Al contrario le mettono intenzionalmente in pericolo. Vogliono solo favorire la migrazione Sea Watch è costata in un anno quasi 3 milioni di euro
di Bruno Tinti
Io continuo a pensare che l’impossibilità di confrontare serenamente e razionalmente le opinioni dipenda da Internet. Umberto Eco lo aveva predetto: «prima» le idiozie venivano esternate nelle osterie e facevano presa su una percentuale, sia pure significativa, di un ristretto numero di avventori; «dopo» vengono propalate sul web e raggiungono decine di migliaia di frequentatori, per lo più incapaci di distinguere se si tratta –appunto- di idiozie o di corretta informazione.
È quello che sta succedendo con la vicenda della Sea Watch. La moltitudine dei difensori della Ong (di tutte le Ong che operano nel Mediterraneo) e del capitano Carola Rackete sostiene questo sillogismo:
a) Premessa maggiore: la vita umana è bene primario.
b) Premessa minore: le Ong salvano vite umane.
c) Conclusione: per salvare vite umane (beni primari) si può violare ogni norma che tuteli beni secondari.
Si tratta in realtà di un paralogismo: la premessa minore è erronea. Le Ong non salvano vite umane. Al contrario le mettono intenzionalmente in pericolo. Quello che vogliono è favorire la migrazione. A questo scopo ogni Ong si è data una struttura economica e operativa.
Fausto Biloslavo su Il Giornale, ha fornito informazioni impressionati: «Sea Watch è costata nel 2018 oltre un milione e mezzo di euro (lavori in cantiere dell’anno prima e due gommoni). Si devono aggiungere 304.069,65 euro per spese equipaggio e personale amministrativo a Berlino e Amburgo. Ancora: viaggi e voli di equipaggi e attivisti: 61.980,36 euro, assicurazione, ormeggi e tasse portuali: 100mila euro, viveri per equipaggio e migranti: 36.456,76 euro, telecomunicazioni: 22.661,23 euro, carburante: 80mila euro, manutenzione: 77mila euro, «fornitori di servizi esterni» (?): 102.172,57 euro, spese burocratiche: 192 mila euro, team italiano (lobbisti): 62.815,17. Ci sono poi due aerei, uno costato 100.000 euro che ha compiuto un’operazione (?) 262.435,00 euro. Carburante e tasse aeroportuali: 162.360,00 euro. Totale, circa 2.700.000 euro, pagati dalla federazione evangelica tedesca.»
Dunque, «salvare vite» è costato, nel 2018, quasi 3 milioni di euro. Tempo fa ho appreso che un immigrato (clandestino, che si era rivolto al mio studio legale, imbarcatosi in Libia dopo un lungo viaggio attraverso mezza Africa) ha mantenuto per oltre due anni la sua famiglia in Bangladesh con i 2,5 euro giornalieri che riceveva dallo Stato durante il periodo di attesa della sentenza definitiva sul suo diritto a ricevere il permesso di soggiorno.
Cinque persone (padre, madre, fratello, moglie del fratello e bambina) hanno vissuto per oltre due anni con 75 euro al mese. I 3 milioni spesi per la Sea Watch avrebbero mantenuto in vita ogni anno 200 mila persone. A casa loro. Da dove non avrebbero avuto motivo di allontanarsi per affrontare un viaggio attraverso Somalia o Etiopia, poi Mali o Niger o Sudan, infine Libia (il mio clandestino ci ha impiegato un anno e mezzo), e alla fine un soggiorno di imprecisata durata nei famigerati lager libici. Né avrebbero avuto motivo di imbarcarsi su gommoni malsicuri con elevata probabilità di affogare.
Dubito che Sea Watch abbia, nel 2018, «salvato 200 mila vite». Ma, se anche tante fossero state, il «salvataggio» ha avuto come ineliminabile conseguenza, l’abbandono in un Paese straniero che non le voleva, il passaggio in clandestinità e –soprattutto- la mancanza di mezzi di sussistenza alle famiglie rimaste nei Paesi di origine. Chiunque, anche Sea Watch, capisce che i tre milioni di euro all’anno sono stati proprio buttati dalla finestra. Allora, perché?
Prima di rispondere alla domanda, un’altra considerazione. Un migrante disperato attraverserebbe il canale di Sicilia a nuoto? Ovviamente no, se non per uscire dalla sua disperazione con il suicidio. Eppure, se sapesse che Sea Watch e le altre Ong non lo raccoglieranno, che il mare è un deserto dove si troverà solo, solo questo gli rimarrebbe da fare. Oppure potrebbe rinunciare a migrare.
Dunque è assolutamente evidente che la massiccia migrazione attraverso il Mediterraneo è dovuta alla ragionevole certezza o rilevante probabilità (in realtà non tanto rilevante ma la disperazione è una molla potente) che qualcuno li raccoglierà.
D’altra parte che le Ong siano lì per questo, che gli aerei pattuglino la zona per questo, che ci siano accordi tra Ong e trafficanti libici (metteteli in mare e noi arriveremo) lo sappiamo noi e lo sanno loro. Allora è evidente che la causa prima della necessità di «salvare vite» sta proprio nella predisposizione dell’operazione di salvataggio. Mettiti in pericolo e io verrò a salvarti.
La risposta al «perché» adesso è facile. Sea Watch e le altre ritengono che favorire la migrazione dai Paesi poveri ai Paesi ricchi sia cosa buona e giusta. Quindi si organizzano per trasportare i migranti. Naturalmente non possono mettere in piedi un servizio navetta ufficiale, prelevandoli in territorio libico e sbarcandoli in Europa (sul dove in Europa si apre un altro discorso).
Quindi li «salvano» in mare. Che è come dire: la casa in cui abiti è pericolante e insalubre; assicurala e dalle fuoco; io sono pronto a portare una scala fino al terzo piano e a «salvarti»; l’assicurazione ti darà un po’ di soldi e tu ti rifarai una vita. Tutti contenti. Meno l’assicuratore. Ma chi se ne frega.
Tutto questo ha, deve avere, conseguenze penali; ne parlerò. Ma al momento è evidente che le ipocrite ammonizioni lanciate al nostro Paese («salvare vite non può mai essere un reato») sono non pertinenti. C’è chi lo sa benissimo e parla imbiancando i suoi sepolcri; e chi non capisce niente: ma «l’ho letto su Internet