A novant’anni dalla fine della Prima guerra mondiale Nicola Guiso torna sul suo lascito storico, che appare complessivamente negativo per l’uomo e per le società del nostro tempo. Un lascito ben definito dagli storici, ma lontano e confuso nella memoria collettiva e nella sensibilità delle attuali generazioni, alle quali mancano dunque importanti riferimenti per capire meglio le radici e la natura di fenomeni che ancora oggi provocano angoscia e paura nel mondo.
di Nicola Guiso
Gli esiti devastanti della Seconda guerra mondiale – che avevano radici profonde nella precedente – sono stati la spinta finale per collocare in una dimensione quasi atemporale e astratta i caratteri essenziali della prima «guerra totale» della storia, resa tale non solo dal coinvolgimento diretto di decine di milioni di soldati, ma anche di tutta la popolazione degli Stati belligeranti.
Per ricordare che alcuni fenomeni provocati da quella guerra incidono ancora (quasi sempre con implicazioni negative) nel tempo in cui viviamo, è dunque utile riparlarne. La fine delle ostilità fu accolta da un coro immenso di voci inneg-gianti a quella pace che papa Benedetto XV aveva invano con angoscia invocato, definendo la guerra, contro ogni retorica e ogni forzatura dei politici e dei militari, «inutile strage».
Seguì nei Paesi vinti e in quelli vincitori una crescente pressione delle masse di combattenti, di lavoratori e di cittadini del «fronte interno» per essere risarciti in misura adeguata degli enormi sacrifici di sangue e di lavoro compiuti in quattro anni. Anche se ciò avesse comportato di modificare o abbandonare istituzioni tradizionali e modelli di ordine civile e sociale del passato a favore di altri che si erano imposti per le esigenze belliche. La «guerra totale» aveva portato infatti alla sospensione di ogni tipo di elezioni; alla drastica riduzione dei poteri dei Parlamenti e alla crescita esponenziale di quelli dei governi centrali, a loro volta condizionati, in misure e forme sconosciute in passato, dal peso delle gerarchie militari.
Politici e militari s’erano, di fatto, trovati concordi sulla necessità che alle esigenze della «guerra totale» si potesse rispondere solo disponendo, e usando senza interferenze, di una autorità di decisione rapida e assoluta su ogni aspetto della vita e del lavoro dei soldati e dei cittadini. Consideravano pertanto l’estensione della disciplina militare alle forme essenziali di vita e di lavoro del «fronte interno» la prima condizione per assicurare non solo le armi e le risorse necessarie ai combattenti, ma anche e soprattutto la loro tenuta morale.
A questi fini venne adottata in tutti i Paesi una rigorosa censura sulla corrispondenza tra civili e soldati (e sul finire della guerra anche tra civili e civili) e su tutti i mezzi di informazione. Governi e Stati Maggiori si dotarono inoltre di strumenti sempre più sofisticati di propaganda: per esaltare gli obiettivi della propria guerra (sempre «sacri»), i successi (veri o presunti) delle proprie armi, per sottolineare il dovere dei cittadini di compiere ogni sacrificio richiesto nel proprio lavoro al fine di «contribuire alla vittoria», il dovere di dare la massima assistenza e conforto ai soldati al fronte, ai feriti e ai profughi di terre invase dal nemico, e quello di combattere spie e sabotatori.
Il ruolo decisivo dei media
In quest’opera di condizionamento la grande stampa quotidiana e periodica, le agenzie fotografiche e di informazione, la giovane industria cinematografica e la diffusione sistematica di grandi manifesti tematici diffusi in centinaia di migliaia di copie ebbero un ruolo decisivo. Gli stessi strumenti servirono per denunciare l’infamia dei nemici, in particolare all’opinione pubblica dei Paesi neutrali.
Esemplare fu per questo aspetto la denuncia degli anglofrancesi, nel 1914, che i soldati tedeschi erano soliti nel Belgio invaso tagliare le mani a bambini, spinti a tale aberrazione dalla Kultur germanica. Deluse nell’autunno del 1914 le speranze di una rapida conclusione della guerra, su tutti i fronti milioni di soldati sprofondarono nella terra e nel fango delle trincee.
I generali di tutti gli eserciti inventarono allora le cosiddette «battaglie di annientamento». Consistevano in attacchi frontali su pochi chilometri di fronte da parte di grandi masse di soldati, preceduti per molti giorni dal fuoco di migli aia di cannoni e dal lancio di gas asfissianti. Obiettivi di questa tattica erano quelli di provocare ai difensori perdite umane superiori a quelle dell’attaccante, e di sottoporre l’industria bellica e le strutture logistiche del nemico a un logorio tale da non poter essere colmato con nuove risorse umane e nuove produzioni.
