destino attraverso, appunto, la realtà del lavoro, in modo tale da tenere insieme tutta l’esigenza umana.