di Sandro Fontana
Per capire l’origine e la natura del pacifismo, che ha sempre avuto un ruolo decisivo nella storia politica italiana ed europea dal 1945 a oggi, è necessario partire dai due eventi che ne hanno determinato la nascita. Il primo riguarda la sconfitta dei partiti comunisti nei Paesi occidentali quando come in Italia vennero in un primo tempo estromessi dal governo (maggio 1947) e poi clamorosamente battuti alle elezioni politiche (18 aprile 1948). Il secondo evento riguarda la stipulazione dell’alleanza militare nordatlantica, cioè della Nato, che venne sottoscritta il 4 aprile 1949 da ben dodici Paesi e cioè: Belgio, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Islanda, Italia, Canada, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Usa; ai quali si unirono successivamente anche la Grecia, la Turchia, la Repubblica Federale Tedesca e la Spagna.
Nella diffusione capillare dell’ideologia pacifista in ogni Paese ebbe un ruolo determinante il Partito comunista italiano: e ciò non solo perché si rivelò fin dal 1946 il più grande Partito comunista occidentale, ma anche perché era guidato da un uomo come Togliatti che per la sua abilità e spregiudicatezza Stalin aveva sempre utilizzato e valorizzato per la diffusione mondiale del comunismo.
Ma il 1949 non è stato soltanto l’anno della nascita della Nato. È anche l’anno in cui l’Urss riuscì finalmente a sperimentare la sua prima bomba atomica, la quale per la propaganda comunista divenne subito un’«arma di pace», cioè capace di rompere il monopolio anglosassone e di agire come deterrente nei confronti dei disegni dei guerrafondai occidentali.
Ma il 1949 è anche l’anno nel quale Mao proclama a Pechino la Repubblica Popolare Cinese, con cui Stalin si affretta a stabilire una solida alleanza politica e militare trentennale. Questi eventi – da un lato la bomba atomica sovietica e dall’altro l’avvento della Cina di Mao – di fatto venivano a capovolgere a vantaggio di Stalin la situazione internazionale e consentivano a quest’ultimo di sferrare su scala planetaria l’offensiva pacifista per cercare di incrinare la tenuta politica dei governi europei solidali con gli Stati Uniti d’America.
In concreto, Stalin ebbe la sensazione di poter realizzare in quegli anni un disegno egemonico e imperialistico che aveva coltivato fin dal 1937, quando cioè affermava con grande convinzione: «Gli zar hanno fatto molte cose cattive. Hanno rapinato e soggiogato il popolo. Hanno condotto guerre e si sono impadroniti di territori nell’interesse dei grandi proprietari fondiari. Ma una cosa buona l’hanno fatta: hanno creato uno Stato enorme, sino alla penisola Kamseatka in estremo Oriente. Noi abbiamo ricevuto in eredità questo Stato. E per la prima volta noi, bolscevichi, abbiamo reso coeso e rafforzato questo Stato come Stato unitario e indivisibile, non nell’interesse dei grandi proprietari e dei capitalisti, bensì a vantaggio dei lavoratori, di tutti i popoli che costituiscono questo Stato».
Con l’avvento della Cina di Mao, l’antico disegno euro-asiatico di Stalin appariva perciò a portata di mano: si trattava ora solo di disarticolare, con abilità e destrezza, tutte le società occidentali che s’erano alleate con gli Usa.
La grande offensivaIn questo quadro internazionale, mentre venivano accelerati i preparativi per l’invasione della Corea del Sud da parte del regime nord-comunista di Kim II Sung, venne predisposta e lanciata nei primi mesi del 1950 quella che, per intensità e durata, può essere considerata la più grande offensiva pacifista nel corso della guerra fredda. La decisione di lanciare a livello mondiale una campagna capillare di interdizione della bomba atomica, venne presa a Mosca nel Politburò del 17 gennaio 1950 al fine di promuovere le necessarie «Misure per un ulteriore sviluppo del movimento dei Partigiani della pace».
L’organizzazione di un Congresso mondiale dei Partigiani della pace, che si tenne a Stoccolma dal 15 al 19 marzo 1950, venne di fatto affidata al Partito comunista francese, cioè a Maurice Thorez, che indicò alla presidenza del Congresso il fisico nucleare filocomunista Frédéric Joliot-Curie, premio Nobel nel 1935. Il quale fece approvare dal Congresso un appello contro il ricorso alla bomba atomica «come arma di intimidazione e di sterminio di massa».
Nell’appello, che doveva essere diffuso e sottoscritto nelle società occidentali, si auspicava anche un rigoroso controllo internazionale che assicurasse il rispetto di questa indicazione, nonché la condanna del governo che per primo avesse utilizzato quest’arma come «criminale di guerra» e come responsabile di «crimine contro l’umanità».