Per dare un’idea della follia di questa tattica, basterà ricordare che gli attacchi dei tedeschi alle trincee e alle fortificazioni francesi di Verdun, tra il febbraio e il novembre del 1916, e quelli degli anglo-francesi alle posizioni tedesche della Somme, dal giugno al novembre dello stesso anno, furono preceduti per giorni dal fuoco ininterrotto di uno schieramento di artiglieria formato da un cannone ogni tre-quattro metri per circa venti chilometri.
Al termine delle due battaglie gli attaccanti avevano conquistato, massimo, alcuni chilometri di territorio nemico. Ma tra morti e feriti i tedeschi pagarono l’offensiva di Verdun con 335.000 uomini e i francesi con 360.000; la battaglia della Somme costò agli anglo-francesi 700.000 uomini (per due terzi inglesi) e 500.000 ai tedeschi.
Sul fronte italiano, dal maggio al dicembre del 1915, le prime quattro battaglie dell’ Isonzo costarono al nostro esercito quasi 300.000 uomini per la conquista di poche zolle di terra. Le trincee resteranno per sempre il simbolo della Prima guerra mondiale. Erano composte da un fosso più o meno profondo, non sempre dotate di rifugi collettivi scavati nei fianchi; erano protette con grovigli di pesante filo spinato, campi minati, postazioni di mitragliatrici e di bombarde. I soldati le presidiavano per settimane, esposti a tutte le intemperie, con pochi viveri e acqua, non sempre con indumenti adeguati, spesso diguazzanti nel fango.
Dopo la cosiddetta «terra di nessuno» le fronteggiavano quelle del nemico. Le trincee servivano per respingere gli attacchi avversari e da basi di partenza per le offensive. In questo caso – dopo che gli attaccanti avevano superato la «terra di nessuno» coprendola di morti e feriti per il fuoco delle mitragliatrici, dei fucili e delle bombe a mano dei difensori -, se l’artiglieria era riuscita ad aprire varchi percorribili nel filo spinato, attaccanti e difensori lottavano «corpo a corpo» in spazi angusti, usando le armi personali: fucili, pistole, baionette, pugnali, mazze ferrate.
Vivere e combattere nelle trincee costrinse per la prima volta milioni di uomini a essere proiettati in una dimensione fisica, psicologica e morale sconosciuta in passato; dominata da sofferenze acutis-sime e da esaltazioni senza limiti, effetti soprattutto della scoperta in sé stessi e nei compagni di istinti feroci, di duro egoismo, ma anche di grandissima generosità, carità e di profondo «cameratismo».
Nostalgia il del fronte
L’esperienza delle trincee provocò dunque una rottura epocale anche nel campo della morale e della cultura durante e dopo la guerra. Mai, infatti, tanti uomini vissero quotidianamente, istante per istante, con percezione chiara, nello spazio che separa la vita dalla morte. E l’una e l’altra potevano apparire circonfuse di luce o avvolte nel buio. Ma avevano comunque la capacità di trasformare tanti soldati in esseri radicalmente diversi da quelli che erano stati nella precedente vita civile, di lavoro, familiare. Ciò creava in essi un mondo interiore e fisico legato alla trincea, che poteva apparire suggestivo e gratificante.
Tanto che, molte volte, suscitava nel soldato in licenza il desiderio di tornare rapidamente al fronte. Era un modo di sentire che torna insistente in libri e film ispirati alla guerra. Ma lo ha confermato – fuori da ogni suggestione estetica e culturale – un uomo dello spessore di padre Teilhard de Chardin, che il 28 maggio 1915 scriveva alla cugina Marguerite Teilhlard-Chambon: «Tra otto giorni, con il tempo libero che ci daranno, incomincerò certamente ad avere nostalgia del fronte».
La realtà della guerra di trincea, dei suoi valori e disvalori è ormai dissolta nella memoria collettiva. Resta solo nelle pagine di libri e di film-testimonianza, che potrebbero aiutare molti giovani a capire meglio inquietanti fenomeni del nostro tempo. Tra i libri si devono ricordare II fuoco del francese Henri Barbuse; Tempeste d’acciaio e Niente di nuovo sul fronte occidentale dei tedeschi Ernst Junger ed Eric Maria Remarque; Le tappe della disfatta dell’austriaco Fritz Weber; / vecchi soldati non muoiono mai dell’inglese Frank Richards; Trincee e Un anno sugli altipiani degli italiani Carlo Salsa ed Emilio Lussu. E tra i film West front di Pabst, All’Ovest niente di nuovo di Milestone, Orizzonti di gloria di Kubrick, La Grande guerra di Monicelli.
