di Sergio Romano
Lo Stato totalitario è la versione più radicale e coerente dello Stato etico. (…) Un regime totalitario sopprime il dissenso, riduce drasticamente i margini delle preferenze individuali, rompe le nervature tradizionali della società civile, spezza i legami che uniscono un cittadino alla sua corporazione civile o professionale, appiattisce la società.
Lo Stato sovietico poté ottenere questi risultati, naturalmente, perché si impose con la forza, conferì tutto il potere a un solo partito, imbavagliò la Chiesa, censurò qualsiasi manifestazione eterodossa. Ma non avrebbe raggiunto lo scopo se non avesse soppresso il diritto di proprietà.
Il diritto di proprietà
Credo che alla soppressione del diritto di proprietà non sia stata prestata grande attenzione e che tale negligenza sia dovuta alla scarsa considerazione di cui esso ha goduto per molto tempo in larghi settori delle società occidentali (…) Un cittadino privo del dititto di proprietà non ha nulla da difendere, nulla da acquisire, nulla per cui lottare, nulla da trasmettere. La proprietà è insomma è una parte integrante della nostra personalità.
Siamo ciò che possediamo e saremo giudicati per il modo in cui avremo conquistato la proprietà dei nostri beni. Non basta. La proprietà crea il diritto, produce una pluralità di leggi destinate a disciplinare i conflitti, a regolare i contratti, ad arbitrare le divergenze. Il regime sovietico fu totalitario anche e soprattutto perché soppresse il diritto di proprietà e, spogliando l’individuo dei suoi beni, lo dimezzò, lo impoverì moralmente e culturalmente, lo rese indifeso e invulnerabile. Non è un caso che la pagina più crudele della storia sovietica sia la guerra contro i kulaki.
Il regime nazista fu meno totalitario del regime comunista. Fu poliziesco, repressivo, brutale, razzista e violò in molti casi la proprietà privata, ma non abolì e non ruppe quindi le vecchie nervature della società civile tedesca. Non basta. A dispetto delle sue ambizioni totalitarie e delle sue velleità neopagane, non soppresse le due grandi famiglie del cristianesimo tedesco: la cattolica e la protestante.
E il fascismo? Mussolini usa spesso la parola «totalitario», esalta la funzione dello Stato etico, mobilizza e irreggimenta le masse, adotta alcuni degli aspetti più caratteristici del sistema totalitario. Ma conclude in realtà una serie di compromessi con alcune fra le maggiori istituzioni della società italiana: la monarchia, la Chiesa, il patronato industriale, i grandi corpi dello Stato, la burocrazia, le forze armate.
A queste grandi istituzioni italiane chiede omaggi formali: l’uniforme, il saluto romano, il «voi», la presenza comandate alle liturgie del regime. Ma permette che esse si amministrino con un notevole grado di autonomia, del tutto inimmaginabile in un regime comunista. Non è tutto. Riproduce in veste fascista alcuni fenomeni tipici del notabilato dell’Italia parlamentare prefascista.
I «ras» fascisti hanno diritto al loro feudo e godono in esso di una considerevole licenza. E’ il caso di Balbo a Ferrara e a Tripoli, Farinacci a Cremona, Barbiellini Amidei a Piacenza, Crollalanza a Bari, Ciano a Livorno. In alcuni casi – Volpi a Venezia – il feudatario non è neppure un militante in senso stretto. Lo stesso accade nelle grandi istituzioni: Gioacchino Volpe per la storia, Giovanni Gentile o Balbino Giuliano per la filosofia, Giotto Dainelli per la geografia.
Questa pluralità di boss territoriali o istituzionali ha una serie di effetti benefici. (…) Per pubblicare un libro o conquistare una poltrona conta, più della fede fascista, l’appartenenza al clan di Ciano, Balbo, Farinacci. Mussolini non è Stalin. E’ un mediatore, un direttore d’orchestra, un distributore di favori; sempre pronto a punire e a perdonare. E anziché sopprimere preferisce assegnare il boss troppo ambizioso o troppo scomodo a un esilio dorato: Balbo a Tripoli, De Vecchi a Rodi.
Fenomeno minaccioso
Occorrerebbe poi prendere in considerazione tutti quei regimi che le sinistre definirono fascisti, per meglio accreditare l’impressione di un fenomeno generalizzato e minaccioso, e che non furono in realtà né fascisti né totalitari. E’ il caso del franchismo in Spagna e del salazarismo in Portogallo. (…) Molti regimi autoritari adottarono per mimetismo alcune caratteristiche esteriori del fascismo: le camicie (nere, verdi, azzurre, brune), il saluto romano, le sfilate marziali, l’appello dei camerati morti per la fede. Lo fecero per accattivarsi la Germania e l’Italia nel momento della loro maggiore potenza o, più semplicemente, perché il fascismo fu considerato in quegli anni un modello vincente e soprattutto una efficace diga contro la minaccia comunista.
Ma il franchismo non fu né fascista, né tantomeno totalitario e cercò addirittura di accreditarsi, per quanto ciò possa apparire assurdo, come regime «apolitico». (…) Vi è un modo per verificare la reale natura di un regime totalitario, vero o presunto, ed è quello di esaminare il modo in cui un paese sopravvive e si trasforma nel momento in cui il regime scompare. La Germania fu distrutta, occupata dalle forze di quattro potenze e sottoposta per alcuni mesi a una sorta di processo collettivo.
Ma il nazismo non aveva distrutto il diritto di proprietà e il grande patrimonio legislativo che la società tedesca aveva costruito, per disciplinarlo, nei secoli precedenti. I bombardamenti non avevano colpito i codici, i precedenti giudiziari, i contratti. Nel giro di pochi anni, là dove le potenze occupanti favorirono questo processo, i tedeschi ricostruirono le case e le fabbriche, ricominciarono a lavorare e ritrovarono in tal modo le radici della loro antica democrazia. Sostenere che la democrazia tedesca fu il risultato della rieducazione americana è assurdo e, entro certi limiti, «razzista».
La differenza tra l’evoluzione delle due Germanie dopo la seconda guerra mondiale è più eloquente di qualsiasi argomento. Lo stesso accadde in Italia, non appena De Gasperi ed Einaudi poterono sbarazzarsi dei comunisti e dei socialisti di Nenni, allora alleati.
Un deserto per corsari
In Russia, invece, il crollo del sistema sovietico ha creato un enorme vuoto legislativo e culturale, un deserto su cui hanno piantato le loro tende immediatamente i corsari dell’economia e della finanza. Gran parte delle difficoltà sperimentate dalla Russia in questi anni è dovuta all’assenza di norme, consuetudini, precedenti e tradizioni in materia di proprietà.
Per uscire definitivamente dal totalitarismo comunista infatti non bastava sopprimere il partito unico e cambiare la Costituzione, occorreva costruire e regolare il diritto di proprietà e in ultima analisi crare una figura nuova, del tutto sconosciuta al regime sovietico: il cittadino proprietario . Molti di coloro che hanno criticato Boris Eltsin negli scorsi anni sono ex comunisti che avevano investito le loro speranze sul comunismo riformato di Gorbaciov. Temo non abbiamo capito che quanto è accaduto in questi anni in Russia è l’ultimo, inevitabile prodotto del totalitarismo sovietico.