di Marco Respinti
Il bababau dell’ora presente sono le famose e famigerate agenzie di rating. Fino a qualche tempo fa – cioè fino a che il premier Silvio Berlusconi non è stato maldestramente accusato di essere la causa di ogni male nazionale, dagli attacchi portati dagli speculatori al nostro Paese fino all’intasamento dello scarico idraulico di casa – il pueblo non aveva minimamente idea di cosa fossero; oggi invece sono sulla bocca di tutti.
E, come sempre avviene in questi casi, sia opportunamente sia inopportunamente. Giacché spesso, troppo spesso le agenzie di rating vengono rozzamente definite, e quindi imputate, di essere lo strumento oscuro e libidinoso della rapacità intrinseca di quella brutta e sporca cosa che si agita di sera per mettere a nanna i bimbi capricciosi e che si chiama, sin dalla notte dei tempi, «capitalismo». Ma non è vero.
Le agenzie di rating sono semmai proprio il contrario, cioè il nemico dell’economia libera di mercato, l’unica che la storia prova e riprova funzionare e contribuire a erigere società autenticamente a misura di uomo. Agenzie quali Moody’s, Standard and Poor’s e Fitch Ratings sono istituti privati che, in base a certi criteri, distribuiscono pagelle e patenti: valutando quelle che essi ritengono essere l’affidabilità economica, la capacità di solvenza del debito sovrano, la tenuta finanziaria e le garanzie fornite agl’investitori da Stati, regioni e altri enti, promuovono o bocciano. Sono insomma dei maestrini
Le agenzie di rating questo fanno perché il mestiere che fanno è quello dei consulenti, pagati: dietro emolumento, consigliano tizio e caio su come e dove disporre dei propri risparmi. In più di un caso, dietro quel tizio e quel caio ci sono però le agenzie di rating stesse: o perché nel gioco ottengono percentuali o ricadute vantaggiose in diverse forme di prebende, oppure perché impegnano direttamente denaro proprio in questo o in quel business. Ora, i criteri di valutazione utilizzati dalle agenzie di rating per promuovere o per bocciare un affare sono stabiliti da nessun altro se non dalle agenzie di rating stesse
Questi autoeletti comitati di controllo stabiliscono cioè le regole di un gioco a cui poi costringono a giocare tutti quegli altri che pure non hanno avuto mai la benché minima voce in capitolo nella stesura di dette regole: il perché dunque questi giocatori controvoglia dovrebbero poi osservarle o, com’è il caso, venirne penalizzati proprio non si capisce. Non è cioè che le agenzie di rating siano lo strumento di un criterio condiviso a priori da tutti e quindi da questo «consenso dei governati» legittimate, ma l’esatto contrario: sono lo strumento arbitrario di qualcuno che, forte di denari spesso viziati dalla voglia speculativa di un guadagno che infrange ogni deontologia, ogni criterio etico e ogni rule of law, ha l’energia fisica del classico «più forte» nel dettare una legge autoreferenziale
Il modo di agire delle agenzie di rating, insomma, nella misura in cui è impositivo, è dispotico. Ma come fanno, ci si chiederà, tali agenzie di rating a essere tanto determinanti se mancano di legittimità e autorevolezza? La loro forza, enorme, deriva dal fatto che, potendo fare e disfare con relativa semplicità il benessere economico di realtà organizzate, sono anzitutto temute, in secondo luogo ascoltate da chi ha buon gioco a sfruttarne il potere, in terzo luogo, sai per timore sia per tornaconto, strombazzate dalla stampa (che si divide fra quella che dagli strombazzamenti ha un ricavo in dividendi e quella che dallo sbattere il mostro in prima pagina ne lucra scoop) la quale acriticamente dà tutto in pasto al pubblico generalista, il più delle volte tecnicamente sprovveduto e quindi in balia delle maree
Le agenzie di rating, dunque, che altro non sono se non dei controllori autonominatisi, fanno le regole, semmai le cambiano durante il gioco, e per definizione e volontà sono svincolati da qualsiasi riferimento a una legge superiore, foss’anche solo a una legge generale a monte. Fanno il bello e il cattivo tempo e, per acquiescenza comune e abitudine a inchinarsi al faraone di turno tipica degli schiavi, tutti ripetiamo che hanno il potere di farlo. Al massimo, critichiamo cosa concretamente fanno in questa o in quella occasione, cioè quando il loro agire cozza con interessi nostri, ma non ne mettiamo mai in dubbio la legittimità di fondo. Senza contestarne la legittimità di fondo è però inutile lamentarsi dei mali che le agenzie di rating producono, giacché è ovvio che le agenzie di rating, forti di una filosofia intrinsecamente dispotica, lavorino con l’unico scopo di far quadrare i propri bilanci e alzare i dividendi attraverso la speculazione che favoriscono, i giochetti finanziari incrociati e su più tavoli che creano, nonché la pelosa strategia del perdere un po’ oggi per guadagnare il doppio domani di cui vivono.