Della guerra sul monte S. Michele Carlo Salsa ha scritto: «Un bordo della trincea è tutto rigonfio di morti che si mescolano in un viluppo confuso: sono quasi tutti cadaveri di soldati austriaci; molti – inamidati da una patina untuosa — sono riversi nella fanghiglia, nello stesso senso, nella stessa positura, come sardine; si scorgono alcune teste allineate lungo l’orlo, altre che pencolano, altre non segnalate se non da ciuffi di cappelli impeciati […]. Delle mani, logore e spolpate come guanti smessi, s’artigliano in un gesto estremo, protese in un inutile tentativo di aggrapparsi alla vita […]. Dalle pareti pantanose della trincea affiorano qua e là scarpe chiodate, involti rigonfi, dita adunche di gente sepolta o sprofondata lentamente nella terra; anche il fondo sul quale siamo sdraiati ha ogni tanto delle gibbosità più sode. C’è, a metà del camminamento, un ginocchio piegato che emerge: serve come punto di ritrovo durante la notte per la distribuzione del caffè e dei viveri, quando giungono…».
È questa drammatica forma di vivere che rivela senza ombre la parte migliore e quella peggiore dell’uomo. Salsa ricorda il suo attendente sardo che muore nel tentativo di salvare un ferito austriaco che, nella «terra di nessuno», invocava la madre. Ma ricorda anche un capitano che, «dopo un attacco, fece mettere in fila i prigionieri e, così, per semplice barbarie, scaricò i colpi della sua Glisenti sui primi sei disgraziati». In previsione di una guerra di lunga durata – da alimentare con sempre più giovani soldati per colmare i vuoti aperti dai morti e dai feriti, e con una quantità enorme di armi, munizioni, equipaggiamenti, viveri, mezzi di trasporto – gli Stati furono costretti a quella che Ernst Junger, in un saggio diventato classico, chiamò la «mobilitazione totale».
Comportava che la vita e il lavoro di ogni cittadino, l’attività di ogni impresa produttrice di beni e di servizi, ogni fonte di energia e di materie prime, le organizzazioni sindacali e di categoria, ogni associazione venissero inquadrati in piani predisposti per la massima valorizzazione delle loro energie e delle loro capacità creative e operative, al fine di accrescere le capacità belliche della nazione. La realizzazione dei piani era affidata alla direzione autoritaria di organi civili e militari.
La «mobilitazione totale» portò alla radicale trasformazione dei modelli di Stato che si erano affermati in Occidente a partire dal 1815. Il prototipo fu realizzato in Germania, tra il 1916 e il 1918, da Walter Rathenau – presidente della Siemens, uno dei maggiori gruppi industriali tedeschi – in simbiosi con il capo di Stato Maggiore generale dell’esercito, maresciallo von Hindenburg, e del suo aiutante generale Ludendorff.
Le politiche economiche
Ma, sia pure in forme meno rigide, anche i governi e i militari di Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia, Austria-Ungheria, Giappone e Stati Uniti adottarono modelli di «mobilitazione totale» negli ultimi due anni di guerra; e a essi ispirarono l’attività delle istituzioni e i programmi produttivi tutte le nazioni coinvolte nella Seconda guerra mondiale. Lenin e Stalin utilizzarono le esperienze di Rathenau per orientare e accelerare l’industrializzazione dell’Unione Sovietica.
E a esse si ispirarono anche molte politiche di intervento programmato dello Stato nell’economia nei Paesi occidentali e non solo – a cominciare dall’Italia con l’Iri – per far fronte agli effetti della crisi economica del 1929. Politiche che hanno poi segnato e segnano, nel bene e nel male, molta parte della storia economica della seconda metà del ‘900 e i primi anni del nuovo millennio.
La guerra e la «mobilitazione totale» furono anche all’origine di una grande rivoluzione tecnologica e industriale. Dovute all’impiego su scala sempre più vasta in terra, in mare e nei cieli del motore a scoppio, alla diffusione delle centrali elettriche alimentate dal carbone e dal petrolio, allo sviluppo dell’industria chimica e metallurgica, ai nuovi prodotti derivati del carbone (in particolare in Germania, perché il blocco navale non consentiva più ai tedeschi l’accesso alle fonti di produzione del caucciù e del petrolio: dal carbone si produsse benzina e gomma sintetica), al diffondersi dell’uso di acciai speciali, di materiali non ferrosi, di nuove materie plastiche e di tessuti artificiali nelle produzioni di guerra.
