Nancy Sherman parla dell’immagine e della sensazione della virtù
Nancy Sherman, autrice di “Stoic Warriors: The Ancient Philosophy Behind the Military Mind” [I guerrieri stoici: l’antica filosofia che sottende l’impostazione militare] (ed. Oxford University Press), è docente di filosofia presso la Georgetown University e Titolare della cattedra di etica presso l’Accademia navale degli Stati Uniti.
Sherman ha voluto condividere con ZENIT il suo pensiero su come una “estetica del carattere” sia in grado di influenzarci e su come le buone maniere ci possano aiutare a crescere in una vita virtuosa.
Cosa intende per “l’immagine e la sensazione della virtù”?
«Con l’espressione “immagine e sensazione della virtù”, cerco di rendere l’idea di una “estetica del carattere”. In sostanza, mi riferisco all’immagine che gli altri hanno di noi, veicolata attraverso i comportamenti formali e attraverso il comportamento nel senso più generale dell’atteggiamento personale e interpersonale. Quest’ultimo può essere questione di immagine e gesti, tono di voce e postura, espressione del volto o più in generale del comportamento emotivo e fisico. Il modo in cui ci comportiamo è spesso un ingrediente importante del comportamento formale, come ad esempio guardare negli occhi la persona che si saluta o dimostrare gratitudine con un sorriso.
Direi che il comportamento formalo e il proprio atteggiamento in generale, sono un modo per veicolare il proprio comportamento socialmente sensibile. Pertanto, non è solo ciò che facciamo, ma come lo facciamo e come ci mostriamo agli altri che spesso ha implicazioni etiche»
Perché la buona educazione è importante?
«Ho iniziato ad interessarmi alla buona educazione durante il mio mandato come Titolare della cattedra di etica presso l’Accademia navale degli Stati Uniti. La prima volta che ho varcato l’ingresso dell’Accademia, sono stata colpita – come del resto avviene con tutti gli estranei – dall’attenzione dedicata alle buone maniere e al decoro.
“Onore, coraggio e impegno” sono le parole scritte sulle mura dell’Accademia, al posto della parola “Veritas” di Harvard. Ma ciò che è scritto sui volti e sui corpi degli allievi cadetti non è solo un impegno caratteriale ma anche un impegno ad un’estetica caratteriale. Certamente il mondo militare prende sul serio gli aspetti interiori di un certo carattere, ma altrettanto fa con i suoi aspetti esteriori.
All’ora dei pasti, i visitatori si dispongono per vedere una brigata di uniformi ben stirate e di corpi ritti. Ufficiali e allievi ufficiali accolgono i civili rivolgendosi a loro con “signore” o “signora”, con lo sguardo fisso e una decisa stretta di mano. I capelli sono a posto e le uniformi impeccabili; le loro camicie hanno pieghe mai viste negli abiti civili. Ma non è solo l’uniforme in ordine che dà l’impressione di una buona condotta degli allievi. È piuttosto l’atteggiamento generale che salta agli occhi del visitatore – quel senso di gentilezza e di rispetto, di prontezza e di senso civile.
Mentre osservavo queste cose nei giovani allievi ufficiali, mi chiedevo quale importanza rivestono nella vita civile alcuni aspetti del portamento esteriore. La mia risposta era che essi avevano un ruolo che i filosofi in particolare spesso esitano a difendere.
Eppure, come genitori, spesso insistiamo nell’ esercitare i nostri figli a guardare negli occhi le persone che salutiamo o che ringraziamo, o ad essere “presentabili” quando escono tra amici, ecc. Consideriamo alcune espressioni del volto o del corpo come parte di una condotta moralmente buona. E lodiamo o rimproveriamo sulla base di questi insegnamenti.
In questo senso, l’aspetto esteriore della virtù è talvolta legato ad aspettative relative agli aspetti interiori del carattere. Proprio su questo continuum tra l’aspetto interiore e quello esteriore mi sono soffermata nel mio libro. Al riguardo ho trovato una bellissima discussione nel “De Beneficiis” di Seneca, e tento di esplorare anche questa nel mio lavoro».
Le convenzioni esteriori ci aiutano a coltivare virtù autentiche o sono semplicemente una maschera ipocrita?
«Questa domanda solleva una importante obiezione contro le buone maniere, secondo la quale, esse condonerebbero e persino incoraggerebbero un atteggiamento poco genuino. I favori fatti brontolando possono offendere, ma un’apparenza di gentilezza che nasconde cattiveria può essere altrettanto offensiva nel suo inganno. Inoltre, un comportamento falso può alienare gli altri, ma anche se stessi.
Credo tuttavia che l’accusa di ipocrisia sia generalmente eccessiva; e contro questa accusa dedico diverse pagine.
Anzitutto, mentre l’esigenza di mostrare pienamente il proprio cuore può essere talvolta opportuno, sapere quando non lo è, richiede una certa sensibilità morale. Sapere quando stare al proprio posto, sapere quando un comportamento gentile può essere apprezzato mentre una piena apertura può esserlo meno, sembra rappresentare una cosa moralmente buona.
