di Dino Basili
Lasciamo stare i commenti di parte avversa. Dalle dichiarazioni favorevoli al partito democratico, che dovrebbe nascere tra le fronde dell’Ulivo, viene fuori un’immagine astratta, con squarci «pop». Secondo i vertici dei Ds siamo davanti a «un processo graduale, per tappe, che non passa per la dissoluzione dei partiti di centrosinistra» (Piero Fassino). «Una prospettiva, quasi un sogno» (Gavino Angius).
Accanto a chi sostiene «un progetto declinato al futuro, anziché sulle identità politiche del passato» (Arturo Parisi), non manca chi rifiuta apertamente un partito che si definisca riformista, «perché già l’espressione rimanda alla tradizione socialista» (Ciriaco De Mita). Inoltre, si cerca di esorcizzare (Romano Prodi) un rischio non campato in aria: che il processo avviato possa apparire una riedizione del «compromesso storico».
Ugualmente significativo, quasi in simbiosi, lo sforzo diessino nel sottolineare che, loro, non sono più «solo il partito di quelli che vengono dal Pci». Una sostanziale discontinuità, però, non si avverte a 360 gradi. Altrimenti certi altolà sarebbero incomprensibili: “il partito democratico o sarà pluralista o non sarà» (Francesco Rutelli). I tentativi egemonici esistono e pesano.
Le «primarie» (sia pure all’italiana: plebiscito attorno a un nome prescelto) sono inedite e interessanti. Tuttavia l’enfasi è stata eccessiva. Come si fa, ragionevolmente, a sostenere che l’Italia, dopo il 16 ottobre, «non è più la stessa»? Il cosiddetto «popolo delle primarie» è un’entità favolosa, per scaldare i cuori in vista del confronto elettorale
È una costatazione assai condivisa che l’evento ha ridimostrato (chi le negava?) la capacità di mobililazione e la tenuta organizzativa di «quello che resta del Pci» e del suo capillare collateralismo. Al successo ha contribuito anche la «cetomedizzazione dell’antiberlusconismo» (Giuseppe De Rita), frutto di una stressante campagna mediatica.
Imputare al premier e al centrodestra ogni problema, datato o nuovo, che affligge il Paese è pura propaganda. Tra l’altro, non è prudente credere a chi, per decenni, è stato sempre dalla parte sbagliata. Adesso lo ammettono diverse autocritiche: purtroppo isolate o scarsamente correnti. Comunque, è arduo affermare che le primarie sono state (addirittura) un momento fondativo, essenziale, del «prossimo venturo» partito democratico. Non c’è stato neppure, in premessa, un apporto all’attesa definizione dei capisaldi programmatici. Né poteva esserci, per l’impostazione promozionale della prova.
L’eterogeneità non consente risposte dettagliate? Si ricorre al repertorio retorico. Cosi l’impegno è ognora «fortissimo» e le preoccupazioni «immense». Per arrivare dritti al catastrofismo allorché si parla dell’avversario e del suo operato. Ma le demonizzazioni, per quanto insistite e violente, sono un collante provvisorio: non aiuteranno a governare. Come non hanno aiutato a sviluppare un’opposizione costruttiva.
Nel centrosinistra, insomma, esistono realtà non solo lontane ma notevolmente differenti, in periferia ancor più che a Roma: realtà che oggi ostacolano un amalgama, A volte, la forbice delle opzioni si allarga o consolida, anziché diminuire. Gli appelli «unità, unità!», magari in un tripudio di bandiere rosse, sono accompagnati da puntuali «nonostante» e continui «distinguo», perfino sul modo d’intendere la laicità dello Stato (caricaturalizzata dalla new entry radicale nel giro dell’alternanza).
Perché le ricorrenti accelerazioni verbali verso il partito democratico? Slato di necessità: le elezioni politiche sono alle porte ed è urgente indicare un approdo che rassicuri il voto moderato. Le esercitazioni lessicali e i burocratismi federativi non trascinano gl’incerti e neppure i delusi dal centrodestra. Occorre una «svoltona», almeno all’orizzonte, almeno virtuale, che annulli persistenti ombre.
Però, sotto sotto, i Ds si comportano come il Pci nel Comitato di liberazione nazionale. Tant’è che, «nonostante» le primarie, puntano a una leadership plurale, dove le danze sono condotte dal partito maggiore, sempre pronto a imbarcare la sinistra estrema (in Germania, la riformista Spd ha preferito la Grosse Koalition a guida di centrodestra, pur di evitare un governo frontista).