di Marcello Veneziani
Giovanni Sartori è il maestro di coloro che sanno nel regno della politica. Non insegna solo agli studenti ma anche agli studiosi, e vorrebbe impartire lezioni di politica non solo agli studenti e ai professori, ma anche ai politici. Il suo prestigio è pari alla inapplicabilità dei suoi precetti: i politici sono infatti impermeabili ai teoremi del professore e ai suoi rimbrotti.
Il suo prestigio è particolarmente accresciuto dalla sua collocazione geografica che in un paese provinciale come l’Italia, con forte vocazione alla colonia, conta moltissimo: Sartori infatti appartiene come l’economista Modigliani, il giornalista Furio Colombo per anni negli States, e pochi altri, alla cerchia privilegiata degli zii d’America, ovvero dei maestri italiani con passaporto negli Usa. In un paese esterofilo come il nostro i pensieri in trasferta, come i goal in coppa, valgono il doppio. Figuriamoci poi quelli enunciati dagli States.
Sartori ha generato negli studi politologici come Hegel una destra e una sinistra sartoriana. oltre che naturalmente un centro.Lui si tiene un po’ super partes anche se le sue finestre sull’Italia spiegano meglio dei suoi saggi la sua collocazione: egli scrive sul Corriere della Sera e su l’Espresso. ovvero il giornale-istituzione con la fama dell’equidistanza e il settimanale di orientamento collocato nettamente a sinistra.
Ma il saggio che Sartori ha pubblicato in questi giorni mi pare tendenzialmente destrorso. E questo, lo confesso, mi fa piacere. Il libro è piccolo e si legge d’un fiato, come si suoi dire stupidamente e spesso a sproposito: ma questa volta è vero e la cosa non è poi del tutto lusinghiera per un libro che ha la consistenza di un tascabile (tipo la collana Il nocciolo di Laterza) ma un prezzo di copertina tre volte superiore. Pluralisrno, multiculturalismo e estranei, edito da Rizzoli, evidentemente risente del cambio perdente della lira in dollari e royalties per il Professore (110 pagine scritte in corpo abbondante, lire 27mila).
Dicevo che il libro di Sartori segna una mezza svolta destrorsa dello studioso. Innanzitutto la polemica strisciante che percorre tutto il libro è con il multiculturalismo di estrazione marxista, con il «fasullo terzomondismo nel quale confluiscono sinistre e populismo cattolico».
In secondo luogo l’atteggiamento di Sartori sull’immigrazione è improntato ad una certa severità e diffidenza e ad un parco uso di concessioni e aperture. In terzo luogo c’è una critica a chi vede razzismo dappertutto ed una rivalutazione delle comunità organiche. Se non fosse Sartori, non so come sarebbero state accolte riflessioni e affermazioni di questo tipo: «L’Europa è sotto assedio, e oramai accoglie immigranti soprattutto perché non sa come fermarli» ma «il problema non può essere risolto e nemmeno attenuato dall’accogliere più immigrati. Gli entrati non servono a ridurre il numero degli entrandi; semmai servono a richiamarne di più» (pp.96-7).
In particolare Sartori critica le sanatorie in massa e l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina che resta, a suo parere, «una cattiva immigrazione».
In terzo luogo, Sartori respinge il teoremino in uso nel progressismo circa uno strisciante razzismo. Sartori nega che l’Italia sia o possa diventare un paese razzista. Nega. in polemica con il ministro Turco, che estendere il diritto di voto possa prevenire atteggiamenti razzisti e nega che ci sia una discriminazione fondata sul colore della pelle o sulla povertà: gli asiatici, nota Sartori. sono entrati poverissimi ma non sono affatto disprezzati. E i neri, aggiungerei, sono visti con minor diffidenza dei bianchi albanesi o serbi; a dimostrazione che non è questione di razze ma di maggiore disponibilità alla criminalità. Resistere ad un’invasione di immigrati non è razzismo, dice Sartori.
Ma «ammesso e non concesso che questo sia razzismo, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato». L’accusa di razzismo che è in fondo oggi l’architrave delle accuse che il progressismo rivolge ai suoi nemici, è per Sartori «un accusa sbrigativa. superficiale. che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente. Chi viene denunziato come razzista senza esserlo, s’infuria, e magari finisce per diventarlo davvero».
Sartori contesta il progetto multiculturale che, a suo dire, può solo approdare a un «Sistema di tribù», a separazioni culturali disintegranti, non integranti. E nota che il criterio principe per assorbire gli immigrati è la reciprocità: ti accogliamo e ti tolleriamo a condizione che tu non ti senta estraneo e ostile alla nostra società, alle sue leggi, ai suoi valori. La vera difficile compatibilità resta per Sartori con gli islamici che hanno una visione del mondo teocratica, opposta a quella occidentale.
Ma la vera «scoperta» in questo libro di Sartori è la comunità. Il politologo nota che quando la sovrastruttura (la nazione, lo Stato sovrano, l’impero) si disgrega, torniamo inevitabilmente all’infrastruttura primordiale, la comunità, intesa come organismo vivente. Sartori sposa l’idea di comunità nell’accezione più classica e più forte, quella di Tonnies che identifica con la «comunità concreta».
La comunità, secondo Sartori identifica il comune sentire e può ben riferirsi anche a comunità larghe. «Ma parlare di comunità mondiale, come fa Dahrendorf è pura retorica, è vaporizzare il concetto di comunità» (Le stesse cose avevo scritto nel mio saggio Comunitari o libera? – compresa la distinzione tra comunità chiuse e comunità aperte o pluralistiche – e avevo contestato a Dahrendorf in un dialogo con il filosofo anglotedesco).
Restano un palo di dubbi su alcune sue tesi. Il primo: se davvero la tolleranza è fondata come lui dice sulla reciprocità, allora diventerebbe pressoché impraticabile e non solo con gli immigrati. Se davvero, come lui dice, il cittadino contro è inaccettabile, che ne sarebbe di cittadini cattolici in un paese laico, e viceversa; di cittadini anticomunisti in un paese aperto ai comunisti, e così via? La reciprocità è un ottimo ideale regolativo: ma nella realtà diventerebbe impossibile, va temperata.
Altro dubbio. Per Sartori la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione ed una responsabilità speciale è della «Chiesa cattolica che si ostina responsabilmente a promuovere le nascite». In realtà la sovrappopolazione in sé non ha mai automaticamente prodotto il fenomeno dell’immigrazione: il fatto nuovo della globalizzazione, la possibilità di accedere dappertutto, e dunque il girone di ritorno della colonizzazione e del villaggio televisivo globale.
Quanto poi al boom demografico. le “colpe” della Chiesa sono assai modeste se si considera che più dei quattro quinti del pianeta non sono cattolici e i paesi a più alto tasso di natalità sono islamici, shintoisti, induisti, buddhisti e non certo cristiani. Il messaggio della Chiesa si rivolge all’occidente cristiano dove le bare superano le culle: non recapitiamolo all’indirizzo sbagliato.