Da quel momento in tutti i Paesi europei, e in particolare in Italia e in Francia dove operavano i più forti partiti comunisti dell’Occidente, prendeva il via un’azione capillare, continuativa e ossessiva di propaganda pacifista sotto la guida mondiale di Stalin e all’insegna della doppiezza e della menzogna.
E ciò, non solo perché, mentre veniva promossa la propaganda pacifista, proseguiva la rincorsa agli armamenti da parte dell’Urss cui venivano allora attribuite da politici come Emilio Lussu 170 divisioni di fanteria, 35 divisioni motocorazzate e 60 divisioni di artiglieria; non solo perché nel frattempo veniva invasa la Corea del Sud contro le truppe delle Nazioni Unite e con il «soccorso» di oltre 300 mila volontari cinesi al fine di dimostrare come la maggiore potenza militare del mondo non fosse invincibile; non solo perché, mentre i Paesi europei erano impegnati nella ricostruzione post-bellica e venivano investiti da una crescita industriale senza precedenti, la propaganda comunista puntava tutto, contro ogni evidenza, sulla «crisi europea», cioè sul fallimento della ripresa economica e della ricostruzione post-bellica; ma soprattutto perché la propaganda pacifista, che in Italia faceva capo all’Ufficio Nazionale Organizzazione guidato da Pietro Secchia, veniva svolta non dalle cellule o dalle sezioni del partito ma a nome dei «Partigiani della Pace» per impedire all’opinione pubblica di identificare il Pci con il movimento pacifista.
Intervenendo nel Comitato centrale del 12-14 aprile 1950, Togliatti sosteneva infatti, a proposito dell’Europa, che «se non fossero intervenute dal di fuori delle forze reazionarie a mantenere in vita il regime di Franco, il regime di De Gasperi e di Salazar, il regime clericale austriaco, il regime di Bidault in Francia e così via, in questa Europa occidentale esisterebbe già un’altra situazione politica e sociale». Secondo il segretario del Pci il blocco elettorale del 18 aprile 1948 non era altro che «un dispositivo politico e sociale di preparazione a un ritorno alla reazione aperta, cioè al fascismo; e di preparazione di un nuovo conflitto internazionale, cioè alla guerra».
Di fronte a uomini come Gedda e a giornalisti come Missiroli, Lupinacci e Ansaldo, Togliatti riusciva a diventare persino triviale manifestando tutto il proprio disgusto nel vedere «galleggiare nelle acque torbide della politica italiana questi rifiuti della fogna fascista». Per Togliatti il nuovo obiettivo della propaganda comunista doveva essere la disintegrazione del blocco politico e sociale raccolto intorno a De Gasperi e all’alleanza con gli Usa.
Come Hitler,E anzi peggio
Non deve perciò sorprendere se per conseguire questo risultato il Pci, nelle numerose scuole di partito a sostegno della propaganda pacifista, paragonava gli americani, che avevano liberato con enormi sacrifici l’Europa da Hitler, agli stessi nazisti: «L’America», veniva affermato, «si comporta come Hitler e peggio di Hitler. Considera gli altri popoli come razza inferiore. Adopera la violenza in Corea come Hitler in Polonia. Così quelli che ieri servirono Hitler credendo che il compito della Germania fosse quello di salvare le nazioni europee, oggi non fanno altro che trasferire all’America questo compito, con l’identico risultato di ieri». Ma poiché anche la doppiezza non poteva essere spinta oltre certi limiti, per non diventare controproducente, persino Togliatti fu costretto in due precise occasioni a gettare la maschera.
La prima si verificò quando sembrava possibile ottenere anche la firma di Giuseppe Saragat in calce all’appello di Stoccolma. In quella occasione si sviluppò ai vertici del Pci – cioè nella direzione del 24-25 maggio 1950 – un dibattito serrato che venne alla fine risolto dall’intervento conclusivo di Togliatti, il quale fu costretto a sostenere come lo scopo della campagna pacifista non fosse tanto quello di conseguire la pace, quanto di contrapporre al blocco degasperiano un più vasto e minaccioso blocco antiamericano. «La nostra mobilitazione», disse allora Togliatti nel respingere la firma di Saragat, «non è soltanto pacifista e umanitaria, ma antimperialista e antiamericana, né bisogna fare scomparire questo suo carattere».
Con queste parole il capo del Pci fece capire che bisognava attenersi rigidamente alla linea indicata da Mosca, cioè a una posizione contraria al riformismo socialdemocratico, che veniva considerato da Stalin una riedizione aggiornata del socialfascismo. L’altra circostanza, sempre legata alla megalomania imperialistica di Stalin, discendeva per Togliatti dalla necessità di prendere le distanze da certo «pacifismo astratto» che rischiava di essere rivolto anche contro la continua crescita degli investimenti sovietici nel settore militare-industriale.
