Avanzano proposte di legge per punire chi offende le religioni. La Santa Sede di oppone. Perché nascondono il disegno islamista di confermare ed esportare la legge contro la blasfemia. Grazie alla quale in Pakistan vengono imprigionati e condannati a morte i non musulmani
di Andrea Morigi
A una domanda tanto scontata, benché posta assai di frequente in occasione delle cicliche “crisi delle vignette”, si può rispondere senza cadere nella banalità: i cattolici sono non violenti perché l’esempio e la parola di Gesù Cristo trasmessi attraverso la Chiesa insegnano loro a essere miti e umili di cuore, ma senza per questo fingere che non sia accaduto nulla.
Basti citare le numerose sante Messe di riparazione celebrate il 24 gennaio 2012, in occasione di una rappresentazione teatrale in cui il Volto di Cristo era divenuto il bersaglio di atti sacrileghi. Quei sacrifici, offerti anche per la conversione dei bestemmiatori, sono certamente più efficaci di qualsiasi manifestazione pubblica poiché, secondo san Giovanni della Croce, il più piccolo atto di perfetto amore di Dio ha maggiore importanza agli occhi di Dio, maggiore utilità per la Chiesa e per l’anima stessa che lo fa, di tutte le altre opere puramente esteriori messe insieme.
Se però il quesito sulla differenza di reazione fra cattolici e musulmani fosse più articolato, si potrebbe invece iniziare a ragionare sugli obiettivi di chi si diverte a provocare proteste anti-occidentali nei Paesi islamici notando che, invece di contribuire ad affermare il diritto alla libertà d’espressione, i registi e i disegnatori che se la prendono con Maometto finiscono regolarmente per ottenere l’effetto contrario.
L’ONU e le leggi antiblasfemia
Avanzano infatti presso l’Onu e negli organismi internazionali le risoluzioni favorevoli alle leggi anti-blasfemia. Al termine dell’estate del 2012, il pretesto per introdurne una nuova formulazione è stata la serie di attacchi provenienti dalla stampa satirica francese, ma soprattutto la diffusione di alcuni spezzoni di un film, The Innocence of Muslims, in cui ci si prendeva gioco di Maometto.
Vale la pena di ricordare che il bilancio delle proteste contro il regista e contro gli Stati Uniti (dove peraltro sta subendo un processo) ammonta a 47 vittime e a numerose decine di feriti. Non vanno considerati morti casuali, ma alla stregua di sacrifici (umani), non tanto espiatori quanto propiziatori. Servono infatti allo scopo politico-religioso di pretendere con più decisione che al Palazzo di Vetro di New York si attui l’agenda dei Paesi dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, che da oltre un decennio promuove la criminalizzazione di ogni critica rivolta contro l’islam.
L’ultimo risultato, risalente al 2011, consiste in un documento approvato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Affinchè la proposta godesse dell’assenso degli Stati Uniti, si è concordato un testo un po’ più annacquato, rivolto più che altro contro l’intolleranza verso le religioni. Leninisticamente, si può fare un passo indietro pur di farne due avanti.
Perché non si punisce chi incita al terrorismo?
Parallelamente alla campagna di sensibiliz-zazione mondiale sull’islamofobia, intanto si procede su un altro fronte della “guerra santa”. Se qualcuno pensasse che, conseguentemente alle spinte per affermare il divieto di “diffamazione delle religioni”, anche gli appelli all’odio che risuonano nelle moschee di tutto il mondo, Italia compresa, sarebbero passibili di censura, dovrebbe ricredersi. In base alle leggi vigenti in molti Paesi occidentali, la predicazione rivolta a suscitare ostilità nei confronti dei cosiddetti “infedeli” è già in teoria punibile.
Eppure, soltanto raramente arriva una sanzione anche nei confronti di chi prepara il terreno al terrorismo, con l’opera di radicalizzazione prima e con l’attività di reclutamento poi. Se si tratta di stranieri, la misura più efficace consiste nell’espulsione dal territorio nazionale e nel rimpatrio nel Paese d’origine.