Ecco perché il giudizio positivissimo dato dalle agenzie di rating alla Lehman Brothers solo una settimana prima di quel suo clamoroso fallimento che ha scatenato la crisi economico-finanziaria mondiale, o, in Italia, alla Parmalat appena prima del suo crollo rovinoso, sono certamente il segno della fragilità di quegli istituti arbitrari e dispotici di valutazione (un po’ come Mario Monti che giurava e spergiurava essere la Grecia l’esempio più fulgido della perfetta riuscita del sistema euro…), ma al contempo anche il modus operandi normale di chi esiste solo per sfruttare il guadagno vero, il profitto legittimo e il risparmio sacrosanto di singoli, famiglie, intraprese autenticamente libere e altrettanto pienamente responsabili, nonché comunità politico-istituzionali regionali o nazionali.
Ebbene, dire che tutto questo è la quintessenza del capitalismo equivale però a definire Karl Marx un tetragono difensore della sacralità della proprietà privata personale. L’economia libera di mercato – che purtroppo scimmiottando proprio Marx chiamiamo troppo disinvoltamente «capitalismo» – funziona infatti in modo opposto, reggendosi su due perni fondanti: la concorrenza e la certezza del diritto. La prima è il motore creativo che spinge a fare bene offrendo servizi migliori a prezzi inferiori, la seconda è il contesto che rende possibile la concorrenza autentica
La concorrenza, infatti, è il puntare assieme al medesimo obiettivo attraverso una gara schietta dove vince il migliore; ma ciò è possibile solo in assenza di vizi di forma e di sostanza, di adulterazioni, di frodi. La concorrenza è il tentativo di raggiungere per primi il traguardo, non la distruzione fisica dell’avversario. Perché ciò funzioni, il principio non negoziabile a monte di tutto è il diritto di proprietà che inerisce alla persona umana per come la persona umana è fatta, tal che l’economia è uno strumento a disposizione dell’uomo affinché egli (contando su autonomia e autosufficienza) possa difendersi dalle aggressione
La certezza del diritto che garantisce la concorrenza vera è la regola che ogni attore del mercato libero osserva, riverisce e persino talora dà per scontata: non fanno eccezione nemmeno gli anarco-individualisti, anzi, che a suggello di tutto postulano il diritto naturale. Le regole vanno rispettate, altrimenti il mercato di adultera e diviene una caricatura di se stesso dove trionfano solo l’arbitrio e il dispotismo, per esempio quello delle agenzie di rating che appunto agiscono fuori dalla norma
Tale rule of law che permette le virtù del capitalismo è infatti una deontologia, un’etica naturale e semmai anche un diritto positivo. Non c’è affatto bisogno però che il legislatore di tale diritto positivo sia lo Stato, tale per cui qualcuno dice, maliziosamente, che se si criticano le agenzie di rating (presunti alfieri del laissez-faire), allora si è socialisti statalisti. Gli autori di quel diritto positivo vigente nel mercato, che se non deriva da quello naturale è un abuso, sono infatti gli attori stessi del mercato. Questo significa dire che il mercato si regola da sé. Prendiamo una partita a biglie fra ragazzi sulla spiaggia.
Tutti i giocatori sanno benone quali sono le regole (vengono invitati a partecipare a una cosa che conoscono non ricordano nemmeno più da quando: «Giochi a biglie?….»); succintamente, se è il caso, se le richiamano a vicenda; poi giocano. Un margine, del resto molto stretto, di variabili è ammesso, ma occorre accordarsi prima d’iniziare la partita. Se qualcuno bara, viene minacciato di essere escluso dal gioco senza ricorre ai genitori: anzi, i ragazzi sono allergici all’intervento dei genitori.
Ci pensano da soli a sbrigarsela, tra loro. Se addirittura un giocatore decidesse improvvisamente, durante il gioco, di modificare le regole, sarebbe peggio ancora: chi è già al comando fremerebbe poiché nessun ragazzo vorrebbe vincere mediante tanto clamoroso abuso, e se invece fossero i fanalini di coda a gradire l’alterazione del gioco, la partita salterebbe e i ragazzi litigherebbero.
E un ipotetico cartello di «più forti» che tiranneggiasse gli altri, verrebbe subito bollato come una banda di ragazzacci maleducati con cui mai più giocare. Il mercato, quello vero, l’unico, funziona allo stesso modo; e le agenzie di rating, che gongolano in assenza di regole, anzitutto morali, e di concorrenza, lo detestano. Come i sistemi totalitari.
Il mercato è il luogo di scambio palese e trasparente dove i mercanti entrano portandosi dietro tutto se stessi e le proprie merci; dove chi bara lo fa sotto gli occhi vigili degli altri; chi vende merci avariate può anche magari spuntarla ma è un ladro anche se non viene scoperto; e dove il confronto diretto tra le offerte aiuta i clienti a ottenere prezzi migliori e qualità superiori.
Trasparenza, concorrenza, certezza del diritto: sono i pilastri del vero capitalismo e tali sono perché il capitalismo è libertà dentro una regola (tra l’altro piuttosto conservativa), è deontologia, è norma, è natura umana fatta in un modo e non in un altro. Il che non significa che sia immacolato: umano, pecca quanto e come l’umano. Il paradiso in Terra non esiste. Ma corre una differenza abissale tra una partita a biglie e la dittatura delle bande di ragazzacci maleducati.