Inoltre, espressioni “in posa” – o potremmo dire “finte” – possono risultare gradite ad altri ed esprimere rispetto e fungere da auto-esortazioni. Sono un modo per anticipare un corrispondente cambiamento interiore. Cerchiamo di indurre dall’esterno un cambiamento interiore.
Questo trova qualche elemento di conferma in un recente studio sui meccanismi di risposta del volto. I ricercatori hanno dimostrato che coloro che sorridono mentre leggono i fumetti comici, li considerano più divertenti rispetto a chi li legge senza sorridere. Altri studi dimostrano che un’espressione del volto molto evidente può influenzare l’intensità emotiva.
Immanuel Kant, il grande filosofo illuminista tedesco del XVIII secolo, rende questa idea molto bene in uno dei suoi scritti, in cui afferma che “Gli uomini sono tutti attori – più sono tali, più sono civilizzati. Essi inscenano dimostrazioni di affetto, rispetto per gli altri, modestia e disinteresse senza ingannare nessuno poiché è generalmente sottinteso che essi non ne sono affatto sinceri”. “Ed è un’ottima cosa che questo avvenga nel mondo. Poiché se gli uomini continuassero a recitare questi ruoli, le virtù reali, le cui sembianze essi hanno per lungo tempo assunto, verrebbero gradualmente ad esistere e a riversarsi nella loro sfera di volontà”.
È significativo che questa tesi venga fuori dalle parole di Kant, in quanto è spesso ritenuto un filosofo quasi “moralistico” relativamente all’esigenza di non mentire. Eppure qui egli suggerisce che un po’ di recitazione – un po’ di quel “fare finta” – potrebbe far scorrere meglio l’ingranaggio della società e incoraggiare un cambiamento interiore del carattere».
Quindi, come parliamo, agiamo e ci comportiamo può aiutare a modellare la nostra stessa morale profonda e il nostro carattere. Ma è altrettanto importante per veicolare il giusto atteggiamento verso gli altri. È così?
«Come dicevo, a mio avviso, “fare finta”, o recitare un ruolo, può essere assai importante ai fini dell’interazione sociale. Erving Goffmann, un rinomato sociologo che ha effettuato studi sui ruoli sociali presso l’Università della Pennsylvania, ritiene che noi ci basiamo su di essi per molti dei nostri rituali sociali, tra cui gli atteggiamenti di deferenza e di rispetto. Ma la ricerca sostiene che essi hanno molto più a che fare con un cambiamento interiore di quanto non si pensi normalmente.
Seneca, uno stoico romano del primo secolo dopo Cristo, ha sottolineato la continuità tra il comportamento morale esteriore e quello interiore. La sua intuizione è che la gentilezza e la gratitudine sono atteggiamenti che si scorgono nell’ambito del comportamento generale. Pertanto diventa essenziale saper recitare “il ruolo della brava persona”.
E sorprendentemente per uno stoico – la cui dottrina dovrebbe essere scarna wary di elementi emotivi – egli afferma che la gentilezza e la gratitudine sono strettamente correlati ai sentimenti che esprimiamo attraverso il corpo, il linguaggio del volto e la voce. Nelle dimostrazioni di gentilezza e di gratitudine, egli scorge una sorta di nodo scorsoio nel linguaggio dei gesti espressione dei sentimenti.
Qualche citazione può rendere l’idea del suo pensiero. Noi generiamo ingratitudine quando facciamo favori facendoli pesare e quando siamo “oppressivi” e fastidiosi nelle nostre richieste: “Guastiamo completamente l’effetto, non solo dopo, ma anche mentre stiamo facendo il favore”.
Né solitamente esprimiamo il comportamento giusto se i favori ci vengono estorti: la nostra riluttanza si manifesta con le espressioni del viso o con parole livorose. Dovremmo poi evitare di fare doni in modo che risulti umiliante. Noi siamo fatti in tal modo che gli insulti “vanno più a fondo di qualsiasi servizio” e sono più “tenacemente ricordati” che la gentilezza.
“Nessuno può essere grato per un favore che gli viene gettato con arroganza o con rabbia”, o consegnato mugugnando con ostentazione, con una “espressione insolente”, con “parole gonfie di orgoglio” o con “un silenzio che dà l’impressione di una severità spietata” o in un modo semplicemente “irritante”. È come dare del pane con dentro le pietre.
Mostrare arroganza mentre si consegna un dono, semplicemente pregiudica la stessa buona azione: “Molti rendono odiosa la propria gentilezza a causa di parole rozze e altere. Il loro linguaggio e la loro noia sono tali da farti rimpiangere che la tua richiesta sia stata soddisfatta”.
Continua esortando: “Non lamentatevi mentre fate un gesto di gentilezza; lasciate i lamenti per un altro momento. Nessun elemento sgradevole dovrebbe essere ad esso mischiato”. In breve, doni che sono espressione di vera gentilezza sono consegnati “con un’immagine di gentilezza umana”, sia nel linguaggio delle parole e della voce o nell’espressione del volto o del corpo.
Pertanto, l’immagine e la sensazione della virtù sono importanti. Essi indicano buona educazione, anche se questa è talvolta recitata. Il punto è che una parte importante dell’interazione morale di ogni giorno è costituita proprio dalle buone maniere che “mostriamo” agli altri».
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