Non a caso proprio in quei mesi la stampa di partito metteva in guardia i militanti contro un concetto «ideologicamente nocivo» di «pacifismo indiscriminato», che non avrebbe consentito al Pci di coinvolgere le «masse grigie e dubbiose» che andavano sottratte all’egemonia centrista della Dc.
Insomma, per ammissione dello stesso Togliatti, veniva sottolineato il carattere strumentale e ambiguo della vasta campagna pacifista e antiamericana che venne intrapresa nel 1950 dal Pci. Il quale riuscì a raccogliere circa 17 milioni di firme in calce all’appello di Stoccolma e a ottenere in ogni angolo del Paese l’adesione di prestigiose personalità del mondo cattolico (come Igino Giordani e Giovanni Gronchi, allora Presidente della Camera), del mondo della cultura (come Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Ada Gobetti e Franco Antonicelli), dell’arte (come Felice Casorati e P. Barzizza direttore dell’orchestra della Rai), dell’industria (come Vittorio Valletta presidente della Fiat e l’ing. Bertolone presidente della Riv-Officine) e così via.
Certo, tutte quelle firme (che erano più del doppio degli otto milioni di voti raccolti il 18 aprile dal «Fronte del Popolo») andavano ridimensionate anche perché, per esplicita ammissione dello stesso Pietro Secchia, in molti casi vennero raccolte più adesioni dalle stesse persone.
Sta di fatto che, secondo le stime del Pci, il risultato finale della campagna pacifista corrispondeva all’85,1% dell’obiettivo fissato all’inizio della mobilitazione, al 34,1% del totale degli italiani e al 205% dei voti ottenuti dalle sinistre il 18 aprile. Come si vede siamo in presenza di un successo enorme e sorprendente: il quale, se da un lato testimoniava il desiderio di pace diffuso in una società uscita stremata e ferita da una guerra che, dalla Sicilia alle Alpi, aveva attraversato e martoriato l’intero territorio nazionale, dimostrava dall’altro la notevole capacità di penetrazione propagandistica e di coinvolgimento politico del Pci presso ogni realtà sociale, civile e culturale italiana.
Si trattava di un successo che naturalmente venne subito sfruttato da Togliatti il quale, intervenendo il 18 luglio 1950, a una riunione di partito a Roma, sosteneva, senza rinunciare alla doppiezza, che il Pci poteva disporre di un esercito di 30 mila funzionari e militanti che si sentivano pronti a dare battaglia e che «saprebbero come affrontare un nuovo periodo di lotta clandestina, sfruttando le esperienze del passato e aggiungendovi la recente preparazione».
Una ricerca imponente
Come si può notare, il periodo di storia italiana che va dal 1949 al 1954 rappresenta una pagina della nostra vicenda nazionale che non può essere assolutamente ignorata anche perché essa ha finito col provocare una sorta di mutazione antropologica nel cittadino medio italiano: il quale da allora ogniqualvolta avverte che la pace è in pericolo nel mondo è portato a manifestare irriducibili sentimenti pacifisti purtroppo sovente imbevuti di spirito antia-mericano.
Per nostra fortuna l’intero periodo è stato oggetto negli ultimi anni di una ricerca imponente e meticolosa da parte di un giovane studioso, Andrea Guiso, che insegna storia contemporanea alla Sapienza di Roma e che è allievo di Gaetano Quagliariello.
Nella sua opera (La colomba e la spada, Rubbettino Ed., Soveria Mannelli 2007, pp. 686, euro 38), egli non solo ha esaminato i dibattiti parlamentari dedicati al tema della pace, non solo ha consultato i documenti approvati a livello locale e nazionale dai maggiori partiti di massa come la Dc e il Pci, ma ha anche esplorato gli archivi delle prefetture e delle questure che allora potevano disporre di confidenti riservati presso i vari partiti e avevano il compito di seguire l’azione di penetrazione capillare del Pci presso tutte le pieghe e tutte le articolazioni sociali e civili della società italiana.
Andrea Guiso nella sua avvincente e dettagliata ricerca ha esaminato anche tutta la stampa periodica dedicata all’informazione dei militanti comunisti (come il Quaderno dell’attivista) e ha consultato una notevole mole di documenti sull’attività delle più importanti Federazioni provinciali del Pci (come quelle di Bologna, di Torino, di Milano e di Roma): il tutto collegando puntualmente l’evoluzione nazionale del Pci agli sviluppi e alle direttive dell’Urss e del Kominform sulla base dei documenti resi accessibili agli studiosi dopo il crollo dell’impero sovietico.
Il risultato di questa importante e imponente ricerca è un volume di oltre 670 pagine, il quale deve soprattutto aiutarci a capire quali pericoli mortali, in quegli anni cruciali, avrebbe corso la nostra libertà se la sua difesa non fosse stata affidata a un pugno di uomini liberi e forti come i vari De Gasperi, Scelba, Einaudi, Saragat e La Malfa.