Bastano alcuni esempi a evidenziare la natura e la portata della rivoluzione tecnologica legata alla «mobilitazione totale». Ai piloti dei pochissimi, traballanti e buffi aerei del 1914 capitava qualche volta di lanciare sul nemico, a mano, bombe di non più di un chilo. Nel 1918 inglesi e tedeschi disponevano di stormi di bombardieri plurimotori, ciascuno dei quali poteva portare sino a tre tonnellate di bombe (alcune anche del peso di 1.000 chili) da sganciare, gli uni, sulle industrie della Rhur, gli altri su Londra.
Nello stesso anno, i cantieri tedeschi riuscivano a costruire un sommergibile al giorno. Nei quattro anni di guerra, milioni di feriti diedero un impulso eccezionale al progresso in ogni campo della medicina: dall’asepsi alla anestesia, dalla chirurgia d’urgenza all’avanzamento delle tecniche di trasfusione del sangue, dagli interventi agli occhi e alla calotta cranica alla realizzazione di protesi artificiali sempre più funzionali.
Ma, nonostante lo sforzo messo in atto per contrastare la potenza militare e industriale della Germania, gli Stati dell’Intesa furono costretti a ricorrere alle risorse finanziarie e industriali degli Stati Uniti d’America. Che, scesi a loro fianco nel 1917, ebbero dalla guerra la spinta decisiva per imporre al mondo una egemonia economica e politica, i cui effetti durano ancora. Resa subito evidente dal fatto che nel 1914 la I produzione industriale dell’Europa costituiva il 61% di quella mondiale e, nel 1918, solo il 41 %.
Le conseguenze della guerra furono traumatiche anche sul piano sociale. Portò alla rapida pauperizzazione delle classi medie, in particolare di quelle a reddito fisso, a causa della galoppante inflazione alimentata nei Paesi belligeranti dalla rarefazione e dal rapido aumento di costo dei prodotti destinati ai civili, nonché dalla stampa sistematica di moneta con cui i governi coprivano in parte le enormi spese di guerra.
In parallelo si registrò la forte crescita, sia numerica sia di peso sociale e politico, dei ceti operai e contadini (e nell’immediato dopoguerra dei loro sindacati e partiti di riferimento), a causa della piena occupazione creata dall’espansione dell’industria bellica. Un fenomeno all’interno del quale ebbe particolare risalto – con intuibili conseguenze sociali e di costume – la rapidissima espansione in tutti i campi della manodopera femminile.
Il peso dei ceti agricoli si accrebbe, perché i governi dovettero corrispondere almeno in parte alle promesse di riforme agrarie per i braccianti e di politiche di sostegno per i piccoli e medi proprietari, fatte al fine di assicurare la disciplina e la combattività di milioni di soldati-contadini.
Le esperienze esistenziali, di organizzazione e di lotta della guerra di trincea, infine, fecero scoprire nell’immediato dopoguerra – in particolare in Russia, in Germania, in Italia, in Turchia e in Ungheria – il valore della violenza armata sistematica quale arma risolutiva dei conflitti politici.
In Russia fu l’Armata Rossa di Trockij a decidere, a favore dei bolscevichi, il confronto con i menscevichi e con i residui dello zarismo. In Turchia fu l’esercito di Kemal Ataturk a liquidare il sultanato, a imporre col sangue il regime laico-nazionalistico e a battere i greci che tentavano di realizzare le proprie rivendicazioni territoriali. In Italia, le tec-niche di guerra e l’organizzazione dei reparti scelti d’assalto, gli «Arditi», furono adottate dagli «squadristi» fascisti nella lotta per la conquista del potere.
II trasferimento della violenza
In Germania i «Corpi franchi», reparti composti da militari e da volontari, stroncarono nel 1919, a Berlino e in Baviera, le insurrezioni degli «spartachisti» e dei comunisti, e combatterono duramente contro l’abbandono delle terre tedesche assegnate ai cechi e ai polacchi dal trattato di Versailles. E già a partire dal 1923 divennero il nucleo costitutivo delle «Squadre d’assalto» (le SA) che, usando le tecniche della guerra di trincea, conquistarono ai nazisti strade e città, e spianarono a Hitler la conquista del potere.