Chi non può essere privato del permesso di soggiorno, perché è cittadino comunitario, come nel caso di chi ha acquisito la cittadinanza di un Paese europeo, preferisce invece passare al contrattacco, trascinando in tribunale, con esose richieste di danni per diffamazione, chi osa indicare il pericolo dell’islamizzazione delle società scristianizzate.
L’elenco dei querelati è tanto esteso quanto indicativo del livello dello scontro. Il più bersagliato di tutti è forse Magdi Cristiano Allam, che oltre alla guerra santa nei tribunali deve subire anche minacce alla propria incolumità fisica. S’è convertito al cattolicesimo, quindi è automaticamente giudicato un apostata e, in quanto tale, un nemico dell’islam da eliminare con ogni mezzo, sebbene ciò che è lecito per la sharia, la legge coranica, sia illecito per il diritto dei Paesi civili.
Perché la Santa Sede si oppone
Ecco perché va riconosciuto un duplice obiettivo dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica che, presentando i musulmani come vittime di un’aggressione mondiale, cela in realtà il tentativo di difendere la “legge nera”, cioè il famigerato articolo 295 e del codice penale pakistano, a causa del quale molti rischiano la condanna a morte o la carcerazione a vita per blasfemia.
Non è certamente l’unico, ma è senz’altro un primo elemento che indica il motivo per il quale la Santa Sede, nella sua azione diplomatica, si oppone con costanza e tenacia a proposte sulla diffamazione delle religioni. Potrebbe altrimenti apparire incomprensibile, visto che in realtà è proprio la Chiesa cattolica l’organizzazione più calunniata al mondo.
È bene chiarire che il dissenso dei rappresentanti vaticani non è dovuto né a una scarsa considerazione della sensibilità dei credenti di tutte le religioni, né a un eccesso di garantismo nei confronti di chi compie gesti sacrileghi, ma ha il fine di evitare di fornire ulteriori argomenti giuridici a chi, come il Pakistan, incarcera e condanna a morte i cristiani accusati di aver mancato di rispetto al Corano o al profeta dell’islam.
In numerosi Paesi, inoltre, il confine fra l’apostasia e la blasfemia è particolarmente sottile e i musulmani che si convertono ad altre religioni rischiano la vita. Ma per il magistero della Chiesa, la libertà religiosa degli individui, non meno che dei gruppi, è un bene da tutelare universalmente, anche a costo di sopportare il disprezzo da parte del mondo.
L’avvocato cristiano Naeem Shakir, che difende in tribunale molte vittime della legge sulla blasfemia, spiegava all’agenzia Fides, il 9 febbraio 2012, che «con la maschera di evitare la bestemmia e la blasfemia, questi gruppi vogliono imporre il loro stile di vita e una interpretazione restrittiva dell’islam alla società.
Vogliono ledere i diritti e le libertà individuali, soprattutto delle minoranze religiose e delle donne. Vogliono sfidare perfino le leggi scritte». Ma attualmente, proseguiva l’avvocato, «la questione della legge sulla blasfemia è sparita dal dibattito pubblico: da un lato perché gli attori politici l’hanno tralasciata, in quanto non conviene toccare un argomento così delicato alla vigilia delle elezioni generali; dall’altro perché il grado di intolleranza nella società è così alto che è difficile per l’uomo comune o per i gruppi della società civile affrontare tali temi senza rischiare di essere seriamente colpiti, fino a perdere la vita».
Una questione di diritto naturale
Alla 67a Assemblea generale delle Nazioni Unite, monsignor Dominique Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati e Capo della delegazione della Santa Sede, ha affermato che le Nazioni Unite rimarranno un punto centrale di riferimento solo «se la legislazione a livello internazionale sarà improntata al rispetto della dignità della persona umana, a partire dalla centralità del diritto alla vita e alla libertà religiosa».
Questione di diritto naturale, insomma, come ricorda spesso Papa Benedetto XVI. Il ministro degli Esteri vaticano ne riprende il magistero ricordando che «l’inalienabile dignità e valore di ogni persona umana» viene prima di qualsiasi legge o consenso sociale.
E non è sufficiente «il formale rispetto» dei trattati e di altre fonti del diritto internazionale, ma «solo andando oltre tale determinazione le istituzioni nazionali o internazionali evitano di subire manipolazioni o coazioni che intervengano nelle vite dei singoli cittadini».