di Stefano Biavaschi
Fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce silenziosa. Forse è per questo che tanti giornalisti non riescono più a darci le buone notizie. O forse perché è più comodo stare seduti dietro una scrivania attendendo il fax con la caduta del prossimo albero che non uscire all’aperto in quella foresta cercando di ascoltarla. Dice il Catechismo: «È opportuno imporsi moderazione e disciplina nell’uso dei mezzi di comunicazione sociale» (CCC 2512).
«La purezza cristiana richiede una purificazione dell’ambiente sociale. Esige dai mezzi di comunicazione sociale un’informazione attenta al rispetto e alla moderazione» (CCC 2525). Si dirà che i media devono tener conto dell’indice d’ascolto. Giovanni Paolo II così replicava: «Non si può scrivere o trasmettere solo in funzione del grado di ascolto, a discapito di servizi veramente formativi. Non si può nemmeno fare appello indiscriminato al diritto di informazione, senza tener conto di altri diritti della persona. Nessuna libertà, inclusa la libertà di espressione, è assoluta» (Discorso al Giubileo dei giornalisti, 4/6/2000).
È ovvio che anche le brutte notizie debbano essere date, ma non possono costituire il fine o la parte più cospicua dell’informazione. Altrimenti il giornalista si trasforma in avvoltoio attratto solo dai cadaveri, senza valutare davvero chi siano i destinatari.
Si tiene conto dell’enorme pubblico di deboli, di bambini? Già papa Paolo VI aveva osservato: «L’altro polo del dovere morale, proprio dei giornalisti, è la vantazione dell’effetto, che ciò che si scrive produrrà sui lettori: di fatto l’opinione pubblica non è un’entità astratta e lontana, ma è la somma di persone singole, ciascuna con il suo carattere, con la sua formazione… È pertanto cosa grande e delicata parlare agli altri: a questa grande e sacra e complessa cosa, che è l’uomo; al semplice, all’inesperto, all’impressionabile, a chi non è ancora in grado di avere idee proprie, e di esercitare con maturità il suo giudizio». (Discorso al CNSI, 23/6/1966).
Senza consapevolezza di questo, i giornalisti diventano veramente “assassini dell’anima”. Il delitto non è quello da loro raccontato, ma quello da loro compiuto. Sono essi il vero oggetto della cronaca nera. Il mostro sbattuto in prima pagina non è il povero disgraziato su cui hanno acceso i riflettori, ma quello che si firma in calce all’articolo.
«Certamente la vostra professione comporta una grande responsabilità, responsabilità verso Dio e verso la comunità… In un certo senso il mondo è nelle vostre mani»: così diceva Giovanni Paolo II ai giornalisti di Los Angeles, e aggiungeva un monito: «II vostro lavoro può costituire una forza per fare un gran bene oppure un gran male… Tutti i media di cultura popolare che voi rappresentate possono costituire o distruggere, elevare o degradare. Voi avete indicibili possibilità di fare del bene, inquietanti possibilità di distruzione. È la differenza tra la morte e la vita, la morte o la vita dello spirito. Ed è una questione di scelta. La sfida di Mosè al popolo di Israele si applica oggi a tutti noi: “lo ti ho posto davanti la vita e la morte… Scegli dunque la vita” (Dt 30,19)». (Discorso agli operatori dei mass-media, 15/9/87).
Ci sono, dunque, le buone notizie da dare, le notizie che trasmettono vita. «Spesso il giornalismo contemporaneo cerca i peccatori nascosti nella società, così che i loro crimini siano rivelati», diceva ancora Giovanni Paolo II, augurandosi che il giornalismo invece «riveli i santi nascosti, quegli umili uomini e donne che insegnano ai giovani, che si prendono cura dei malati, che consolano gli afflitti… In un mondo così spesso diviso dai conflitti e dall’odio,… l’altruismo e il servizio agli altri… sono realmente interessanti; sono aspetti della buona novella di Cristo».
E aggiungeva che le buone notizie sono perciò possibili: «Ci sono dunque molte buone notizie da proclamare: le buone notizie di ciò che la Chiesa sta facendo nel nome di Gesù; le buone notizie di ciò che i singoli cristiani stanno facendo per amore di Gesù». (Discorso all’UCIS, 21/3/1985).
La stampa cattolica è forse l’unica che ancora riesce a dare buone notizie. Forse perché nasce da quella Buona Notizia (eu anghélion = Vangelo) che ci testimonia la Risurrezione di Cristo, l’evento unico che trasformò la cronaca nera di un delitto, di una morte in croce, in sorgente di Vita, di speranza per tutti: «La Buona Novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori» (CCC 2527).