Per fissare l’essenziale delle implicazioni che ebbe il trasferimento dalle trincee alla lotta politica della violenza armata è esemplare questo passo de I Proscritti di Ernst von Salomon, grande scrittore e volontario nei «Corpi franchi», in cui descrive come venne stroncata la rivolta spartachista: «Ci battemmo dappertutto con le guardie rosse che tiravano dai tetti, scivolammo incollati ai muri delle case, intorno agli angoli, fucile imbracciato, cercando qualche spiraglio aperto; rimanemmo in agguato verso barricate costruite in fretta, ci allungammo in terra dietro colonne di avvisi e di fanali, sfondammo porte e ci precipitammo su per scale oscure, sparammo su tutto ciò che portava armi e non apparteneva alla truppa, e qualche volta stendemmo nella strada anche uomini disarmati, anche donne, anche bambini, qualche volta…».
L’odio metafisico e culturale per il nemico, su cui si era retta la psicologia di guerra in tutti gli Stati e che aveva sconvolto le coscienze di tanti soldati, si trasferì dunque sul terreno delle lotte politiche, sociali e dei conflitti razziali, e venne poi rilegittimato e rilanciato dai portatori di vecchie e nuove ideologie anticristiane, il comunismo e il nazismo. Ma anche da correnti culturali di matrice borghese – esse pure partorite o esaltate dalla guerra – che sconvolsero i costumi, invocarono la distruzione di ogni tradizione esaltando il nichilismo.
Nei primi mesi del 1919 Tristan Tzara diffonde a Parigi un manifesto «dadaista», che proclama: «Non più artisti, non più letterati, non più musicisti, non più scultori, non più repubblicani, non più realisti, non più religiosi, non più imperialisti, non più anarchici, non più socialisti, non più bolscevichi, non più politici, non più proletari, non più democratici, non più borghesi, non più aristocratici, non più soldati, non più poliziotti, non più patrie; ne abbiamo le tasche piene di tutte queste imbecillità, più niente, più niente, niente, niente, niente».
Appelli del genere, che partivano dalla capitale di uno degli Stati vincitori, trovarono immediato riscontro in quella del maggiore tra gli Stati vinti. Ne Il mondo di ieri Stefan Zweig così descrive la Berlino del dopoguerra: «Lungo le vie del centro passeggiavano giovani imbellettati dalla vita artificiosamente sottile […] e nei bar, al buio, si vedevano segretari di Stato e personaggi della finanza corteggiare teneramente e senza vergogna marinai ubriachi […]. Nei balli travestiti centinaia di uomini in abiti femminili e donne in abiti maschili danzavano sotto lo sguardo benevolo della polizia». Di fronte alla crisi epocale innescata dalla guerra, le classi politiche tradizionali delle grandi nazioni europee e degli Stati Uniti fecero naufragio; non ebbero la percezione che essa aveva sconvolto il quadro di valori e di istituzioni sui quali l’Occidente si era retto sino al 1914.
Per questa incapacità il nazionalismo, che aveva contribuito in modo cospicuo a dare fuoco alle polveri, alla conferenza per la pace di Versailles del 1919 venne riproposto quale elemento-base per rimodellare il volto politico dell’Europa; e il parlamentarismo delle élites borghesi della belle époque fu considerato ancora idoneo a corrispondere alle nuove pressanti domande poste dalle masse di militari e di civili coinvolte nella guerra.
Ma esse non furono in grado di opporre resistenza all’attacco delle ideologie totalitarie dell’immanenza — comunismo e nazismo — e all’autoritarismo fascista, che si proponevano la creazione nella storia dell’uomo nuovo e di società perfette attraverso la nazionalizzazione e la collettivizzazione delle masse, che nella disciplina esaltata da capi carismatici avrebbero contribuito a realizzare i più alti destini della nazione, la pace vera, l’ordine e il benessere dei popoli.
La guerra aveva spianato la strada alla nazionalizzazione e alla collettivizzazione delle masse, sacralizzando il principio della disciplina individuale e collettiva sui campi di battaglia e nel «fronte interno», celebrata da capi militari e civili dotati di poteri eccezionali e realizzata attraverso rigide catene gerarchiche.
Una disciplina certamente passiva, ma che finiva per essere consapevolmente accettata da milioni di uomini, convinti che fosse il prezzo per giungere alla pace vittoriosa che avrebbe assicurato anche un ordine civile e sociale superiore a quello del passato per ogni combattente e cittadino e per le loro famiglie.
Nella guerra 1914-1918, dunque, i totalitarismi di massa di ieri e di oggi hanno trovato alcuni dei «valori» e degli strumenti più efficaci per affermarsi, e per avvelenare gli uomini e le società del nostro tempo con il loro carico di suggestioni, di violenza, di morte e di distruzioni.